Il vento e l’orologio. Storia del popolo rom

ValeGaudi © Flickr CC
  I Rom. Ipotesi sulle origini. Le tante persecuzioni. L'olocausto nazista: bravi borghesi contro anomali. In viaggio da mille anni. Elementi culturali: religione, musica, idea del viaggio, valori e mentalità . Strutture socio-economiche. Il vento contro l'orologio: 'culture clash' con la società occidentale.
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Indice. Storia del popolo Rom

c a p i t o l o  1. Chi sono

1.1. Le origini

1.2. La storia

1.3. Le persecuzioni

c a p i t o l o  2. La cultura

2.1. I gruppi

2.2. La religione

2.3. La musica

2.5. Il viaggio, lo spazio, il tempo

2.6. L’organizzazione socio-economica

2.6. I valori.

c a p i t o l o  3. Conclusioni

Bibliografia.

 

 

 

                     c a p i t o l o  1. Chi sono

 

1.1. Le origini dei Rom

 

Rom in Europa, Lom in Armenia, Dom in Medio Oriente. E’ il nome con  cui i popoli Zingari designano se stessi. L’origine della parola è  indiana: il significato è quello di “uomo”, in particolare “uomo libero”.

I vari gruppi si sono poi distinti  per il luogo di immigrazione  (antichissimi  Rom abruzzesi), per il mestiere che li caratterizza (Rom Kalderasa [calderai], Lovara [allevatori di cavalli],…) o per altre definizioni.

Il termine con cui gli Zingari identificano i sedentari  è  gagio  (femminile gagi, plurale  gage). Il  termine con cui  invece i  gage li  identificano deriva da “Atsingani”, il nome di un’antica setta eretica  proveniente dall’Asia minore. La fama di maghi e l’alone di mistero li  accomunava ai  popoli che  apparvero  nell’Impero bizantino;  il  nome  fu trasferito ai  popoli  nomadi,  trasformandosi  in  Zingari  (italiano), Zigeuner (tedesco), Zigenar (svedese), Cingan (francese antico), Tsigane (francese moderno). Queste denominazioni sono  in genere utilizzate  per definire tutti popoli nomadi.

Il solo nome che li associa alla loro vera origine, quello di ‘Indiani’,  è  raramente usato.  Invece, il  termine inglese  Gypsies deriva  da  una leggenda sulla loro origine egiziana  (Egypcians). Il termine  Bohemiens deriva dalla loro presunta origine boema.

 

 

Le leggende.

 

Il mistero che accompagna  i popoli  Zingari ha favorito  la nascita  di ipotesi leggendarie. Per esempio, la già citata provenienza egiziana, la discendenza da Noè  o addirittura  da Caino. Sono  numerose le  leggende sulle origini bibliche: gli  Zingari potrebbero essere  una delle  tribù d’Israele catturate dai re assiri nel 721 a.c.; oppure sarebbero i Cananei emigrati in Europa dopo la conquista di Giosuè; o, ancora, i discendenti di Adamo e di una prima moglie, precedente ad Eva: per cui, essendo sfuggiti al peccato originale,  sarebbero esonerati dall’obbligo  del lavoro, di “guadagnarsi il pane col sudore della fronte”.

Un’altra serie di  leggende propende  per l’origine  africana:  illustri studiosi europei (a  cominciarono da Thomasius)  ipotizzarono per  molto tempo, senza alcun fondamento, la tesi secondo cui gli Zingari  venivano da paesi di volta  in volta  denominati ‘piccolo Egitto’  o ‘Egitto’.  E quindi gli Zingari  diventavano i discendenti  dei Mammalucchi  cacciati dal sultano Selim, oppure i  discendenti dei sacerdoti di Iside,  mescolati con sacerdoti siriani…

Queste ‘ipotesi’ furono  riprese in  Francia durante il  regno di  Luigi XVI, quando l’Egitto dei faraoni era di gran moda, così come il  mistero degli Zingari. Nel  periodo  romantico ci  sono gli  ultimi  sostenitori dell’origine egiziana.

Altre leggende raccontano di provenienze  dalla Persia (Tartari  fuggiti al tempo di  Tamerlano, Circassi  messi in  fuga nel  1400,  discendenti degli Avari sottomessi  da Carlo  Magno…). E poi  le origini  europee: vengono dalla Valacchia ? Sono ebrei tedeschi sfuggiti alle persecuzioni del XIV secolo (gli yiddish) ?  O forse sono un misto di Ebrei e Ussiti?

Oppure, come disse  lo storico  provenzale P.J. de  Haitze (vissuto  nel ‘700), “sono un composto di tutte le nazioni” ?

Abbiamo visto che  i misteri  tendono ad  incrociarsi: le  leggende  che riguardano i Celti sono altrettanto  numerose di quelle che  coinvolgono gli Zingari: quindi,  sono stati  molti ad individuare  nei druidi  (sacerdoti celti) i progenitori degli Zigani.

E’ chiara la  tendenza di  attribuire l’origine degli  Zingari a  popoli noti per le pratiche magiche, vissuti in Egitto, Caldea, Siria, Gallia. Alcuni ellenisti hanno individuato  nella Grecia antica  le famose  origini: gli Zingari sarebbero i Siginni menzionati da Erodoto; le sibille, le sacerdotesse di Dodona, sono state associate alle indovine zingare. I Siginni sarebbero i Sinti, di cui  parla Omero: “il popolo ‘dal  barbaro linguaggio’ noto a Lemno, caro a Vulcano”.

C’è pure una leggenda siciliana: gli Zigani sarebbero i misteriosi  ‘Sicani’ che n  tempi antichi  abitavano l’isola.  La leggenda  più  stravagante è comunque quella di J.A. Vaillant (I Romi. Storia vera dei veri zingari, 1857): “questi  titani indo-tartari,  padroni della  terra  che percorrevano in lungo e in largo [diedero] il loro nome a Romolo, fondatore di Roma, introdussero il culto  di Diana ed Apollo, inventarono  il Vangelo 11 secoli prima di Cristo…”

Ancora leggende che s’intrecciano: gli Zingari sarebbero discendenti  di una popolazione preistorica vissuta in  Atlantide, il misterioso  continente distrutto da un cataclisma. I sopravvissuti sarebbero sbarcati  in Africa, fermandosi (ovviamente) in Egitto.

La favola di Atlantide colpì  la fantasia di Folco de  Baroncelli-Javon, poeta provenzale: “immaginò gli atlantidi in fuga sui loro navigli,  gli uni verso ovest, dove sarebbero stati gli antenati degli Indiani  d’America, gli altri verso est per entrare nel Mediterraneo e sbarcare  nella Camargue, millenni prima che vi si instaurasse il culto di Sara la Kalì, Sara la Nera” (Vaux de Foletier, 1977, p.31).

E’ importante notare che quasi tutte le leggende non sono il frutto della fantasia popolare, ma sono teorizzazioni ‘colte’ di illustri studiosi occidentali, per un arco di  tempo che va dal medioevo  fino al XIX  secolo.

 

 

La storia antica, in India.

 

La lingua zingara indica il percorso seguito dalle popolazioni: il romanì appartiene alla famiglia indo-europea,  il cui vocabolario  e la  cui grammatica si lega al sanscrito. Fa quindi parte delle lingue del gruppo indiano, ed è molto simile all’hindi ed al kashmiri.

L’origine indiana  è  ormai  fuori discussione.  Gli  Zingari  sono  una popolazione indo-ariana, la cui provenienza rimane dubbia: Dom, infatti, è il nome di un agglomerato di  gruppi etnici indiani molto antichi.  In un trattato sanscrito di astronomia  del VI secolo è  associato al  nome “Gandhavra” (musicista). Questi riferimenti non sono sufficienti a  definire la zona indiana di provenienza: le ipotesi più accreditate si riferiscono alla zona nord-est dell’India  ed alla casta dei  paria, la  più bassa della società indiana. Tuttavia ci sono interpretazioni che negano questa appartenenza di classe e si riferiscono all’abilità degli antichi Zingari nell’artigianato del ferro.

Le motivazioni che spinsero alla migrazione sono sconosciute: si possono ipotizzare conflitti con popolazioni  di invasori o  motivazioni che  da sempre spingono  ad  emigrare:  la  fame,  il  desiderio  di  condizioni migliori.

Michele Kunavin, ziganologo russo, raccolse  nel 1840 le leggende  degli zingari degli Urali. Considerando l’importanza della trasmissione  orale tra le generazioni,  alcuni  di questi  racconti appaiono  molto  significativi:

“In quel paese in cui sorge il sole dietro una montagna scura, c’è una città grande e meravigliosa, ricca di cavalli. Tanti  secoli fa, tutte le nazioni della terra  viaggiavano verso quella città, a  cavallo, a  dorso di cammello,  a piedi…  Tutti vi  trovavano  rifugio. C’erano pure nostre bande. Il sovrano di quella città li accoglieva  con favore… Vedeva che i loro cavalli erano  ben curati e propose loro  di stabilirsi nel suo impero. I  nostri padri accettarono  e piantarono  le loro tende nelle verdi praterie.  Là vissero a  lungo, contemplando  con riconoscenza l’azzurra tenda dei cieli…  Ma il Destino  e gli  spiriti del male vedevano con dispiacere la felicità del popolo dei Rom.  Allora mandarono in quelle contrade serene i malvagi cavalieri Khutsi, che  appiccarono il fuoco alle tende del popolo felice e, dopo aver passato gli uomini a fil di spada, ridussero in schiavitù le donne e i bambini. Tuttavia molti riuscirono a fuggire  e da  allora non osano  più sostare  a lungo nello stesso posto”.

“Molto, molto tempo fa, quando  i nostri antenati non  sapevano nulla dei veloci cavalli, quando, come le altre razze, vivevano  in case di legno e di  pietra, una  grande afflizione colpì  il nostro  popolo… Trattati come paria disprezzati dall’umanità, i nostri  antenati vivevano in continua paura, tremando  davanti ad ogni  soldato o  contadino, perché ognuno aveva il  diritto di uccidere i  figli della  nostra razza… Nuovi  nemici arrivarono  dalle  alte montagne,  intrisero  del nostro sangue le  nostre praterie,  i nostri campi,  i nostri  giardini; credevano che la nostra razza stesse per perire. Ma [la dea] Laki decise altrimenti: mandò cavalli veloci  per salvare  il nostro  popolo  dalla morte. Migliaia di  cavalli galopparono  giù dalla montagna  e i  nostri antenati li presero per fuggire  lontano dal nemico. Il  popolo dei  Rom fuggì su quei cavalli, come il cervo davanti al lupo. Per questo  motivo fuggono ancor oggi  perché sono  sempre circondati da  nemici” (cit.  in Vaux de Foletier, 1977, p.40).

La data del primo esodo è approssimativa: la si fissa intorno al  Mille, che è la data in  cui, secondo  i linguisti, apparvero  le lingue  indo-ariane.

 

 

 

 

 

1.2. La storia

 

 

Prima tappa: la Persia.

 

Nel 1011 il poeta persiano Fidursi terminò il “Libro dei Re”: in esso si racconta l’arrivo di diecimila ‘Luri’, accolti dal re Behram-gor, che li chiese a suo suocero, il re indiano Shengùl:

“O re cui giunge la preghiera altrui,

Di girovaghi musici trascegli

Uomini e donne, a diecimila, tali

Che cavalcando battere in cadenza

Sappian liuti, e a me li invia ben tosto

Perché la voglia mia per questa gente,

Celebre tanto, satisfatta sia”.         (trad. Italo Pizzi)

Nonostante il  carattere  leggendario dei  testi,  rimane  rilevante  la testimonianza  scritta  dell’arrivo  in  Persia  di  un  popolo   nomade proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.

Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua zingara,  a  cominciare  dal  termine  ‘darav’  (mare),  derivato  dal persiano ‘darya’. E’ incerta la  permanenza di popoli zingari in  Persia fino ad oggi, anche a  causa della confusione che  spesso i  viaggiatori hanno fatto  con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta,  sono elementi linguistici  a svelarci  il percorso degli Zigani: ‘grast’ (cavallo, termine armeno), ‘vurdon’ (carro, termine osseto).

I gruppi zingari che sono rimasti in Armenia e nei paesi  transcaucasici si chiamano ‘Lom’: sono in genere  cristiani o musulmani. Ma la  maggior parte della popolazione  proseguì il viaggio,  probabilmente intorno  al secolo XI, al tempo della guerra tra l’esercito di Bisanzio e quello dei Turchi Selgiuchidi.

 

 

Il viaggio prosegue nelle terre di Bisanzio.

 

Tra il 1100 ed il 1300 i  popoli nomadi entrano nelle terre  dell’Impero bizantino. Qui viene loro attribuito il nome della setta manichea  degli Atsingani, da cui deriva il nome che ancora oggi li contraddistingue. Da questo  periodo iniziano  le  testimonianze scritte,  che  segnalano presenze zingare nelle isole greche ed in Medio Oriente.

La città di Modone (oggi Methoni), situata  a metà strada tra Venezia  e la Terra Santa, era uno dei principali centri zingari. Le  testimonianze sono numerose, anche perché la città era uno degli scali dei viaggiatori diretti a Gerusalemme.

Prima della conquista turca, gli Zingari erano numerosi anche nei  paesi vicini alla Grecia: alla metà  del ‘300, erano molti  i ‘Cingarije’  del regno di Serbia, dove vivevano facendo i maniscalchi.

Numerosi Zingari vivevano in Valacchia, prevalentemente in condizioni di schiavitù: nel 1386, Mircea I,  voivoda di Valacchia, confermò la  dona- zione (fatta nel 1370) di quaranta famiglie Atsigane al monastero di  S. Antonio. La situazione in Moldavia era simile: l’origine della schiavitù è incerta: si può ipotizzare l’arrivo  degli Zigani nel 1200, come  prigionieri di guerra (e quindi  come schiavi) degli  invasori Tartari.  In seguito, avrebbero mantenuto la condizione servile.

