Viaggio nelle città dove i profughi spazzano le strade. Gratis

  Pulire strade e tagliare erba. Senza retribuzione. È quello che fanno – da almeno sei anni - i richiedenti asilo. È “integrazione” o manodopera gratuita per i comuni in crisi? Il decreto del governo sana una situazione che esiste in decine di città. I migranti sono i più ricattabili. Ma non gli unici: anche per gli italiani poveri provano il “diritto condizionale”. Un cambiamento di paradigma dal welfare al workfare
Condividi su facebook
Condividi su whatsapp
Condividi su email
Condividi su print

Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro – Articolo 36 della Costituzione Italiana

 

Isaias ha abbandonato il suo paese perché non ne poteva più del lavoro forzato. In Eritrea il servizio militare può durare tutta la vita. C’è persino chi lavora gratis nelle miniere. È scappato da quell’incubo. Dopo aver toccato il suolo europeo, ha pensato: “È finita. Mai più lavoro da schiavo”. Si sbagliava.

Integrarsi spazzando

In Parlamento, il governo ha proposto “lavori di pubblica utilità, finanziati con fondi europei” per i richiedenti asilo ospitati in Italia. Senza nessuna retribuzione.

Anche il Washington Post ne ha scritto. Tutti parlano di una nuova opportunità. In realtà si tratta di una specie di sanatoria. Da almeno sei anni in decine e decine di comuni, in particolare quelli del Centro – Nord, ci sono “progetti di volontariato” che spesso mascherano lavoro gratuito. I primi risalgono al 2011. Solo tre anni dopo, una circolare ne regolava alcuni aspetti.

Il confine è molto sottile ma esiste. Un progetto di volontariato ha un inizio e una fine. Se invece diventa attività ordinaria, come spazzare le strade del centro, è lavoro.

Si parla di volontariato e integrazione. Ma ovunque sono chiamati soltanto a spazzare strade

Il governo vorrebbe scongiurare “il clima di contrapposizione” tra residenti e ospiti. Si parla infatti di “prospettive per l’integrazione”. In tutta Italia, però, i migranti fanno praticamente una cosa sola: pulire strade e giardini. Per i comuni è una manna del cielo. Sfruttando il livore diffuso contro i “parassiti che prendono 35 euro al giorno”, possono in parte rimediare alla cronica mancanza di fondi.

Dai paesini del nord Est a quelli dell’Emilia e della Toscana, fino alle grandi città come Milano e Genova, i progetti si moltiplicano. Anche a Roma sta studiando un protocollo tra Comune e Prefettura.

Ribellioni

L’idea del lavoro gratis nasce molto tempo fa. E anche le proteste. Nel gennaio 2015 a San Minato, provincia di Pisa, cinque maliani, senegalesi e gambiani hanno detto basta a un progetto del comune.

Dopo mesi di lavoro gratis (indovinate? Pulivano le strade…) hanno chiesto una regolare retribuzione. “Perché noi, persone come tutte le altre, dovremmo pulire le strade gratis? Questo è un lavoro, perché non viene pagato?”.

In molti casi il lavoro gratis è rifiutato all’origine. Con grande scandalo della stampa di destra. Due anni fa, a Palmanova (Udine) 34 afghani hanno rifiutato il “progetto di volontariato”: per l’ennesima volta pulizia stradale. Lo riportava con raccapriccio il “Giornale d’Italia”, diretto da Francesco Storace. Secondo la stampa locale, i profughi sono andati fino a Udine a protestare dal prefetto.

Ci devono ricompensare per l’accoglienza. Altrimenti li rimandiamo a casa

Un anno fa, a Gragnano Trebbiense, provincia di Piacenza, i richiedenti asilo pakistani preferivano “distribuire volantini a 10 euro l’ora”, anziché pulire – gratis – i pozzetti intasati del paesino di 4mila anime. La sindaca, riporta “Il Giornale”, è scandalizzata: “Hanno il dovere di restituire qualcosa a chi li ha accolti. E se si rifiutano di farlo devono essere rispediti a casa”.

Negli ultimi anni la maggior parte dei profughi si è trovata invischiata tra il limbo dell’accoglienza emergenziale e le frontiere italiane. Molti volevano andare verso il Nord Europa. Tutti desiderano una risposta veloce alla richiesta di documenti. Nessuno sopporta l’idea di non mandare soldi a casa.

Ma già lavorano

Nel 2016 in Italia c’erano 86mila richiedenti asilo, ospitati in gran parte nei “CAS”, centri di accoglienza straordinaria. Sono strutture improvvisate affidate a enti gestori che hanno spesso l’interesse a prolungare la permanenza degli ospiti.

