Il quarto di cinque racconti scritti per RadioTre. Le storie dei braccianti africani

4. Volevano bruciarci vivi, mi ha salvato l’ombra di Dio

  I giorni della rivolta in Calabria. Alle quattro di mattina nelle rotonde di Castel Volturno. Sul tappeto rosso di Venezia accanto a Quentin Tarantino. Il nostro primo sciopero in Campania: "Non lavoro per meno di 50 euro". Ci chiamate schiavi, ci chiamate clandestini. "Noi saremo ricordati", abbiamo scritto sui muri di Rosarno. Come i fratelli americani nei campi di cotone, anche noi stiamo scrivendo la storia
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A settembre la strage a Castel Volturno. Poche settimane dopo, ancora piombo sui nostri fratelli, questa volta a Rosarno. Una rapina. La prima protesta è stata abbastanza pacifica. A un anno di distanza ci hanno sparato di nuovo. Questa volta neanche l’ombra di un motivo. Non ci abbiamo visto più. Abbiamo spaccato insegne e macchine. Noi pensavamo che avessero ammazzato alcuni fratelli, loro pensavano che avevamo ferito le loro donne. Alla fine non è morto nessuno, ma ci hanno cacciato via. In migliaia, via dal paese, con i treni, le automobili, a piedi. Quelli che erano concentrati nelle fabbriche diroccate, li ha portati via la polizia, sui pullman. Ma in tanti eravamo nei casolari nelle campagne, spesso ruderi senza il tetto.

Ci cercavano. Avevano le taniche col kerosene, volevano bruciarci vivi. E i fucili con i pallini di piombo, quelli che usano per la caccia al cinghiale. Se ti beccano muori lentamente, dissanguato, sono piccoli frammenti di metallo che non è possibile estrarre. Alcuni miei fratelli se li porteranno nelle gambe per tutta la vita.

Nessuno sapeva dove eravamo, tranne Giuseppe e qualche altro volontario. Ci hanno salvato e portato via. Gli italiani non sono tutti uguali, per fortuna. E neanche i rosarnesi. Poi io e i miei compagni abbiamo camminato lungo i binari della ferrovia, anche dentro le gallerie, per raggiungere la stazione e prendere il treno della salvezza, verso la Campania.

Come si sopravvive senza una casa, scappando dalla polizia, fuggendo dai criminali? Con la fede. Molti sono cristiani, altri musulmani. La mia fede è quella Baha`i. È una religione sincretica nata in Persia nell’Ottocento. Crediamo nei profeti: Adamo, Abramo, Mosè, Zoroastro, Krishna, Buddha, Gesù, Maometto. Penso che in ogni religione ci sia traccia della gentilezza dell’uomo. E un’ombra di Dio.

Poi abbiamo pensato allo sciopero. Lavoriamo a giornata con il caporalato, tra Napoli e Caserta. Alle quattro di mattina prendiamo gli autobus di linea fino alle rotonde stradali che sono fuori dal paese e che chiamiamo “Kalifoo Ground”, il terreno dove ci comprano per otto ore, nei campi o nei cantieri.

Ma prima dello sciopero, avevo un impegno. A Venezia. Sì, sul tappeto rosso del Festival del Cinema. C’erano giornalisti di tutto il mondo, c’era Quentin Tarantino. È stato come un sogno. Cosa ci facevo lì? Un raccoglitore di arance africano alla Mostra del Cinema? Semplice, ho accompagnato un amico regista che aveva girato un documentario su Rosarno. Mi sono visto sullo schermo e mi ha fatto una bella impressione. Alla fine, avevo fatto qualcosa di grande per tutti gli immigrati che sono in Italia.

Poi è arrivato l’8 ottobre 2010. Per me è una data importante.  Da Afragola a Castel Volturno, come un’onda, migliaia di persone, divisi in tutte le rotonde e gli incroci stradali. Avevamo un cartello, tutti lo stesso: “Oggi non lavoro a meno di 50 euro”. Davamo volantini agli automobilisti: “Siamo uomini o caporali?”. Il nostro primo sciopero. Però, non è certo una cosa che riguarda solo gli africani. Quanti italiani lavorano per meno, perché anche loro non si uniscono a noi?

Quella giornata io la dedico a Jerry Essan Masslo. È arrivato in Italia nell’88, fuggiva dal Sudafrica dell’apartheid, il padre era scomparso dopo un interrogatorio della polizia. Aveva chiesto asilo in Italia, ma in quegli anni i rifugiati ammessi erano soltanto quelli dell’Est socialista. Jerry Masslo, per vivere, è costretto ad andare a Villa Literno a raccogliere i pomodori. La prima stagione è solo fatica, durante la seconda arriva la morte. Anche in quel caso razzismo mafioso. Noi continuiamo la sua lotta, teniamo vivo il suo sogno.

Ci chiamate clandestini, vero? Magari in buona fede, pensate che i clandestini sono quelli cattivi, in realtà sono semplicemente quelli senza un pezzo di carta in regola, secondo le vostre leggi. Quelli che hanno perso il lavoro. Quelli che non hanno i soldi per comprare un contratto di lavoro falso, come si usa in Italia. Quelli che non trovano qualcuno che gli faccia un finto contratto da colf, come una volta mi ha consigliato un poliziotto, aggiungendo: lo fanno tutti. Quelli che non hanno i soldi per organizzare un viaggio di ritorno e poi un altro viaggio, perché così funzionano i vostri flussi, l’unico modo ufficiale di entrare in Italia e che non ha mai funzionato.

Ci chiamate anche schiavi. Prima di andare via da Rosarno, abbiamo scritto sul muro: “Noi saremo ricordati“. Come gli schiavi americani nei campi di cotone. Come i politici che scelsero la strada dell’abolizionismo e quelli che vollero mantenere le catene. Saremo ricordati dalla storia, e stiamo lottando perché i nostri figli siano liberi. È chiaro adesso? Non è solo questione di pomodori o arance.

I racconti scritti per RadioTre

Questi racconti sono tratti dal libro «Voi li chiamate clandestini», di Laura Galesi e Antonello Mangano, edizioni Manifestolibri [Scheda del libro]. Sono andati in onda su RadioTre Fahreneit.


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