Lo storico rumeno Panaitescu ipotizza  un motivo d’ordine economico:  in seguito alle Crociate, l’area del Danubio era diventata  particolarmente prospera grazie ai commerci. La ‘divisione del lavoro’ di quella società aveva reso indispensabili  gli Zingari,  in quanto  artigiani  (fabbri, costruttori di laterizi)  di valore.  Ma, poiché rifuggivano  un  impegno prolungato e  si spostavano  spesso,  furono resi  schiavi  e  costretti all’immobilismo nei domini di principi  e signori. Vi erano inoltre  gli schiavi dello Stato  (Zingari della  Corona) e del  clero  (metropolita, vescovi, monasteri). Gli Zingari di  Romania restarono schiavi fino  alla metà dell’800.

Nelle terre greche, gli Zingari acquisirono la parola ‘drom’ (strada, in greco dromos’), mentre gli Zingari  siriani conservarono il termine  di origine indiana.  ‘Beng’  (rospo,  rana)  è il  termine  zigano  che  si riferisce al diavolo, derivato (secondo lo ziganologo greco Paspati)  da un’immagine tipica delle chiese bizantine:  San Giorgio che trafigge  il demonio, raffigurato come un dragone.

 

 

Arrivo in Occidente.

 

All’inizio del 1300, prosegue la  marcia plurisecolare degli Zingari.  I popoli moldavi  e valacchi  desideravano  sfuggire alla  schiavitù,  gli abitanti delle terre bizantine fuggirono all’invasione turca, che arrivò alle porte di Costantinopoli, e in Serbia e in Bulgaria.

Non fu un esodo di massa, solo alcuni  si spostarono, ed ancora oggi  la maggioranza dei popoli  zingari vive nell’Europa  orientale. Il  cammino delle carovane non  era  facile: spesso  raccontavano alle  autorità  di essere pagani, provenienti dall’Egitto, convertiti al cristianesimo, poi ancora pagani ed infine riconvertiti ed in pellegrinaggio, per  scontare le colpe commesse. Nel Medioevo ogni  buon cristiano aveva il dovere  di dare aiuto ed assistenza ai pellegrini, e cosi gli Zingari furono  molto facilitati. Inoltre, la  leggenda  che raccontavano  aveva un  fondo  di verità, poiché  nei paesi  bizantini,  furono spesso  costretti  a  convertirsi al Cristianesimo o all’Islam.

Un gruppo orientale riuscì persino ad ottenere lettere di protezione per duchi e  vescovi, scritte  da  Sigismondo, re  di Boemia  e  d’Ungheria.

Grazie a questi espedienti, gli Zingari percorrono la Germania (Amburgo, Lubecca, Rostock,…).  Alcuni  scendono verso  il  sud,  verso  Lipsia, mentre altri gruppi giungono in Svizzera.

I cronisti dell’epoca  (siamo all’inizio  del ‘400) parlano  di  vestiti miserabili, ma di  abitudini sfarzose.  In Germania gli  Zingari  furono imitati da gruppi di persone di lingua germanica, che adottarono la vita nomade ed i mestieri dei nomadi: gli Jenische.

 

 

In Francia e in Italia, di fronte al Papa.

 

L’arrivo dei gruppi  zingari in  Francia  è segnalato  nel 1419.  Il  22 agosto, un gruppo arriva nella  città di Catillon-en-Dombes.  Presentano lettere al duca di Savoia ed all’imperatore. L’incontro con i  cittadini è cordiale, basato sullo scambio  di doni. In altre  città c’è  maggiore diffidenza, che però viene superata.  La città di Tournai,  appartenente al regno di Francia, elargì dodici monete  d’oro, più pane e birra.  Gli ‘Egiziani’  (cosi  venivano  chiamati)  tornarono  anche  la   primavera seguente, suscitando la stessa curiosità  nei cittadini, che  ammiravano l’abilità dei cavalieri e degli  stessi cavalli, e si  “facevano dire  la buona ventura”.

Talvolta le lettere di protezione di principi e duchi non bastavano.  Fu allora deciso di ottenere una lettera di protezione universale.  L’unica persona che poteva scriverla era il Papa. Nel luglio del 1422 un  gruppo di Zingari parte per Roma, ad incontrare Sua Santità Martino V.

Passano per Bologna e Forlì, dove  raccontano di compiere un viaggio  di penitenza, per tornare “nella retta fede”.

Negli archivi vaticani  non  c’è traccia  di questo  incontro,  tuttavia questo periodo presenta molte altre  lacune di documentazione. Gli  Zingari utilizzarono per oltre un secolo il documento pontificio, che  permetteva “privilegi del papa e  dell’imperatore, per cui potevano  andare per il mondo senza pagare alcun pedaggio o gabella”. Il testo  integrale della lettera di  Martino V  è conservato  in una  traduzione  francese, proveniente dalla Lorena:

“Tutte le autorità ecclesiastiche e civili sono richieste di

lasciar passare liberamente nel mondo, per terra e per mare, il duca Andrea del Piccolo Egitto [‘capo’ della spedizione] e tutta la sua truppa, con i loro cavalli e i loro beni,  senza pagare alcuna tassa né  diritto di passaggio, e sono promesse  grazie eccezionali di assoluzione (è  rimessa la metà dei  peccati) ai  fedeli che si  mostreranno generosi  con quei pellegrini”.

Un errore  di un  anno  nella datazione  e la  strana  formula  nell’as- soluzione fanno  dubitare dell’autenticità  del  documento.  Presumibil- mente, come  si evince  da  numerose testimonianze,  Martino  V  incontrò realmente il “duca del Piccolo Egitto” ed i suoi e forse rilasciò  anche la lettera, che poi fu  spedita ai  vari gruppi e  modificata a  seconda delle esigenze dei vari portatori.  Un altro esempio della capacità  dei popoli Zigani di utilizzare le  debolezze dei gagè  (esemplare il  riferimento alla “metà dei peccati” condonati  a chi si mostra generoso  nei confronti di “questi pellegrini”).

Dopo il viaggio  in Italia,  molti tornarono indietro,  altri  rimasero. Probabilmente, i  Rom dell’Italia  meridionale provengono  invece  dalle terre dell’Impero bizantino,  arrivati via  mare prima del  viaggio  del duca Andrea.

 

 

In Spagna, in Gran Bretagna, in Scandinavia.

 

Proseguiamo il  nostro  viaggio:  pochi  anni dopo  il  loro  arrivo  in Francia, alcuni Zingari continuano per la Spagna. Probabilmente, nessuno fra i  Gitani (Zigani  spagnoli)  proviene dall’Africa:  l’analisi  linguistica evidenzia molti termini provenienti  dal greco, inoltre ci  sono prove che avessero già attraversato la Francia: in particolare, facevano appello alla protezione del Papa.

Gli Zingari passano dall’Aragona alla Catalogna fino all’Andalusia. L’11 giugno 1447 sono a Barcellona. Nelle  città di Spagna i ‘capi’  zingari, che si qualificano  come “Conti  del Piccolo  Egitto” sono  accolti  con tutti gli onori, e ricevono doni in abbondanza.

Solo all’inizio del  ‘500 ci  sono notizie di  “Ciganos” in  Portogallo. Nello stesso periodo sbarcano in Inghilterra ed arrivano fino in Scozia. In queste terre, non suscitarono grande sorpresa, perché già  esistevano i “Tinkers”, persone  con stili  di vita ed  abitudini simili  a  quelli zingari, che parlavano  lo ‘shelta’,  una lingua  rimasta a  lungo  sconosciuta ed imparentata col gaelico e con l’antica lingua irlandese.

Nella prima metà del ‘600, i Gypsies (in Gran Bretagna assunsero  questo nome, poiché dicevano di venire dall’Egitto) arrivarono in Irlanda,  per sfuggire al reclutamento militare avviato in Inghilterra.

La storia dell’arrivo in Scandinavia ha i caratteri della leggenda:  nel 1505, una nave scozzese partì per la Danimarca. A bordo c’era un  gruppo di Zingari, con a  capo Antonio  Gagino, conte del  Piccolo Egitto,  che aveva ricevuto dal  re Giacomo  IV una  lettera per  il re  Giovanni  di Danimarca.  Successivamente,  nel  1512,  il  conte  arrivò  in  Svezia. L’arrivo degli Zingari in Norvegia è molto più triste: nel 1544,  alcuni Gypsies arrestati in  Inghilterra, furono  deportati per ordine  del  re britannico. Dalla  Germania,  passando per  lo  Jutland,  altri  Zingari arrivarono in Scandinavia, dove si diffusero fino alla Finlandia.

 

 

In Africa, in America.

 

A partire dal 1600 gli Zingari subiscono la deportazione nelle  colonie: i portoghesi li inviano nei loro  domini di Capo Verde, dell’India,  del Brasile, dove vengono chiamati ‘ciganos’.

Nel 1775, il re spagnolo Ferdinando VI inviò i Gitani che rifiutavano il servizio militare in America. Durante  il XIX secolo, durante le  guerre di liberazione  dell’America del  Sud, inizia  l’emigrazione  volontaria degli Zigani nel  nuovo continente:  sono i ‘Chiganeros’,  che vanno  in Argentina ed in Venezuela. Tra  le fine  del ‘600 e  l’inizio del  ‘700, alcune compagnie  inglesi e  scozzesi  praticavano la  deportazione  dei Gypsies, per farli  lavorare nelle  piantagioni della Giamaica  o  della Virginia.

Alcuni Zingari andarono nelle colonie  volontariamente, reclutati  dalla Compagnia delle Indie; altri furono  inviati forzatamente da Luigi  XIV, alla fine del ‘600; altre  deportazioni furono ipotizzate o  minacciate, ma apparvero disumane e vi si rinunciò.

Nel 1802 il prefetto dei Bassi Pirenei, d’accordo col governo di Parigi, fece arrestare tutti  gli Zingari  dei Paesi Baschi,  per deportarli  in Luisiana. Il progetto fu  impedito dalla guerra  con l’Inghilterra,  che riprese subito dopo.

 

 

 

1.3. Le persecuzioni subite dai Rom

 

 

La storia del  popolo zingaro  è in  buona parte  la storia  delle  persecuzioni che ha subito. Finché l’organizzazione sociale fu  compatibile con il nomadismo, i motivi  di scontro  erano per lo  più occasionali  e sporadici. Nel Medioevo era relativamente normale condurre una vita  errante (cavalieri, pellegrini, ordini mendicanti). Più tardi, invece,  si verificò uno scontro tra strutture incompatibili.

 

 

Sporchi, cannibali e ladri di bambini.

 

Durante il periodo di formazione  dei primi stati  nazionali, quando  si accentuano i processi di sedentarizzazione  e di controllo sociale,  gli Zingari tendono ad apparire come diversi:  non più solo il colore  scuro della pelle,  la “stranezza”  degli  abiti, l’alone  di mistero  che  li accompagna, ma anche il modo di  vita diviene sospetto e malvisto.  Inizia, a partire dal ‘500  ed ancora più dal ‘600,  un processo di  criminalizzazione dei modi di vita  zingari: l’accusa di parassitismo  dovuta alla pratica della mendicità, l’eterna  accusa di essere  ladri, in  una società che tende a dare  sempre più importanza alla proprietà  privata. Miguel de Cervantes, all’inizio  di una delle  sue ‘Novelle  esemplari’, scrive:

“Sembra che Gitani e Gitane  non siano sulla  terra che  per esser ladri; nascono da padri ladri, sono educati al furto, s’istruiscono nel furto  e finiscono ladri  belli e  buoni al cento  per cento;  la voglia di truffare e la  furfanteria sonno in loro accidenti  di cui  si liberano solo alla morte” (Cervantes, 1956).

Il “Dictionairre universel  de justice,  police et finances”  (1725)  di Francois-Jacques Chasles  definisce gli  Zingari  come  “certi  pitocchi erranti, vagabondi e  libertini, che  vivono di  furto, d’astuzie  e  di truffe, e che soprattutto fanno  professione di dire la buona  ventura”. Inizia l’abitudine di dare giudizi senza informarsi: se è vero che nelle cronache e negli archivi giudiziari sono rimaste molte tracce dei  furti zingari, è  altrettanto vero  che  costituivano un  mezzo  marginale  di sostentamento. In genere  si trattava  di piccoli furti  (polli,  legna, frutti): è tipica di tutti i popoli nomadi  l’idea che ciò che si  trova all’aria aperta appartiene a tutti.

Il romanziere inglese  Fiendin fa  dire ad un  re dei  Gypsies: “il  mio popolo è ladro, senza dubbio;  ma deruba solo il vostro.  E voi, voi  vi derubate reciprocamente” (H. Fielding, 1751).

Altra accusa classica  (ma priva  di  fondamento) è  quella per  cui  le Zingare rubano i bambini. Una idea diffusa nel credo popolare, in cui si può ravvisare più che altro la criminalizzazione del diverso. Stesso discorso per l’accusa di cannibalismo, a lungo rivolta ai  popoli zingari: nel 1782, numerosi giornali  ungheresi e tedeschi  pubblicarono la notizia secondo cui numerosi Zingari magiari uccidevano i viaggiatori e ne mangiavano i cadaveri.  La “Hamburger Neue Zeitung”  scrisse di  88 persone divorate. Il “Pester Intelligenzblatt” (‘foglio intellettuale di Pest’, datato  4 settembre  1782)  narrò di  confessioni, e  di  persone cotte, affumicate e divorate. L’imperatore Giuseppe II non volle credere a tali misfatti, sospese le esecuzioni ed  i processi ed inviò una  commissione sul posto.