In questi anni ci sono state decine di proteste di richiedenti asilo che chiedevano tempi rapidi. Le più violente a Bari e Mineo, provincia di Catania, con lanci di pietre.

Tantissimi richiedenti asilo lavorano già. Nelle campagne e sotto i caporali

Nonostante si pensi il contrario, nonostante siano accusati di “non volere fare nulla”, molti richiedenti asilo lavorano già. E in condizioni di grave sfruttamento. Accade nelle campagne di Mineo per la raccolta delle arance (il succo potrebbe finire a note multinazionali); accade per la raccolta delle clementine nelle campagne di Corigliano (il Cara vicino è quello di Isola Capo Rizzuto) dove i richiedenti asilo pakistani lavorano per cifre così basse che anche i romeni rinunciano. Accade persino nel ricco Chianti. A Vittoria, sud est siciliano, nella terra delle serre, il lavoro a basso costo dei richiedenti asilo ha abbassato il prezzo dei romeni, che a sua volta aveva dimezzato quello dei tunisini.

Utilità sociale

Il decreto legge del governo non fa che ribadire il “lavoro volontario” regolato da una circolare di due pagine datata 2014 e firmata Ministero dell’Interno. Ovviamente non si parla di lavoro (sarebbe illegale) ma di eventuali progetti di volontariato. Questo significa che non è prevista retribuzione, occorre fare un’assicurazione e i migranti devono iscriversi a un’associazione. Le attività non possono avere fine di lucro e devono avere una utilità sociale.

L’equivoco tra volontariato (copertura formale) e lavoro (situazione di fatto) continua.

Nonostante il rischio di incostituzionalità, le cronache della stampa locale sembrano fotocopie. Raccontano con entusiasmo di migranti che finalmente si danno da fare. Armati di pettorine, vanghe e ramazze vagano dal centro alle periferie. Le popolazioni locali applaudono entusiaste, dimenticando la riprovazione per i neri che “stavano con le mani in mano”.

Prima gli italiani

Le politiche sui “diritti condizionati” non riguardano solo gli stranieri. Nel 2015 è iniziato il programma governativo “#diamociunamano” (con l’immancabile hashtag).

Un’idea all’inglese che condiziona il sostegno al reddito all’impegno in attività socialmente utili. Con circa 100 progetti avviati, è sostanzialmente un fallimento.

Usando i soggetti in assoluto più ricattabili, il governo ci riprova. L’idea è semplice: usare fasce di popolazione bisognosa (migranti a cui servono i documenti; indigenti che hanno bisogno di sussidi) per lavori non più “retribuibili” dagli enti pubblici.

Il diritto condizionato

È vero che a volte i migranti passano mesi “a non fare nulla”. Ma il vero problema sono i tempi infiniti per ottenere l’asilo. Sbattuti in alberghi e centri improvvisati, spesso in paesini fantasma o luoghi di montagna, vivono in un limbo che dura mediamente due anni. Le proteste contro queste attese non si contano più.

Gli esperti di asilo, inoltre, parlano di diritto condizionato. Spesso ai “ribelli” è stata minacciata l’espulsione o la fine dell’accoglienza. Il ricatto è dietro l’angolo.

Ma in gioco c’è qualcosa di molto più grande.

Modello workfare

Vecchie proteste nel Regno Unito contro il workfare

Daniel Blake non può lavorare per un problema al cuore. Ha bisogno di un sussidio, ma per ottenerlo deve “essere attivo”. Entra quindi in una burocrazia kafkiana. È persino costretto a frequentare un corso per “imparare a scrivere un curriculum”. Il film di Ken Loach, palma d’oro a Cannes, è la più poetica delle critiche al workfare, l’ideologia che subordina i diritti alla buona volontà. Misurata però da burocrati che diventano i veri giudici della tua vita.

Qui non è in gioco soltanto la gratitudine dei migranti, ma un cambio di paradigma

Già nel 2005 nel Regno Unito fu proposto quello che fu definito “slave labour” per i richiedenti asilo. Le dure proteste bloccarono l’iniziativa ma negli anni successivi il principio del lavoro coatto in cambio di sussidi fu imposto ai lavoratori. Inglesi.

 Questa storia è stata letta 10073 volte

La Spoon River dei braccianti

Il libro
La Spoon River dei braccianti

Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su email
Condividi su whatsapp

Laterza editore

Lo sfruttamento nel piatto

Le filiere agricole, lo sfruttamento schiavile e le vite di chi ci lavora


Nuova edizione economica a 11 €

Lo sfruttamento nel piatto

Ricominciano le presentazioni del libro! Resta aggiornato per conoscere le prossime date