Si scopri cosi che nell’agosto  del 1782 erano scomparse alcune  persone senza lasciare traccia.  Contemporaneamente, un gruppo  di Zingari  era stato arrestato per furto. Sotto tortura, gli furono estorte delle  confessioni: gridarono “li abbiamo mangiati”.  Altri supplizi portarono  ad altre confessioni, ed alle esecuzioni. Poi le persone ritenute scomparse furono ritrovate. Ma il sospetto  di cannibalismo rimase  a lungo  sugli Zingari.

 

 

Heidenjachten ed espulsioni.

 

Tra i popoli Zigani e le varie forme di autorità c’è una vera e  propria idiosincrasia. E  le autorità  stesse  (che per  loro natura  esigono  i controllo  sui  sudditi)  hanno  sempre  mal  sopportato  questi  nomadi refrattari al potere ed alla sottomissione.

La lista degli atti di repressione comincia nel 1471, quando  l’assemblea di Lucerna proibì agli ‘Zeginer’ di rimanere in Svizzera. Nel 1499,  con la Prammatica di Medina del Campo, i Re cattolici ingiungevano ai gitani di abbandonare la vita errante,  minacciando 100 colpi di  frusta ed  il taglio delle orecchie (!). Nel 1500, alla Dieta di Augusta, l’imperatore Massimiliano I ordinò  agli Zigani  di abbandonare  le terre  del  Sacro Romano Impero.

Nei secoli successivi,  le  ordinanze di  espulsione furono  emesse  dal Regno di Francia, dalla repubblica di Strasburgo, dai Paesi Bassi, dalla repubblica di  Ginevra, dall’Inghilterra  e  dalla Scozia,  dagli  Stati italiani e tedeschi, dalla Boemia,  dalla Polonia e da  molti altri  ancora.

Carlo V proclamò l’espulsione degli Zingari dai Paesi Bassi del nord nel 1524. Sotto il  regno di  Elisabetta, il  Parlamento inglese  ordinò  ai Gypsies di abbandonare “the naughty, idle and ungodly life and  company” (il loro detestabile modo di vivere).

Quasi tutte  le misure  di  espulsione rimanevano  inapplicate,  per  le scarse capacità degli Stati di controllare il territorio. Gli Zingari si limitavano a soggiornare nelle zone  di confine oppure  nei luoghi  meno accessibili, come foreste e montagne.

L’unico paese in cui gli Zingari furono cacciati erano le Province Unite (Paesi Bassi): alla metà del ‘700 non vi erano più nomadi, a causa delle ‘Heidenjachten’  (cacce  ai  pagani),  battute  con  partecipazione   di fanteria e cavalleria, che provocarono la morte di molti Zingari.

Nel 1594, due membri delle Cortes  di Castiglia proposero di separare  i Gitani dalle Gitane, in modo da estinguerne la razza. Nel 1631, Juan  de Quinones pubblicava il “Discurso contra los Gitanos” chiedendo  l’espul- sione o lo sterminio totale dei Gitani.

Nel 1682, Luigi XIV dichiarava, usando un linguaggio simile a quello  dei leaders dell’estrema destra di oggi: “E’ impossibile scacciare dal regno questi ladri, data la protezione che hanno  trovata in ogni tempo e  che oggi continuano a  trovare  ancora oggi  presso gentiluomini  e  signori giustizieri, che danno  loro asilo  nei castelli  e nelle  loro  case…

Questo disordine è comune alla  maggior parte delle province del  nostro regno” (cit. in Vaux de Foletier, 1977, p. 91).

Spesso si ricorreva  ad orrendi  supplizi nei confronti  degli  Zingari, anche quando non erano accusati di niente.  Nei Paesi Bassi del ‘700  si usava torturare  ed uccidere  gli  Zingari davanti  ai figli,  ai  quali veniva successivamente impartita una lezione di morale. La Prammatica di Filippo V (1745) permetteva a chiunque di uccidere all’istante un Gitano trovato fuori dalla sua “residenza abituale”.

Nel 1715 furono arrestati in  Spagna 12mila Gitani.  La marina  francese iniziò contemporaneamente ad utilizzare come  rematori gli Zingari,  “in quanto vagabondi”.

 

 

L’assimilazione illuminata.

 

Il “Dispotismo illuminato” tentò di annullare la cultura e le  abitudini zigane e di dare loro i diritti di cittadinanza, interrompendo le persecuzioni.

Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II, imperatori d’Asburgo, decisero di rendere felici gli Zingari, anche contro la loro volontà. Tra il 1768 ed il 1782 decisero  l’abolizione del  nome (‘nuovi  Magiari’ era  la  loro nuova denominazione), l’obbligo  di rinuncia alla  lingua, l’obbligo  di frequentare le chiese, abitare  in abitazioni regolari  e vestirsi  come tutti gli  altri.  I  ‘nuovi Magiari’  avrebbero  dovuto  rinunciare  al nomadismo e persino  ai figli,  educati dal  governo lontano  dalla  famiglia. In cambio, avrebbero ricevuto  case, bestiame ed attrezzi  agricoli.

Il tentativo di  “civilizzazione”  forzata fu  un fallimento  e  provocò sofferenze analoghe a  quelle causate  dai tentativi di  sterminio.  Una notte di dicembre, nel 1773, tutti  i ragazzi zingari del palatinato  di Presburgo furono strappati alle famiglie (erano gli Zingari che rubavano i bambini ?) ed  affidati a  contadini di villaggi  lontani, che  accettarono di allevarli dietro il compenso di 18 fiorini l’anno. Gli Zingari rinunciarono alle case ed agli  attrezzi dell’Imperatore e tornarono  al nomadismo. I figli fuggirono e finirono per ricongiungersi alle famiglie. Giuseppe II fu costretto a rivedere la sua politica.

Contemporaneamente, il re di Spagna Carlo III tentava di distruggere  la cultura Gitana  obbligandoli alla  sedentarietà  ed alla  rinuncia  alla lingua. Un proverbio gitano ricorda che “a  liri ye crayi nicobò a  liri es calè” (la legge dei re ha distrutto la legge dei Gitani).

Le operazioni  di polizia  (che  continuavano in  Francia  e  nei  Paesi baschi) ed i  tentativi  di assimilazione  forzata erano  diversi  nelle forme ma identici  nelle finalità:  distruggere una cultura  altra.  Tra ‘600 ed ‘800, questi fenomeni sono  elementi di un più vasto  movimento, quello tendente ad  omologare le masse  (nazionalizzazione delle  masse) per creare lo Stato nazionale,  che quasi  sempre fu il  frutto di  dure lotte e persecuzioni,  assimilazioni ed  integrazioni forzate  da  parte dell’etnia maggioritaria, anziché un romantico  processo di  costruzione della ‘patria’.

 

 

Continua la repressione.

 

I secoli in cui le  persecuzioni degli Zingari  conobbero un  incremento quantitativo sono il XVII ed il XX.

L’800  è  un  secolo  interlocutorio,   in  cui  continuano  le   solite espulsioni, tra cui si  segnala quella  del Ducato di  Modena, datata  5 gennaio 1832:

“(…) E’ proibito alle  persone senza arte  e mestiere,  ai vagabondi, ai cosiddetti zingari ed agli accattoni di introdursi nei Domini Estensi (…). Le persone suddette, se non appartengono alla  Città o al  comune dove  si  trovassero vagando  o questuando,  saranno  immediatamente espulse con foglio di via, (…) pena l’arresto” (M. Karpati, 1975).

 

Nel 1912, l’etnografo Adriano Colocci denunciò i pogrom avvenuti  l’anno precedente:

“Iniqua fu la caccia all’uomo  fatta l’anno scorso,  massime in Puglia, contro  innocenti famiglie  zingare, sequestrate,  seviziate, segregate su pontoni  bruciate dal  solleone, lasciate là  senza cibo  e senza assistenza. Anche  dopo riconosciuto  dalla Sanità  ufficiale  che quei tapini erano immuni da infezioni, non solo essi furono barbaramente malmenati e cacciati, essi e i loro  bambini, ma si ebbe anche  l’incredibile spettacolo di una Camera  italiana, che di  fronte alla  proposta mentecatta fatta da uno dei suoi membri, che cioè il governo si  facesse iniziatore presso  gli  altri  Stati  europei  ‘di  respingere  sempre  e comunque gli zingari  per il  solo  fatto di  essere zingari”  non  ebbe parole di ribrezzo contro tale bestemmia, che vorrebbe mettere al  bando un intero popolo per l’unica  ragione che è misero  e odiato”  (Colocci, 1912).

 

 

L’Olocausto.

 

“Il terzo contingente per numero era rappresentato degli zingari. (…)Negli anni 1937-38,  tutti gli  zingari nomadi furono  raccolti nei  cosiddetti campi di abitazione, perché fosse più facile sorvegliarli.  Nel 1942 venne l’ordine di arrestare tutti gli individui di tipo zingaresco, compresi gli individui di sangue misto, che si trovavano nel Reich, e di trasportarli ad Auschwitz, a qualunque età e sesso appartenessero. Nel  luglio del  1942, Himmler  venne  a visitare  il campo.  Gli  feci percorrere in lungo e in largo il  campo degli zingari, ed egli  esaminò attentamente ogni  cosa:  le baracche  di  abitazioni  sovraffollate,  i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall’epidemia  infantile Norma, che non potevo  mai guardare  senza orrore e  che mi  ricordavano i lebbrosi visti a suo tempo  in Palestina: i loro piccoli  corpi erano consunti e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano  addirittura di  guardare da  parte  a parte;  vivi  ancora,  imputridivano lentamente…

Gli zingari atti al  lavoro vennero trasferiti in altri  campi, e  alla fine rimasero da noi (era l’agosto 1944) circa 4000 individui da mandare alle camere  a  gas”  (R.  Hoess, 1960).  Il  comandante  del  lager  di Auschwitz descrive  così  alcuni  aspetti  dello  sterminio  dei  popoli Zingari perseguito dal regime nazista. Come gli Ebrei, anche gli Zingari subirono la condanna al genocidio.  Nonostante l’origine ariana,  furono dichiarati una razza inferiore e condannati prima alla sterilizzazione e poi alla  deportazione  di  massa.  Nei  campi  di  Treblinka,  Sobibor, Auschwitz-Birkenau, nelle fosse comuni di Chelman, Maghilev, Janyce  gli Zingari condivisero la  sorte degli  Ebrei e  portarono sulla  pelle  il numero di matricola  e la  Z (Zigeuner),  come gli  ebrei avevano  la  J (Juden).

L’Olocausto zigano è ricordato da pochi. Solo nel marzo del 1995 è stato costruito un monumento nel lager di Buchenwald, che ricorda la  tragedia degli Zingari. La  sentenza  del tribunale  di Norimberga  ha  riservato poche parole (alcune discutibili) a questo genocidio:

“I gruppi di  azione ricevettero  l’ordine di  fucilare  gli Zingari. Non fu  fornita nessuna  spiegazione circa  il motivo  per  cui questo popolo inoffensivo, che nel  corso dei secoli ha  dato al  mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, doveva essere braccato  come un animale selvaggio. Pittoreschi negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno talvolta stancata con la loro indolenza.  Ma nessuno  li  ha mai  condannati  come  una  minaccia mortale per la  società organizzata,  nessuno tranne  il  nazionalsocialismo, che  per bocca  di  Hitler,  di Himmler,  di  Heydrich  [un  alto funzionario di  polizia],  ordinò  la loro  eliminazione”  (cit.  in  M. Karpati, 1971).

 

 

Dalla sterilizzazione allo sterminio.

 

Dopo che, nel 1933, Hindemburg  nominò Hitler cancelliere, terminò  ogni residuo di tolleranza nei confronti degli Zingari. Le misure di  polizia divennero più severe e nel 1936 furono costituiti i “Wohnlager”,  luoghi dove gli Zingari  erano costretti  ad abitare sotto  il controllo  della polizia e dove  venivano  sottoposti ad  esperimenti di  carattere  biologico, a cominciare dalla sterilizzazione.

Nel ’36 cominciarono anche  le prime deportazioni:  la polizia  bavarese inviò a luglio 170 Zingari a Dachau. Altri gruppi arrivarono poco  dopo. L’accusa è che venne rivolta è quella  di asocialità; in questo caso,  i nazisti sembrarono mettere in secondo piano la “purezza del sangue”. Gli intellettuali  del  Reich  erano  impegnati a  dare  una  patina  di scientificità ai crimini  che  si andavano  commettendo: il  dott.  Hans Globe, capo servizio del ministero dell’Interno (uno dei redattori delle leggi razziali), dichiarò nel ’36 che gli Zingari e gli Ebrei non  hanno sangue europeo, il che vale anche per “semi-giudei” e meticci.

Nel 1938,  il prof.  Hans  F.  Guenther scrisse  un  intero  libro  sul- l’argomento: in “Rassenkunde des Deutschen Volkes”, scrisse che gli Zingari portarono sangue straniero in Europa, ed in più sono una mescolanza di varie razze, l’esatto contrario della purezza.

Due anni prima, il dott. Robert Koerber (in “Volk und Staat”) aveva  ribadito che Ebrei e Zingari sono  di origine asiatica, ben lontani  dalle purezze nordiche e germaniche. Tuttavia, un dubbio restava: gli  Zingari non erano forse ariani (indoeuropei) come i tedeschi ? Per  verificarlo, Himmler prelevò 40 prigionieri Zingari da Sachenhausen e li consegnò  ai proff. Fischer e Hornbeck. Il ministero della Sanità istituì una sezione per le ricerche razziali, con compiti analoghi. Nel 1942, intanto, tutti gli Zigani del Reich risultarono schedati.

Le ricerche sul sangue non portarono alla condanna definitiva; ad essere decisiva, fu  invece una  tesi  di laurea,  presentata  da  Eva  Justin, assistente del dott. Ritter, che lavorava al ministero della Sanità. Nel 1943, la  pubblicazione  della tesi  offrì  la  giustificazione  pseudo-scientifica dell’Olocausto degli  Zingari: infatti, si  sosteneva che  i bambini zingari portano un fattore ereditario pericoloso  (“Wandertieb”, impulso al nomadismo) che ne determina il comportamento. Nel 1937 e  nel 1938  si  intensificano  le  retate  contro  gli  Zingari:  dapprima  si arrestarono solo  gli uomini,  poi  bambini e  donne. Nel  1938  Himmler (ministro dell’Interno e capo  delle SS)  si occupa in  prima persona della questione: il  16  maggio fa  trasferire l’ufficio  degli  “affari zingari” da  Monaco a  Berlino;  il 1  luglio ordina  una  settimana  di epurazione; l’8 dicembre impone agli  Zingari di scegliere  tra la  sterilizzazione e l’internamento; il  16 dicembre 1942  decreta la  “deportazione generale”. In febbraio, il primo convoglio di prigionieri arriva ad Auschwitz-Bierkenau. Qui diventarono cavie per il dottor Mengele, che li utilizzò per verificare la resistenza al freddo, fece esperimenti sui gemelli e sull’inoculazione del tifo,  oltre che sulla  sterilizzazione. Nel campo di  Ravensbruck furono  sterilizzate tutte le  Zingare di  età compresa fra i 7 ed i 45 anni. Il dott. Portschy spiegò la necessità  di questi provvedimenti:

“Per ragioni di sanità pubblica, e in particolare perché gli Zingari sono portatori di una eredità notoriamente grave e malata,  perché essi sono dei criminali inveterati, parassiti in seno al nostro  popolo, al quale non possono che apportare che danni immensi, mettendo  in grave rischio la purezza del  sangue dei contadini e il  loro genere  di vita, è necessario  in primo luogo  che si  badi di impedire  a loro  di riprodursi, e che li si costringa al lavoro forzato nei campi di lavoro, senza peraltro impedir loro di scegliere l’emigrazione volontaria  verso altri paesi” (cit. in M. Karpati, 1971).

 

 

Il genocidio.

 

Dachau, Mauthausen,  Watzweiler,  Neuengamme,  Ravensbruck,  Buchenwald, Jagala, Treblinka,  Auschwitz.  Sono  le tappe  della  tragedia  che  ha colpito il popolo Zingaro.

Poche persone tentarono di salvare gli innocenti: un sacerdote cattolico di Illingen, che fece fuggire in Francia molti Zingari. Altri riuscirono a fuggire nelle montagne, e spesso partecipavano alla lotta  partigiana. Ma moltissimi  altri  vennero catturati,  con  l’espansione  tedesca  in Boemia, Polonia, Belgio, Olanda, Francia, Balcani.

Il regime hitleriano  ha avuto  numerosi complici,  a partire  dai  col- laborazionisti: il governo di Vichy fu responsabile dell’internamento in campi di concentramento di 30mila  fra Rom e Gitani.  Altri furono  consegnati agli occupanti tedeschi e  molti furono quelli che morirono  durante la deportazione.

La notte di Natale del 1941, migliaia di Zingari furono uccisi dal fuoco degli Einsatzgruppen (‘gruppi  di azione’) nazisti.  Accadde in  Crimea, nella periferia di Simferopol.  Nell’agosto del 1944  Himmler ordinò  lo sterminio totale.

E’ difficile stabilire  il numero  totale degli  Zingari morti  a  causa della follia nazista:  la cifra  varia da 250mila  a 500mila  unità.  Si hanno maggiori informazioni sulle cifre parziali: nel 1943, i libri contabili di Auschwitz registravano 20.943 Zingari. Ogni baracca  conteneva 800 o 1000 persone, mentre era stata  costruita per 300 unità. Solo  nel marzo 1943 morirono 7000 zingari. La notte del 31 luglio 1944, ne furono uccisi 4000, nelle camere a gas.

Durante  l’interrogatorio  di  Norimberga,  Hoess   (il  comandante   di Auschwitz) tentò di giustificarsi affermando che gli Zingari non si  ac- corsero della situazione di  prigionia e non  soffrirono. Nel  fascicolo che riguardava Hoess, fu ritrovata  questa annotazione: “H.  non è  soltanto un buon comandante di  campo, ma in  questa sfera di  azione si  è rilevato un vero pioniere, per il suo apporto  di nuove idee e di  nuovi metodi educativi” (cit. in M. Karpati, 1971).

 

 

 

Dentro il lager.

 

Un testimone diretto, il dottor Mikos Nyiszli, fu internato ad Auschwitz e si trovò  accanto a  Josef Mengele. Nelle  sue memorie  si leggono  le atrocità  compiute  nel  lager:  gli  esperimenti  sui  gemelli,  uccisi contemporaneamente e  trasportati in  infermeria,  dove si  compivano  le analisi e le  radiografie. Quindi  la dissezione dei  cadaveri.  Mengele voleva scoprire il segreto della moltiplicazione della specie e fare  in modo che  ogni  donna  tedesca  potesse  partorire  quanti  più  gemelli possibile, al  fine  di  accrescere il  numero  della  razza  superiore.

Parallelamente, Mengele “manda a morte  quanti sono designati dalle  sue teorie razziali  come  esseri inferiori  e  nocivi  all’umanità.  Questo medico criminale  rimane per  ore  intere  al mio  fianco,  in  mezzo  a microscopi, provette e reperti oppure  in piedi al tavolo di  dissezione con un camice  macchiato di  sangue, le  mani insanguinate,  intento  ad esami e ricerche, come un invasato.  Lo scopo immediato della ricerca  è la moltiplicazione della razza tedesca, lo scopo finale la produzione di tedeschi puri” (M. Nyiszli, 1961).

 

 

 

“I gruppi di  azione ricevettero  l’ordine di  fucilare  gli Zingari. Non fu  fornita nessuna  spiegazione circa  il motivo  per  cui questo popolo inoffensivo, che nel  corso dei secoli ha  dato al  mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, doveva essere braccato  come un animale selvaggio. Pittoreschi negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno talvolta stancata con la loro indolenza.  Ma nessuno  li  ha mai  condannati  come  una  minaccia mortale per la  società organizzata,  nessuno tranne  il  nazionalsocialismo, che  per bocca  di  Hitler,  di Himmler,  di  Heydrich  [un  alto funzionario di  polizia],  ordinò  la loro  eliminazione”  (cit.  in  M. Karpati, 1971).

 

 

Bravi borghesi contro ‘anormali e depravati’.

 

Cominciarono nel 1926, prima di  Hitler. Terminarono solo  nel 1973.  La società ‘filantropica’ svizzera  “Opera di  soccorso per i  figli  della strada” ottenne nel  ’26 pieni  poteri per risolvere  quello che  veniva definito il problema della minoranza nomade, il cui gruppo più  numeroso era costituito dagli  Jenisch, un  popolo di origine  europea che  da  5 secoli aveva assunto i modi di vivere delle altre popolazioni nomadi.

L’Opera di  soccorso  progettò  il genocidio  culturale,  in  nome  dell’ideologia borghese, allora dominante in Svizzera, che riteneva il  no- madismo una piaga sociale da  estirpare. Per realizzare tale nobile  intento, i figli  degli Zingari  furono strappati alle  famiglie (come  ai tempi di Giuseppe II) e rinchiusi in istituti, dove ricevettero nomi diversi e gli fu impedito ogni contatto  con i genitori. Le ragazze  venivano abitualmente  sterilizzate. Un  giurista  elvetico,  R.  Waltisbul, scrisse che “dal punto di vista eugenetico e della polizia criminale non possiamo che parteggiare per la  sterilizzazione di determinati tipi  di nomadi”.

Il fondatore  dell'”Opera  di  soccorso  dei  figli  della  strada”,  A. Siegfried, si vantò dei risultati raggiunti: “dobbiamo dire che molto  è stato raggiunto se se queste persone non formano una loro famiglia,  non si riproducono più  per mettere  al mondo nuove  generazioni di  bambini anormali e depravati”.

Dal 1926  al 1972  furono  500 i  bambini che  subirono  il  trattamento dell’Opera: la loro infanzia trascorse in istituti, in ospedali psichiatrici ed anche in prigione. Questi  orrori terminarono nel 1973, e  solo in seguito ad una campagna decennale di informazione fatta da una  associazione Jenisch, “La ruota della  strada maestra”. Nel 1986, il  presidente della Confederazione elvetica, Alfons Egli, chiese scusa ai nomadi per gli atti inumani compiuti nei loro confronti.

 

 

Il soccorso per i figli della strada.

 

Mariella Mehr, scrittrice  Jenisch, ha  raccontato in un  libro  l’esperienza di quell’inferno, fatto di psichiatri e di sadici, di violenze  e di lacrime, che lei subì fino all’età di 18 anni:

“Nella mia madre lingua,  la jenisch, io  sono una  jenisch; nella lingua dell’igiene  razziale, e dunque  della scienza  dell’antropologia: una senza dimora, una asociale o almeno gravata dall’eredità di una stirpe asociale  e senza  dimora, cioè una  vagante, una  di  quella sorta di sottospecie umana, dannosa, una moralmente deficiente, incapace di integrazione sociale, una ladra del giorno, notoriamente  fannullona, tarata, senza valore, abulica verso il lavoro, sessualmente  pervertita, una pericolosa socialmente,  una psicopatica,  che appartiene  a  quella feccia che Hitler avrebbe legalmente condannato e resa innocua. (…)

‘Qui vedete un membro di quella tribù di nomadi in base alla storia della quale vi ho illustrato la teoria dell’ereditarietà.  Questo soggetto è la terza generazione di malati  di mente che quel gruppo  nomade ha prodotto’. Il dottor  Ackermann davanti ad un  gruppo di  infermiere apprendiste dell’istituto Waldheim. Silvia [alter ego  dall’autrice] si vergogna, umiliata, irata, intimidita, buttata là davanti a venti paia di occhi inquisitori: sei come  tua madre Silvia, sei pazza,  pazza come quel mostro che ti ha messo al mondo. Sei pazza Silvia, perduta  in una follia che  tu  stessa non  comprendi. Credilo  Silvia,  finalmente, credi a loro, agli dèi bianchi, credili. (…)

Sento sbattere una porta, salire con passi pesanti la scala. “Scotennare”, così il mio padre  adottivo chiamava le botte. Mi  batteva con la sua cinghia da militare e piangeva. Io ero per lo più nuda. La stanza da bagno all’asilo del “Zum Lachelnden Jesus” un luogo grigio, maleodorante, nel quale Silvia, a  tre anni, veniva  rinchiusa per  ore, perché la piccola aveva sporcato le sue mutandine. (…)

Il viso con  la cicatrice  fa  il turno  di notte.  Da  mezzogiorno Silvia non ha visto  più una suora. Solo il  viso con la  cicatrice ha scrutato di tanto in tanto dentro la stanza, ha sentito il polso della ragazza. I dolci sono sul tavolo nessuno li ha toccati. Il viso con la cicatrice ha promesso di tornare la sera.

Il viso con  la cicatrice  si siede sul  bordo del  letto, accarezza  la testa e le braccia di Silvia e il  petto. (…) Silvia è piccola,  senza calore, senza affetto.  Se ne  sta  tutta zitta.  Silvia è  una  piccola bambina coraggiosa.

Il viso con la cicatrice respira forte. Allarme. Silvia si  irrigidisce. Il dottore apre la sua vesta bianca, fa qualcosa ai suoi pantaloni  grigi. Con l’altra mano spinge il corpo di Silvia su di sé. Silvia soffoca.

Non uccidermi, dottore,  mi fai  male. Non posso  più sopportare  nessun dolore. Prego dottore, non più.” (M. Mehr, 1995).

 

 

Le persecuzioni più recenti.

 

Venti aprile 1974: “Mi sono alzato prima di tutti gli altri, circa  alle cinque. E intorno, ogni  dieci metri,  c’era la polizia  con i  mitra…

Quando sono stati fra le baracche,  hanno fatto alzare tutti quelli  che dormivano, anche i bambini… hanno fatto la perquisizione… poi  hanno cominciato a tremare, i bambini hanno cominciato a piangere… Fino alle tre e mezza del pomeriggio  ci hanno tenuti  circondati, senza  mangiare senza sigarette, senza acqua… Poi quello in borghese e il capitano  ci hanno comandato di andare via da quel terreno (Roma, Settecamini). Entro le cinque della  sera dovevamo  sparire di lì:  sparire materialmente  e moralmente” (cit. in M. Karpati, 1974)

Le persecuzioni nei confronti degli Zingari non si sono arrestate.  Sono solo diventate meno visibili. In questo paragrafo elenchiamo alcuni atti persecutori degli ultimi anni, scelti per la loro valenza simbolica.

Continuiamo con  un titolo  della  “Domenica del  Corriere”,  datato  21 agosto 1975: “Gli  zingari non  se ne vanno  e allora  scaldiamoli”.  Il macabro riferimento è allo sgombero del 5 agosto, tra Bresso e Sesto San Giovanni: le immagini del settimanale mostrano i poliziotti che spargono benzina e incendiano gli sterpi attorno alle carovane Rom, mentre  altri li minacciano con i mitra imbracciati; ragazze che spingono fuori  dalla cortina di fumo una macchina; carrozzoni in fiamme; bambini nudi che  si stringono terrorizzati alla mamma piangente.

Da Roma ci giunge la cronaca di un altro sgombero violento, avvenuto  il 5 aprile del 1983:

“Il giorno dopo  Pasqua, senza nessun  preavviso la  polizia del Commissariato di  via  dei Romanisti  e dell’Ufficio  stranieri,  ci hanno intimato di sgomberare subito.  Già la settimana prima ci  avevano bruciato le baracche al Quarticciolo,  dove abbiamo sempre pagato  l’affitto. (…) Noi con una macchina  siamo riusciti a spostare nove  carovane e le altre sono  state bruciate. Anche quella del  nonno cieco;  la nonna era disperata. Hanno portato via gli uomini per controlli. Milenko aveva in braccio  la bambina,  Susanna, di un  anno e  mezzo, perché  la moglie era via… A lui l’anno rimpatriato e hanno tenuto la bambina per metterla in collegio. Per fortuna c’era un poliziotto di origine  rumena e siamo riusciti a farcela riconsegnare. (testimonianza di Mirko G.,  in Levak – Karpati, 1984).

Sette marzo 1995: una bomba  scoppia ad Oberwart, in Austria,  uccidendo quattro Zingari, tra cui due  nipoti di un reduce dai  lager di  Hitler.

Nonostante l’evidente responsabilità neonazista, la polizia  perquisisce le case degli Zingari, avanzando l’ipotesi di una faida.

Ed ancora: dieci marzo ’95: 200  persone manifestano a Padova contro  la sentenza razzista che ha condannato ad 1 anno e cinque mesi con la  con- dizionale il carabiniere Zantoni, colpevole di omicidio nei confronti di Tarzan Sulic, Rom di 11 anni.

Era stato illegalmente rinchiuso, il 23  settembre ’93, in una cella  di sicurezza, insieme alla  cuginetta Miria Diuric.  Piangevano e  volevano uscire: arriva il carabiniere, li minaccia, parte un colpo dalla  pistola, la  pallottola uccide  Tarzan  e finisce  nel petto  di  Miria,  che sopravvive. Per l’assassino neanche un giorno di carcere. Sono solo alcuni  recenti episodi,  simbolo di  intolleranza,  razzismo, ferocia. Ce ne sono molti  altri analoghi. I  responsabili sono  ‘tutori dell’ordine’ e persone perbene, bravi  cittadini e uomini onesti.  Gente che si crede civile. E per questo diventa assassina.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                    c a p i t o l o  2. La cultura

 

 

 

2.1. I gruppi

 

I gruppi zingari  presenti in  Italia possono  dividersi in  tre  grandi fasce:

 

  1. Zingari di antico insediamento, presenti soprattutto nell’Italia centro-meridionale, discendenti dei nomadi arrivati in Italia apartire    dal ‘400 (v. par. 1.2). Lavorano i metalli (rame e ferro) e si  dedicano al commercio. Hanno, in genere, la cittadinanza italiana; spesso abitano in abitazioni regolari e lavorano nell’edilizia o comunque in settori marginali.

In base alla  regione d’insediamento si  definiscono Rom  abbruzzesi,    calabresi, ecc.

In Italia  settentrionale conducono  generalmente  una  vita  nomade,    conciliandola con le loro occupazioni: sono infatti giostrai, gestori  di piccoli luna park e spettacoli viaggianti, piccoli commercianti  e    allevatori. Sempre in base alla  regione d’insediamento, si  chiamano Sinti piemontesi, lombardi, Gachaknè (tedeschi), Estrekaria (austriaci), Havati (croati).

 

  1. Zingari immigrati dopo la prima guerra mondiale: sono Rom provenientidall’Europa orientale, che parlano dialetti slavi e perlopiù fanno  i calderai e i commercianti. Si definiscono Lovara, Churara, Kalderasa.

 

  1. Zingari immigrati a partire dagli anni ’60: gli arrivi sono ancora incorso ed hanno subìto  una prevedibile accelerazione  a causa  della    guerra nella ex Jugoslavia. Infatti, questi Rom provengono dai Balcani, dove erano quasi tutti sedentari. In Italia, sono seminomadi, anche se è chiara la tendenza alla sedentarizzazione.

I Rom provenienti dalla Serbia si definiscono Kaniara, i Lovara  vengono dalla Polonia, i Rudari  sono invece originari della Romania.  I Khorakhanè provengono dalla Bosnia, dal Montenegro e dal Kossovo.

 

 

 

2.2. La religione

 

 

Premessa.

 

I pareri sulla religiosità degli Zingari sono molto discordi. Per  esempio, il Predari afferma: “nessun sentimento è in essi di religione, nemmeno sotto forma di qualche superstiziosa immagine; quindi una  facilità strana ad  informarsi  al  culto,  qualunque sia,  del  paese  in  cui vivono… Lo zingaro manca persino nella  usa lingua di un vocabolo  che esprima l’idea di religione” (Predari, 1841, p.149).

Altri sostengono che  “lo zingaro  non seppe assurgere  all’idea di  una Mente regolatrice dell’Universo e gli  mancò la nozione della  divinità, vivendo sempre nella  cerchia  dell’istinto, non  vede la  necessità  di piegare la sua  intelligenza alla comprensione  delle idee  astratte…” (Colocci, 1889, p.163).

Questa convinzione può derivare dal fatto che gli Zingari non hanno  mai avuto una religione ufficiale, adeguandosi sempre ai culti dei paesi con i quali hanno avuto contatti.  Il Benimeli ammette che  gli Zingari  “in realtà sono più superstiziosi che religiosi, però in mezzo alla loro più assoluta ignoranza hanno, come la  maggior parte degli uomini,  un’anima naturalmente religiosa” (Benimeli, 1965, p.38).

Leblon afferma che “la fede zingara poggia  su una visione mitica di  un mondo  diviso  tra forze  oscure e contrarie, benefiche o  malefiche, in perpetua lotta di  influenza” (Leblon,  1964, p.3).  Le due  forze  sono impersonate in Dio e nel diavolo: “riconoscono due princìpi: o Del,  Dio creatore, principio del bene; o  Bengh, il diavolo, principio del  male. Ambedue potenti e sempre  in lotta  tra loro. Questi  princìpi non  sono astratti ma al  contrario materializzati negli  elementi della  natura”. Questa materializzazione non  va intesa  in modo assoluto,  ma come  una tendenza a vedere  nei fenomeni  naturali manifestazioni  di Dio  e  del diavolo, i quali hanno un deciso carattere spirituale.

 

 

Dio.

 

Dio è universalmente designato con  il termine Devel o Del  (dall’antico indiano devà, devata= divinità). E’ una persona spirituale, della  quale gli Zingari non sanno, o meglio,  non vogliono dare una precisa definizione; si  rifiutano di  pensare  Dio in  forma sensibile  al  punto  da dichiarare peccato il rappresentare Dio in forme concrete. Gli attributi che gli danno sono: grande (baro), santo (hailigo, sunto) e nostro  (maro). Alcuni Zingari pensano ad un Dio buono, che governa tutto l’universo con amore; non concepiscono l’inferno come una condanna, ma solo come un periodo di purificazione.

Altri, invece, pensano che l’inferno sia la continuazione “delle pene  e dei dolori della stessa vita terrena”. I Gitani credono che Dio abbia un carattere vendicativo e malefico, ma ciò può essere giustificato, se  si pensa al  gusto  pauroso  delle  manifestazioni  religiose  presenti  in Spagna.

Il rapporto con Dio è un fatto personale: tutti si rivolgono a Lui  pensando al padre. E’  una esperienza  intima che non  può essere  spiegata dalla razionalità, essenziale per lo Zingaro.

 

 

La devozione.

 

Gli Zingari non hanno mai stabilito luoghi e forme di culto, esiste solo la pietà familiare. “Il culto  degli zingari è molto povero  e manca  un sacerdozio proprio,  manca  il tempio,  manca  il  calendario  religioso (…). Quindi, tutto il culto  sembra esplicitarsi nella preghiera  spontanea, individuale, immediata, non legata a formule, a tempi ed a luoghi determinati” (Belloni, 1968, p.25).

Lo Zingaro assume sempre un comportamento di profondo rispetto, cercando di non infrangere l’ordine della natura stabilito da Dio. “Le preghiere, generalmente molto semplici e ingenue, sono formule di domanda, talvolta persino di pretesa: io ti pregherò ancora, se tu mi esaudirai; se tu  ti ricorderai di me, io mi ricorderò di te” (Nicolini, 1969, p.98).

Di solito, nelle invocazioni si  chiede ciò che riguarda  la salute,  la fortuna e la libertà. “Atti  di culto vengono pure  tributai alle  anime dei defunti, rivolgendo loro preghiere,  offrendo libagioni,  accendendo ceri, venerando la tomba, proprio  perché il legame del sangue  continua anche dopo la separazione della morte” (Nicolini, 1969, p.99).

 

 

Lo spirito del male.

 

Il principio del  male è  il Bengh  (indostano: beng=  rana;  sanscrito: bleka= ranocchio). Il Beng è  l’antagonista di Dio, però  è inferiore  a lui. Come Dio, così il Bengh è indefinibile: gli Zingari dicono solo che egli non ha  natura umana,  anche  se, talvolta,  si presenta  sotto  le spoglie di  un uomo.  E’  molto difficile  che essi  parlino  di  questo argomento, temono anche di pronunciarne il nome e usano sinonimi come il brutto, il cattivo, quasi che,  per la potenza evocatrice della  parola, il chiamarlo per nome possa provocarne la presenza.

Gli Zingari credono  che accanto  alla natura  demoniaca  del  Bengh, ci siano altre forze come i  Mulè (che vengono  a tormentare i  vivi) e  le Hexi (esseri stregati). Presso i  Rom sussiste anche  la credenza  nelle Ursitory, che impassibili dirigono la sorte degli uomini.

 

 

La superstizione.

 

Al dualismo  Devel  – Bengh  corrisponde  la  contrapposizione  fortuna- sfortuna, baxt-bibaxt (dall’antico indiano bhaga= sorte), effetti  delle disposizioni benevola del  Devel o  malefica del Bengh.  Lo Zingaro  usa portare con sé immagini sacre e amuleti.

L’amuleto più diffuso è il “sacchetto di cose sante”. E’ un sacchetto di tela o di pelle, che lo Zingaro porta appeso  al collo e che si  procura dalle ‘sante’. La ‘santa’ (hailighi gagì) è una fattucchiera, alla quale gli Zingari si rivolgono in  caso di  bisogno: per la  guarigione di  un malato per la liberazione di un carcerato.

La ‘santa’ assicura la sua mediazione, purché il richiedente abbia fiducia in Dio; è sempre una ‘gagì’ (una non zingara), ritenuta una  potente mediatrice presso Dio.  Il ricorso alle ‘sante’ serve a superare le difficoltà, infondendo quella fiducia necessaria per affrontare pericoli ed ostacoli.

Il timore superstizioso che circonda i morti è molto forte: gli  Zingari danno molta importanza ai sogni,  in cui appaiono i  defunti, in  quanto ritengono che vengano  per  dare loro  avvertimenti, che  devono  essere eseguiti con la massima prontezza.  Ma di questi sogni potranno  parlare solo dopo lo scoccare del  mezzogiorno. Gli Zingari  praticano anche  la magia verbale che si traduce in formule  cariche di una grande forza  di coercizione.

Se uno Zingaro chiede ad un altro di dirgli la verità, o di compiere una data cosa scongiurando sulla testa  dei suoi figli o  sulla memoria  dei suoi morti, questi non potrà esimersi dal farlo. Naturalmente, tutto ciò non vale se la richiesta viene da un non-zingaro.

 

 

Moralità.

 

Lo Zingaro è fondamentalmente religioso, anche se non aderisce con piena consapevolezza a nessuna religione positiva. Tutto ciò che risponde alla volontà divina è  principio di  amore e di  vita. Lo  Zingaro vede  nell’amore la  ragione  della  sua  vita,  infatti  si  ritiene  del  tutto giustificato agli occhi di Dio quando ha assolto il suo impegno verso il prossimo. Va evidenziato che il prossimo,  per lo Zingaro, è l’uomo  del suo stesso sangue, non lo straniero, il gagiò. questo non vuol dire  che non provi sentimento di forte e sincera amicizia per i gagè,  l’ospitalità è sempre sacra per gli Zingari.

Dalla contrapposizione dei due mondi (Zingaro e non-Zingaro) deriva  una diversa valutazione: mentre è male  uccidere, derubare ed ingannare  uno Zingaro, queste azioni non sono avvertite come colpe se rivolte verso  i gagè, poiché lo  Zingaro reputa  il nostro mondo  immorale, spinto  dall’egoismo e da interessi materiali. Le relazioni con la propria gente si caratterizzano invece per  la spontanea generosità.  Non c’è differenza tra povero e ricco; chi  ha, dà. E’  la legge del  mondo nomade  fondata sulla comunione dei beni: non esiste proprietà personale, né eredità.

 

 

Gli Zingari e il Cristianesimo.

 

Gli Zingari non accettano né il mistero  del Cristo come vero Figlio  di Dio incarnato e  morto, né  il mistero  della Trinità.  Non  comprendono nemmeno il bisogno della Redenzione: ogni  uomo soffre già nella vita  a causa delle proprie colpe e  in questo modo si riscatta  davanti a  Dio.

Con entusiasmo hanno accolto la devozione alla Madonna, che essi chiamano ‘Madre di Dio’, che si manifesta nel culto per la sua immagine, nei pellegrinaggi ai suoi santuari, nelle generose offerte. Accanto alla Madonna sono  venerati alcuni  santi,  ad  esempio santa  Rita  da  Cascia  e sant’Antonio da Padova.

“Gesù è il Deverolo,  il Divino: inconsciamente  gli attribuiscono  pre- rogative divine, senza però riconoscerlo  come figlio di Dio”  (Karpati, 1962, p.109). Il Vangelo è  praticamente incompreso. Restano ancora  vive alcune leggende che deformano la  narrazione evangelica della nascita  e della morte di Gesù. Da loro, la Sacra Scrittura è stata considerata  un libro di magia. Hanno accolto dalla religione cristiana quegli  elementi che rispondevano alla loro visione  religiosa del mondo e  della vita  e che soddisfacevano insieme al bisogno  di forti emozioni. Alla  partecipazione entusiasta  a determinate  manifestazioni  religiose  segue  una palese indifferenza per gli impegni della vita cristiana quotidiana.

 

 

 

2.3. La musica dei Rom

 

 

Nei villaggi e nelle corti.

 

Nell’Europa centrale ed  orientale  la musica  zingara è,  ancora  oggi, apprezzata ed  ascoltata. La  fama  dei suonatori  zingari  risale  alla Persia dell’anno Mille (v. pag. 5). Poco dopo il loro arrivo in  Europa, alla fine del ‘400, Zingari suonatori di liuto erano presenti alla corte d’Aragona. Nei decenni successivi, si segnalano presenze nelle corti  di Boemia ed Ungheria e della Transilvania.

Nel ‘500, ci sono testimonianze  di alcuni Zingari che  suonavano per  i signori turchi che  allora occupavano  gran parte  dell’Ungheria.  Altri suonavano nelle  corti  dei nobili  ungheresi,  che  invece  resistevano all’invasore. Suonavano alla maniera turca  e sotto l’influenza dei  magiari, suonavano la cetra ed il cimbalo.

Ovviamente, i  suonatori apprendevano  e  rielaboravano  elementi  delle culture musicali con cui venivano a  contatto: per cui, si possono  rin- tracciare elementi arabi e tecniche di orchestrazione ed  armonizzazione che invece sono tipicamente occidentali.  Alla fine del  XVI secolo,  la tipica orchestra zingara era composta da due violini, un contrabbasso ed un cimbalo (uno strumento a corde percosso da due martelletti).

Nei secoli successivi, il ‘600  ed il ‘700,  il successo e  la fama  dei suonatori zigani diventò enorme: richiesti  nelle feste pubbliche ed  in quelle private, nelle nozze di paese  e nelle osterie, nei villaggi  dei contadini e nei palazzi dei signori.

Nel 1751, il  conte ungherese  Francesco di  Galantha accordò  a  cinque vassalli zingari il  titolo di  ‘musicisti di corte’,  che valeva  molti privilegi, a partire dall’esenzione  dalle tasse e  dalle corvèe.  Barna Mihhàly, violinista del  conte Emerich  Csàky, ebbe fama  duratura e  fu soprannominato l’Orfeo ungherese. Il cimbalista  Simon Banyak era  molto apprezzato dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Le orchestre zingare attraversavano l’Europa centrale ed orientale,  suonando nei villaggi  o in occasioni ufficiali, come l’incoronazione di Presburgo del 1808, dove Maria Luisa divenne regina d’Ungheria.

Gli Zingari  musicisti erano  generalmente  considerati  migliori  degli altri: nell’800 erano ritenuti i  conservatori delle musiche  nazionali, una sorta di  memoria storica  musicale: per esempio,  nelle  tradizione zingara rimane  il canto  di  Rakòczi, una  rievocazione  della  rivolta ungherese del 1702, contro gli Asburgo. Il canto fu in parte trasformato da Janos Bihari e divenne la Marcia di Rakòczi, l’inno nazionale  ungherese.

Prosper Mérimée descrisse, durante il suo soggiorno a Pest del 1854, una festa con arie ungheresi suonate  da Zingari: “[Fanno] perdere la  testa alla  gente del  paese. Comincia con  qualche cosa  di  molto  lugubre e finisce con una gaiezza folle  che conquista tutto l’uditorio, il  quale batte i piedi, spacca i bicchieri e balla sulle tavole” (cit. in Vaux de Foletier, 1977, p.143).

 

 

I canti e i suoni.

 

“Des Bohemiens et leur musique  en Hongrie”  è il titolo  del libro  che Franz Liszt dedicò alla musica zingara: “l’Ungheria”, scrive Liszt  “può dunque, a buon diritto  reclamare come propria  quell’arte, nutrita  del suo grano e  delle sue vigne,  maturata alla  sua ombra e  al suo  sole, acclamata dalla  sua ammirazione,  ornata, abellita,  nobilitata  grazie alla sua predilezione ed alla sua protezione, e così ben collegata con i suoi costumi che  richiama i  più intimi, i  più dolci  ricordi di  ogni ungherese” (F. Liszt, 1859).

Il celebre  musicista scrisse  dell’interdizione  che i  musicisti  gagì provarono ascoltando intervalli e modulazioni  che venivano  considerati come sbagli dall’armonia  europea; più tardi,  furono conquistati  “dall’asprezza, dalla libertà e dalla ricchezza dei ritmi, dalla loro molteplicità e duttilità”.

Altri riconoscimenti  vennero  nel  secondo  Ottocento,  quando  celebri orchestre zingare giravano la Francia ed i paesi limitrofi, ottenendo un successo che provocò il moltiplicarsi di mediocri imitatori.

Intanto, le orchestre si arricchiscono di nuovi strumenti: il tamburino, la chitarra,  il ‘naiu’ (flauto di Pan), la ‘cobza’ (un mandolino a nove corde); le  voci accompagnano  sempre  più spesso  le  esecuzioni  strumentali.

Nascono i  cori zingari,  specialmente  in Ungheria  ed  in  Russia:  il marchese de Custin, in viaggio  attraverso la Russia del 1839,  raccontò del “canto selvaggio e appassionato”  dei cori zingari  di Mosca.  Molte famiglie di cantori fanno fortuna ed entrano nell’alta società.

Nell’Italia meridionale, gli Zingari fabbricavano e suonavano lo  ‘scacciapensieri’ (un cerchio di ferro  con una lamina che  vibra a  contatto con i denti),  che in  Campania  è ancora  oggi chiamato  ‘tromba  degli Zingari’.

La musica zingara è stata apprezzata soprattutto nell’Europa  orientale. Lentamente, però,  si diffonde  anche  nella parte  occidentale:  tra  i musicisti, Rameau inserì “L’Egiptienne” nelle ‘Nuove suites di pezzi per clavicembalo’; nel Carnevale di Venezia,  Campra mise la “Canzone  delle Zingare”; altri musicisti  più noti  si sono  ispirati a  temi  zingari: Beethoven, Haydin,  Shubert, Brahms.  Si  diceva che  uno dei  figli  di Johann Sebastian Bach suonasse il violino con gli Zingari.

L’altro filone della musica zingara, quello gitano, è diventato  univer- salmente noto solo  in tempi  relativamente recenti. Nel  XIX secolo  si impose il flamenco,  fusione di  musica andalusa  e gitana,  basato  sul ‘cante jondo’ (canto profondo). I musicologi vi hanno individuato  anche elementi orientali, arabi ed ebraici.

 

 

I ritmi e le melodie.

 

“Per la maggior parte dei casi” scrive ancora Franz Liszt, “i dilettanti europei, gli insegnanti di musica  e soprattutto i  maestri dei  conservatori cominciarono a non capire nulla di codesto sistema, per il  quale ci si immerge, con un tratto brusco, nel fluido immateriale che la musica sprigiona in tratto così  intenso. Non tutti  possono capacitarsi  di come un uomo ragionevole possa passare senza preambolo alcuno da una tonalità di un sentimento, rappresentata in arte da una tonalità musicale, in quella che è la sua opposta; e che  possa passare d’un tratto da  una forma all’altra, con  cui la prima  non ha  nesso, così come  il Rom  si getta da uno stato d’animo ad  uno contrario, senza alcun perché,  senza aspettare  la  lenta  decrescenza del  primo sentimento e  la successiva formazione del nuovo” (F. Liszt, 1859).

Le parole di Liszt spiegano  l’elemento essenziale della musica  zigana: il ritmo, il  passaggio fluido  e libero  attraverso tempi  diversi;  la linea melodica è delicata e si  incrocia con perifrasi e arpeggi,  scale furiose ed improvvisazioni.  Tutto  ispirato  dal  sentimento  e  dalla spontaneità, ma  anche da  una  grande sapienza.  L’orchestra  è  sempre affiatata, le forme musicali subiscono l’influenza dei vari paesi in cui gli Zingari soggiornano ma, nello stesso tempo, sono una  rielaborazione originale; gli strumenti  più usati  sono il  violino, la  chitarra,  il cembalo, l’arpa; e poi il clarino, gli ottoni, il violoncello ed il contrabbasso in Ungheria, le nacchere in Spagna, il tamburello in  Turchia, il flauto in Russia e la zampogna in Gran Bretagna.

 

 

 

2.4. La donna e la famiglia

 

 

Il nucleo della società.

 

La famiglia è il nucleo fondamentale della vita dello Zingaro, tutta  la sua esistenza si  svolge dapprima  nella famiglia di  origine e  poi  in quella coniugale.

La famiglia  non è  solo  importante  per l’individuo,  ma  è  anche  un elemento  essenziale  per  l’organizzazione  sociale.  Infatti,  l’unità sociale fondamentale elementare non è la famiglia ristretta ai  genitori e ai figli,  ma la  famiglia estesa:  la Vica.  Lo Zingaro  dunque,  non esiste al  di fuori  della  famiglia; lo  scapolo rimane  nella  propria famiglia; il vedovo e la vedova, secondo le circostanze, ritornano nella famiglia di origine o si inseriscono nella famiglia di un figlio o di un fratello. L’uomo è il capo  della sua famiglia e  rappresenta il  legame tra la famiglia ed il  gruppo. La donna appartiene  alla Vica  dell’uomo con il quale si sposa,  nella quale va a vivere  dopo il matrimonio.  Il matrimonio non fonda la  famiglia, è  il figlio che  fonda la  famiglia. Solo dopo la nascita del  primo figlio i coniugi  possono costituire  un nucleo indipendente.

La famiglia coniugale è il nodo  fondamentale fra il gruppo parentale  e la comunità: la kumpania. Il matrimonio rappresenta un momento di  crisi nella vita dello Zingaro: la  fase che precede il  distacco dei  coniugi dalle rispettive famiglie. Esso viene vissuto e ritualizzato in  maniera diversa da gruppo a gruppo.  Il rituale che prevede  la verginità  della ragazza, la presenza di testimoni e le varie formule pronunciate (in cui viene affermata l’indissolubilità del matrimonio) testimoniano il valore che gli Zingari attribuiscono a questo rito.

Il matrimonio viene stabilito dai genitori: il padre comunica al  figlio l’intenzione di chiedere la mano di  una ragazza per lui. Questa  scelta appare al figlio come un dono. Già a partire dall’età di 14-15 anni,  il giovane riceve una compagna  e diventa  un Rom, mentre  prima non  aveva alcuna importanza sociale. Il matrimonio  tra i Rom può essere  definito ‘matrimonio per acquisto’, in quanto il padre del ragazzo si reca presso la famiglia della ragazza per  chiederle le mano, offrendo  al padre  di lei una somma di denaro.  Il prezzo che viene pattuito  tra le  famiglie non è in realtà un prezzo d’acquisto,  la sua funzione è più  complessa: risarcimento al padre e ringraziamento  per averla allevata bene,  prova di possedere del  denaro e  quindi garanzia che  la vita  della  ragazza nella futura famiglia non sarà dura, possibilità di un buon  matrimonio, dato che parte  della somma  viene destinata per  l’abbigliamento  della sposa.

Presso i Sinti (ma anche  in altri gruppi), il  matrimonio viene  deciso con la rilevante partecipazione dei  futuri sposi: i genitori,  infatti, tengono conto delle loro preferenze (in particolare, di quella maschile).

In caso di  contrarietà delle  famiglie, i due  innamorati fuggono  (una ‘tradizione’ diffusa anche nel meridione  d’Italia) e poi ritornano  insieme, ottenendo il perdono delle famiglie.

Secondo la tradizione, la prima  notte di matrimonio  una donna  anziana controlla la verginità della ragazza mostrando agli invitati il lenzuolo o la sottana macchiati di sangue.  Se viene verificato il contrario,  ai festeggiamenti si sostituirà la lotta tra  le due famiglie e la  ragazza sarà considerata una prostituta e non potrà più sposarsi.

Il matrimonio  è motivo  di  festeggiamenti che  possono  durare  alcuni giorni ed è un evento che rafforza  il legame parentale. Dopo il  matri- monio, è importante per la donna essere feconda poiché ‘i figli sono  la ricchezza e la potenza della  famiglia’. La sterilità può essere  motivo di scioglimento del matrimonio.

La sposa  accolta nella  casa  del marito  è inizialmente  trattata  come un’estranea dai suoceri. La vita al servizio della suocera è spesso  dura; la sposa diviene serva  della suocera e delle  cognate più  anziane, deve obbedire ai loro ordini.  La coppia lascia  l’abitazione del  padre quando la sposa attende il primo figlio. Da questo momento il nuovo capo famiglia stabilisce la sua abitazione accanto a quella del padre.

Una serie  di tabù  circonda  lo  stato di  gravidanza.  Tutto  ciò  che riguarda il parto è impuro; la madre e il bimbo sono intoccabili: nessun uomo, nemmeno il  padre, può  accostarli. Secondo la  tradizione,  dalla nascita alla morte la donna  è schiava del Rom. Da  bambina obbedisce  a suo padre, da donna a  suo marito, da vecchia ai  suoi figli. Ma con  il passar del tempo e la nascita dei figli, il suo prestigio aumenta  quando, a sua volta, può contare sulle nuore.

L’importanza delle donne nell’economia è  grande, è la donna che  veglia sull’educazione del figlio fino ai suoi 10 anni, e all’educazione  della figlia, e quindi al suo onore.

 

 

Il ruolo della donna.

 

Fin da  piccola,  la  donna  riceve una  educazione  diversa  da  quella dell’uomo. Le bambine, dall’età di 6/7 anni, sono impegnate ad  accudire i fratellini o altri bambini a cui sono legate da rapporti di  parentela e svolgono altre attività  domestiche, come lavare  gli indumenti  della famiglia, tener pulita la roulotte  o la baracca,  preparare il  pranzo.

Quando non è impegnata  in queste  attività, comincia ad  andare con  le donne a fare il ‘manghel’. Fin da piccola deve servire l’uomo, sa che da adulta il suo ruolo sarà uguale a quello  delle altre donne e non  potrà intervenire in nessuna decisione importante senza il parere del marito. E’ considerato impuro tutto ciò che riguarda le funzioni genitali femminili: cicli mestruali,  gravidanza, parto,  puerperio. Durante  i  cicli mestruali è  fatto divieto  all’uomo  di avvicinare  la donna  e  avere rapporti sessuali con lei e lo stesso avviene per un periodo più o  meno lungo durante la gravidanza.

Quando la donna è incinta,  entra in uno stato considerato  particolare, si dice che la donna è ‘naseli’ (malata), perciò cerca di nascondere  la propria condizione  e  continua  a  condurre  una  vita  normale,  senza risparmiarsi le fatiche.

Solo le donne possono avvicinarla ed aiutarla. Tutto ciò che riguarda il parto è considerato impuro; la donna non può partorire nel proprio luogo di abitazione. Uno Zingaro che  aiutasse una donna  a partorire  sarebbe soggetto a  divenire impuro.  L’impurità  della madre  si  trasmette  al bambino appena nato che, prima del battesimo, viene considerato ‘non  un essere umano’, non può essere toccato nemmeno dal padre, il suo nome non può essere pronunciato, i suoi indumenti devono essere lavati a parte.

Questi tabù hanno un duplice obiettivo: sia quello di prevenire il  contatto con un essere considerato impuro, sia quello di proteggere il bambino dalle forze superiori malvagie.  E’ evidente, quindi, perché il rito cristiano del battesimo  sia stato  accolto dagli Zingari,  in quanto  è visto come rito che  purifica. La  nascita del figlio  determina per  la donna il punto di partenza di una quarantena. In questo periodo  avviene una netta separazione dagli  uomini:  la Romni  vive  appartata  usando oggetti personali, che alla fine  di questo periodo verranno  distrutti, deve mangiare da  sola, non  può toccare  oggetti destinati  al  marito; altre donne preparano i  pasti per  il marito. Terminato  il periodo  di quarantena, la madre può riprendere la normale vita di gruppo. La  donna anziana, per il  fatto di  aver superato (grazie  alla menopausa)  molti stati d’impurità, non  contamina più  gli uomini e  per questo  gode  di maggiore libertà.

 

 

 

2.5. Il viaggio, lo spazio, il tempo

 

 

La concezione spazio-temporale.

 

Spazio e tempo sono i  punti di riferimento attraverso  i quali  riconosciamo persone ed oggetti, oppure attribuiamo senso alle cose: se intervengono variazioni nel tempo, nello spazio o in entrambi, accade  facilmente che la capacità di comprendere il mondo, gli oggetti e le  persone venga meno, perché  è stato  alterato  lo sfondo  che ne  permetteva  la conoscibilità, sulla base di abitudini consolidate.

Questa definizione di spazio e di tempo è fondamentale per poter parlare del significato che queste due variabili hanno per i Rom e delle  conseguenze che la loro concezione spazio-temporale ha avuto ed ha nella loro vita.

La concezione dello spazio corrisponde alla concezione dell’abitare:  in questo senso i Rom sono e rimangono, almeno per vocazione, nomadi. Abitare vuol  dire disporre  di  un doppio  spazio: uno  spazio  esterno infinito, che offre luoghi aperti  che i Rom utilizzano  per un  periodo limitato ed uno spazio interno,  mobile, di dimensioni  adatte per  contenere il necessario alla vita quotidiana, che si può usare il giorno  e la notte, e che offre un riparo in caso di maltempo.

“Che differenza c’è tra  un Rom ed  un gagè  ? La stessa  che corre  tra l’orologio ed il tempo: il primo segna le ore, i minuti, i secondi, e tu non sai che  dopo le  sei vengono le  sette;  il secondo  è il  sole  la pioggia, il vento e la neve e tu non sai mai quello che sarà” (A. R. Calabrò, 1992).

Nella loro vita nomade, i Rom hanno una concezione ed una organizzazione del tempo estranee al tempo dell’orologio. I loro ritmi di vita  seguono i ritmi naturali  delle stagioni  e  la loro  economia è  fondata  sugli spostamenti da un luogo all’altro.  Una concezione simile  a quella  dei Rom era tipica  delle società  preindustriali all’interno  dell’economia contadina, una concezione arcaica, estranea alla moderna società, ove  i ritmi dell’orologio sono imposti dalle esigenze della produzione.

Un Rom, non essendo vincolato ad alcun lavoro dipendente, non ha bisogno dell’orologio. Bastano il  giorno e  la  notte a  fissare i  ritmi  quotidiani, così come le stagioni stabiliscono il calendario delle attività economiche e degli spostamenti geografici.

Su questa concezione  spazio-temporale si  fondava l’organizzazione  so- ciale dei Rom, prima dell’avvento della sedentarizzazione forzata.

Il nomadismo implica modi di  vita, valori, orientamenti totalmente  diversi da quelli dei paesi  occidentali capitalisti, tanto che ne  risultano due  linguaggi tra  loro  incompatibili. Ciò  non  ha  impedito  la sopravvivenza dei Rom in  termini di identità  culturale, almeno  finché sono stati nomadi  e  quindi solo parzialmente  dipendenti dalle  regole sociali proprie dei paesi attraversati, ma che comporta ben altre conseguenze quando l’interazione assume caratteri stabili.

 

 

Non più nomadi.

 

Fino a  pochi decenni  fa,  l’economia capitalista  in via  di  sviluppo consentiva ai Rom  una propria autonoma  sopravvivenza economica.  L’at- tuale organizzazione ha invece chiuso  tali fonti, modificando  radical- mente la qualità e i  metodi d’interazione tra la cultura  Rom e  quella dominante.

Con il boom  economico, l’economia  contadina viene  spazzata via  ed  i nomadi sono costretti a raggiungere la periferia delle grandi città  per cercarvi nuove  risorse per  sopravvivere.  In breve  tempo,  i  Rom  si trasformano in rottamai e raccoglitori di rifiuti da riciclare e ciò, se da un  lato  consente  loro  di vivere,  dall’altro  li  costringe  alla parziale sedentarizzazione modificando del tutto i tratti della  cultura nomade.

Le limitazioni imposte dalle autorità,  inoltre, hanno accelerato  tale processo che  coincide con  la  nascita, nelle  periferie  delle  grandi città, di campi stabili e (talvolta) autorizzati, anche se poco  attrezzati, nei quali i Rom  organizzano la  vita di ogni  giorno cercando  di riprodurre le antiche abitudini e,  insieme, costretti anche ad  apprendere e rispettare una serie di norme imposte dall’esterno.

La sedentarizzazione è l’opposto del nomadismo: vuol dire adottare stili di vita  contrari a  quelli  nomadi, costringe  a modificare  valori  ed abitudini e ridefinire la propria organizzazione sociale ridisegnando  i legami di reciproca solidarietà. Un  processo così radicale di  trasformazione comporta squilibri e contraddizioni.

Gli Zingari erano ritenuti tali perché  non avevano casa, lavoro, né  li chiedevano, vivevano  di espedienti,  erano socialmente  pericolosi,  si vestivano in  modo  strano  e parlavano  una  lingua  incomprensibile  e soprattutto mostravano di non volere  assolutamente rinunciare a  queste loro caratteristiche.

Ma lo Zingaro era anche il ‘figlio del vento’, poeta, filosofo,  ribelle a ogni tipo di regola, passionale, libero.

Attività  lavorative,  relazioni  sociali,   occupazioni  familiari   si sovrapponevano tra loro  o si  alternavano in base  alle necessità  con- tingenti. L’unità di misura del  cambiamento, il tempo astratto,  legava questo popolo indissolubilmente alla natura, ai suoi ritmi.

Questa concezione temporale  è rispecchiata  dall’importanza  attribuita dai Rom al  presente e  dal loro disinteresse  per il  futuro, a  cui  è inutile pensare quando non si è artefici del proprio destino e la realtà dell’esistenza sembra ripetersi sempre uguale a sé stessa.

Il tempo è  tempo presente,  ciò che  è accaduto  in passato  tornerà  a ripetersi, è l’alternarsi del tempo sacro e del tempo profano, del tempo del lavoro  e di  quello  della festa  ed il  calendario  garantisce  la periodicità, la ritualità dell’evento sacro  che si ripete  ciclicamente come elemento strutturante della stessa vita sociale.

 

 

Tempo dell’orologio.

 

Per i  Rom, organizzare  le  proprie  attività in  base  ad  una  rigida scansione temporale è stato un passo davvero molto difficile.

Le loro occupazioni,  infatti, variavano  a seconda  delle  circostanze, delle  stagioni,  dei  luoghi  dove  il  gruppo  decideva  di  fermarsi: chiacchiere, ozio, lavori domestici, attività lavorative, potevano svolgersi contemporaneamente e avere una durata ogni volta diversa.

I Rom non hanno mai voluto subordinarsi ad esigenze di produttività e di efficienza, per loro il tempo  non è mai stato scarso,  ciò che  contava era ciò che veniva fatto e non il tempo utilizzato per farlo, l’oggi, la sicurezza della ripetitività degli eventi,  la certezza delle  abitudini quotidiane.

Il processo di sedentarizzazione, parziale o totale, ha costretto dunque questo  popolo  ad  una  ‘disciplina  temporale’.  Il  rapporto  con  le istituzioni comporta infatti la conoscenza e l’osservanza del calendario proprio a  ciascuna  istituzione,  vivere  in  una  città  costringe  ad imparare velocemente l’organizzazione dello spazio  e del tempo  proprio della cultura ospitante.

Tuttavia, questi rapporti non sono abbastanza stabili e continuativi  da modificare il modo Rom di rappresentare e organizzare il tempo anche  se lo sono abbastanza da creare  loro problemi di adattamento difficili  da superare.

I bambini faticano ad  assoggettarsi agli orari  scolastici, gli  adulti sono riluttanti a svolgere lavori continuativi e non sanno progettare il futuro, rispetto al quale manifestano fatalismo; l’insofferenza verso le regole e la disciplina, la tendenza a non separare i tempi ed il  luoghi della vita, sono esempi di incongruenze spazio-temporali.

 

 

Lo spazio chiuso.

 

Perché si dice che lo  Zingaro è sporco, ladro, rifiuta  il lavoro,  non rispetta la legge ? Perché tali caratteri sono la volgarizzazione di alcuni aspetti che appartengono ad una cultura che fino a poco tempo fa  è stata nomade.

Un popolo nomade non è abituato a  pulire lo spazio che attraversa,  sia perché non gli appartiene ma  gli serve per prendere l’acqua,  accendere il fuoco, trovare riparo; sia perché  la stessa natura provvedeva a  ripulire ciò che i nomadi lasciavano al loro passaggio.

I nomadi non pensavano al  lavoro, così come è  concepito oggi:  avevano mestieri saltuari e  non erano  abituati a vendere  per denaro  la  loro forza lavoro.

L’economia Rom  era povera,  fondata  sul baratto;  il piccolo  furto  e l’imbroglio erano  spesso dettati  dalla  necessità e  giustificati  dal valore irrisorio attribuito in passato  alla proprietà. La famiglia  era l’unica istituzione  sociale  esistente  e  dava  il  senso  stesso  all’esistenza di ogni uomo.

La sedentarizzazione ha  fatto perdere  identità e funzionalità  ad  una organizzazione sociale di questo tipo: infatti, mentre i cambiamenti  di tipo strutturale hanno  avuto tempi  di evoluzione  accelerati,  quelli culturali hanno tempo di sviluppo molto  più lunghi ed i Rom,  costretti ad abbandonare il nomadismo, non altrettanto rapidamente hanno  cambiato quei caratteri della propria identità  culturale che definiscono i  modi di usare ed organizzare il tempo e lo spazio.

La struttura e la cultura  di queste società non  assolvono, dunque,  il compito di reciproca  corrispondenza e  funzionalità e  tale  squilibrio favorisce fenomeni di  disordine e  disagio sociale,  amplificati  dalla scarsa disponibilità delle società ospitanti  a favorire il processo  di adattamento.

Il prezzo che i Rom hanno  pagato è stato altissimo: “rimangono  infatti doppiamente stranieri, sia nei confronti delle cultura di  appartenenza, sia rispetto alla  cultura  dei paesi  ospitanti, come  l’Italia.  Hanno perso la loro identità, senza avere le risorse necessarie per acquisirne un’altra, espulsi  da una  parte,  emarginati dall’altra,  con  la  loro organizzazione del tempo e dello spazio difficilmente negoziabili” (A.R. Calabrò, 1992).

 

 

 

2.6. L’organizzazione socio-economica

 

 

Premessa.

 

Le mutate condizioni socio-economiche hanno costretto i Rom a rinunciare ad uno dei caratteri che ne ha sempre definito l’identità, il nomadismo, adattandosi di  malavoglia ad  una  condizione più  o  meno  forzata  di parziale o totale sedentarizzazione.

Questa nuova condizione li ha posti  di fronte ad un confronto  continuo con la cultura dominante, caratterizzata dal consumismo di una società a capitalismo avanzato; da questo scontro,  in un certo  senso la  cultura Rom non può che uscirne sconfitta, o valutata negativamente, dato che  i loro modelli culturali non sono più atti a fornire soluzioni valide  per confrontarsi con le attuali esigenze della vita.

I Rom  rimangono così  relegati  nell’ambito della  marginalità,  in  un equilibrio instabile tra le due culture. E’ chiaro che  l’organizzazione socio-economica si  struttura intorno  al  concetto di  viaggio  (v.  in precedenza), che è il tratto  culturale dominante; ed  in riferimento  a ciò, possiamo  affermare che  la  struttura sociale  è fondata  più  sui legami familiari che sui ruoli sociali, fondati sul gruppo parentale.

 

 

La comunità.

 

Lo studio  dell’organizzazione sociale  Rom  deve far  riferimento  alla ‘comunità intera’, non nel senso  territoriale poiché non  si fonda  sul criterio dello spazio; ciò che è importante è il luogo in cui si  collocano l’individuo e la sua  famiglia, in  un insieme che  può essere:  il gruppo, il sottogruppo, la Nacija e la Vica.

Il concetto di comunità  avrà quindi  tanti livelli quanti  sono i  sentimenti di appartenenza di un individuo alla comunità.

Il sentimento di appartenenza si colloca a livello dell’insieme dei  Rom in opposizione ai non-Rom; al livello del  gruppo (es.: i Rom) in  opposizione ad altri gruppi (Kalè, Manus); al livello del sottogruppo  (es.: Rom Kalderasa) in opposizione agli altri (Lovara, Churara), ed ancora  a livello di Nacija e di Vica.

 

 

La Vica.

 

La Nacija  è un  gruppo ampio  costituito  da un  certo numero  di  Vica rimaste sotto lo stesso nome, è una suddivisione dei sottogruppi etnici. Invece, la Vica è una unità sociale  formata da un gruppo parentale,  ma le diverse famiglie  non vivono  necessariamente insieme: non  si  fonda cioè sulla residenza comune, ma manifesta la propria identità o presenza in circostanze particolari, quali il  matrimonio, le nascite, la  morte, la vendetta,…

Possiamo quindi affermare  che non esiste  una organizzazione  centrale, poiché i Rom hanno scelto  la Vica solo come punto  di riferimento  del- l’individuo e dell’intera società.

Di conseguenza, l’unità  sociale fondamentale  elementare non è  la  fa- miglia ristretta ai genitori e figli ma la famiglia estesa: la Vica, appunto, che è il perno  dell’organizzazione sociale: tra le famiglie  allargate c’è una continua simbiosi, al loro interno si sviluppano i  giochi di influenza, opposizione e cooperazione.

All’interno dell’organizzazione c’è un certo tipo di strutturazione, che si manifesta quando arrivano nuovi gruppi in un Paese in cui i Rom  sono già presenti. Infatti, esiste tra loro il diritto del primo occupante. I nuovi arrivati  si  trovano  in posizione  di  subordinazione  e  devono sottostare alle  condizioni impostagli  dai  primi  arrivati  (divisione della città in zone di  lavoro, versamento di  una somma  compensatrice, una sorta di locazione del territorio).

 

 

La Kumpania.

 

Un’altra unità sociale dell’organizzazione Rom è la Kumpania, che  opera nella  vita  quotidiana  e  risponde  ad  esigenze  economiche.  La  sua formazione è legata a motivi di ordine economico di un dato ambiente so- ciale, prevalentemente urbano, dove le singole famiglie convivono per lo svolgimento delle proprie attività, caratterizzate da una forte  solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali  perdite o danni.

All’interno della Kumpania non esistono gerarchie; i suoi membri, per la loro rappresentanza all’esterno, eleggono uno di loro, che viene  scelto per alcune qualità personali, quali la saggezza, l’esperienza, l’abilità a trattare con i gagè, l’equilibrio.

Questa  carica,  essendo  fondata  sulle  qualità  dell’eletto,  non   è ereditaria, e il ‘rappresentante’ può essere rimosso dall’incarico  qualora si ritenga che non sia più in grado di svolgere tale compito.

Inoltre, si è sempre sentito parlare di re e regine tra i Rom, ma è solo una leggenda, un espediente  per ingannare o  per attrarre  l’attenzione dei gagè qualora ve ne fosse la necessità.

 

 

La Kris.

 

La Kris è una sorta di tribunale composto da un certo numero di anziani, quasi esclusivamente uomini, che in  virtù della saggezza acquisita  con l’esperienza, assolvono il compito di amministrare la giustizia. La Kris viene convocata ogni qual volta sorgono dei contrasti all’interno  della comunità, per risolvere  ed emettere  delle vere e  proprie sentenze  su specifici contrasti insorti,  secondo  un codice  normativo che  non  ha alcun tipo di formalizzazione se non quello dato dalla tradizione. Ed è in essa che  emerge in modo netto l’aspetto  politico, che è  unito all’organizzazione sociale.

 

 

 

L’attività economica.

 

Per chiarezza d’esposizione  e per  facilitare la  comprensione  abbiamo pensato di suddividere l’analisi dell’attività economica in due  periodi diversi tra loro,  poiché  le mutate  condizioni sociali,  politiche  ed economiche hanno  del  tutto  stravolto  e  differenziato  l’economia  e l’organizzazione Rom.

Il primo periodo arriva fino alla fine degli anni ’50: è  caratterizzato da una evoluzione e da una trasformazione molto lenta delle attività dei Rom, che sviluppano abilità e  forniscono prodotti che trovano una  collocazione economica in una società rurale.

Gli antichi mestieri sono: giostrai,  venditori ambulanti,  maniscalchi, arrotini, stagnini, allevatori di animali  da tiro, questua e  chiromanzia. Contemporaneamente, i Rom svolgono una funzione di collegamento  tra i paesi che attraversano,  portando notizie e  quindi svolgendo  servizi importanti in una società contadina e prevalentemente analfabeta.

Il lavoro è strettamente legato a precisi impegni o ricorrenze quali  le fiere, i mercati, l’inizio dei lavori agricoli, le feste. In questo contesto, i rapporti  con la  società gagè sono  buoni, fino  alla  realizzazione, in alcuni casi, di processi di simbiosi, cioè un normale  scambio di beni e servizi. Molti dei nomi dei sottogruppi Rom si riferiscono a mestieri ben precisi (es.: Kalderasa: calderai; Lovara: allevatori  di cavalli). Solitamente, ogni gruppo Rom è specializzato in un certo  tipo di lavoro, ma il singolo  Rom è  dotato di una  certa polivalenza  nelle attività, secondo il luogo, il momento, le occasioni.

Per quello che riguarda il  secondo periodo,  che va dagli  anni ’60  ad oggi, possiamo affermare che l’industrializzazione ha provocato profondi mutamenti strutturali nel  contesto socio-economico,  mettendo in  crisi l’economia Rom, a cui ha chiuso quasi tutti gli sbocchi.

Negli anni del boom economico,  i Rom sono costretti  ad abbandonare  il nomadismo, quindi alla sedentarizzazione: si  stanziano nelle  periferie urbane, in difficili  condizioni economiche e  sociali: si  improvvisano rottamai,  raccoglitori  di  carta,  ecc.:  gli  antichi  mestieri   non garantiscono più la sopravvivenza.

I Rom, in quanto nomadi, abituati ad un uso dello spazio abitativo e  ad una organizzazione del tempo di  lavoro molto diversi  dalla società  in cui si trovano, non riescono o  non vogliono adattarsi o trovare  alternative valide. Nella nuova condizione di sedentari, “non possono  essere più nomadi, [ma] continuano a vivere come se lo fossero, continuano cioè ad avere un patrimonio culturale ed un’organizzazione sociale che poco o nulla hanno a che fare con la nuova condizione di sedentari.  Continuano ad avere  una  concezione  del  tempo e  dello  spazio  che  non  è  più funzionale alle nuove condizioni di vita e che in futuro lo sarà  sempre meno” (A. R. Calabrò, 1992).

Per il Rom, il lavoro è qualsiasi attività lecita che  permette di ottenere dei guadagni. Il lavoro non è mai  un fine e deve sempre  permettere al Rom di mantenere le  relazioni sociali, deve cioè lasciare  l’uomo libero di gestire  il suo  tempo.  Di conseguenza,  è un  fenomeno  solo recente e raro il rapporto di lavoro dipendente o l’esistenza di società tra i Rom stessi.

Oggi, il  lavoro dei  Rom  è costituito  dal  piccolo  artigianato,  che permette loro una certa flessibilità, cioè la possibilità di abbandonare e riprendere l’attività, secondo le opportunità.

La produzione in serie, le norme, le tasse non consentono loro  attività convenienti. Da qui il fallimento economico, che ha creato la dipendenza dall’assistenza sociale e  lo stravolgimento dei  ruoli all’interno  del nucleo familiare, dove la donna ed i bambini hanno spesso il compito  di mantenere la famiglia con la questua, mentre l’uomo perde la sua dignità e il suo ruolo dominante; e spesso finisce per passare i suoi giorni  al campo ad oziare ed a bere.

Al furto ed alla questua  viene data una spiegazione ed  interpretazione storico-culturale dall’etnologo belga Luc de Heusch, secondo cui “i  Rom non hanno mai dimenticato la  tecnica paleolitica della raccolta.  (…) L’ambito della  raccolta, prima  limitata  ai prodotti  agricoli,  si  è ampliato, comprendendo anche i prodotti dell’attività della  industriale della società ospitante,  sia beni  naturali che beni  culturali.  L’ampliamento dei beni di raccolta è costituito soprattutto dal furto e  dal manghel (questua), là dove la  società ospitata è  considerata come  selvaggina che viene cacciata nella foresta.” (L. De Heusch, 1965)

 

 

Il manghel.

 

E’ un’attività di  raccolta (oggi,  di denaro) tipicamente  femminile  e infantile, basato sul  rapporto pena-commiserazione.  I Rom,  specie  le donne, imparano fin da piccoli a cogliere la psicologia del passante  e, contrariamente a quanto si possa pensare, questa attività richiede capacità, intelligenza, intuizione.  Infatti, il manghel  è un’attività  che viene esercitata mediante il  rapporto diretto. Essa  si tramanda  dalla madre alla figlia.

Molti Rom giustificano la questua  con la tradizione, sostenendo che  fa parte della propria cultura.  Inoltre, rende più  dei lavori  potenzialmente accessibili ai Rom. Gli  uomini, non praticano  tale attività,  se non da bambini, e si limitano ad accompagnare le loro mogli ed i  figli sul luogo di lavoro.

 

 

Il furto.

 

Alcuni studiosi ne danno una  spiegazione di ordine religioso. Il  furto viene giustificato in quanto volontà di Dio. Altri danno interpretazioni di ordine psicologico: il furto nei confronti dei gagè è un elemento  di prestigio di fronte agli altri Rom, è una sfida al mondo dei gagè. Altri ancora  sostengono  che  i  Rom  rubano  per  necessità.  Dobbiamo innanzitutto precisare che non  tutti i  Rom rubano e  non possiamo  conoscere la percentuale di coloro  che sono dediti al furto.  Ma il  problema va affrontato  in un’ottica  diversa, che  ci consenta  di  capire perché un numero consistente (soprattutto  di giovani) è attratto  dalle attività illegali, con conseguente adesione a subculture devianti. “Laddove vecchia e nuova cultura non  sono in grado di offrire,  soprattutto ai più giovani, modelli  di comportamento praticabili, si crea  un terreno fertile a subculture che premiano il modello deviante  piuttosto che quello conformista. I Rom vivono in quelle zone sociali della città, i campi situati in zone degradate, dove c’è disorganizzazione normativa, dove  la  commistione  tra  la cultura  di  appartenenza  e  quella  di riferimento (e cioè  una certa  cultura del consumismo)  crea  disorien- tamento e indebolisce il ruolo socializzante della famiglia. I Rom  sono esposti, attraverso i mass media, ad una cultura del consumo che è nuova rispetto alla propria tradizione culturale.  La discrepanza tra mezzi  e fini è lacerante ed evidente.

Non solo i mezzi consentiti, nello  specifico il denaro ottenuto con  il lavoro sono di  difficile accesso  ma occorre anche  tenere conto  della resistenza di chi non è stato socializzato all’etica del lavoro. Anche i fini ne risultano distorti. Alcuni  Rom, soprattutto i più giovani,  non considerano il lavoro un mezzo  per ottenere in primo  luogo identità  e prestigio sociale,  piuttosto  un  mezzo per  ottenere  denaro  e  poter accedere a beni di consumo  che sono  quelli, sì, che  danno identità  e prestigio.” (A.R. Calabrò, 1992).

 

 

 

2.6. I valori.

 

Il Paciv.

 

Ogni popolo è caratterizzato da  valori, credenze, costumi,  tradizioni, attraverso cui il soggetto si forma, si educa ed orienta la sua  esistenza. Lo studio delle tradizioni degli Zingari appare ricco di  suggestioni, per cui è possibile comprendere  abitudini e valori che li  separano dall’esterno e alimentano all’interno l’identità collettiva.

I Rom chiamano Paciv il  rispetto: è un dono ed  è il massimo valore  in cui credono.  Etimologicamente,  Paciv deriva  da  Patsha,  che  contem- poraneamente significa rispetto e dono. Rappresenta l’occasione in cui i valori e i principi zigani trovano una denominazione comune. L’atmosfera è piena di gioia  che si  esplica nella comunicazione,  che esprime  una forte coesione del gruppo.

‘Paciv tuke’: onore a te, è la formula rituale con cui inizia il  Paciv. “Ora bevo anche  ad onore di  tutti i  Rom che sono  qui”: tale  formula rituale viene espressa quando un Rom desidera manifestare un  sentimento di stima per un altro Rom o vuole ringraziarlo per un aiuto ricevuto. Il senso di gioia e  comunione trovano  la più alta  espressione   anche nelle feste ricorrenti: Natale, Capodanno, la festa del Santo patrono. Per i Rom, il  Natale coincide  con l’Epifania cattolica  ed è  chiamato Busicci, mentre Novagodina  corrisponde al  Capodanno. Il  Giugervdan  è invece la festa del Santo patrono. Si svolge  con danze e canti: i  banchetti sono ricchi di vino e fiori: dura due o tre giorni e si svolge  a partire dal 5  maggio. Ogni  famiglia porta un  agnello ed  all’ingresso delle porte vengono appesi dei rametti fioriti.

La sera che precede la  festa, ogni famiglia mette  in comune  l’agnello cotto, al collo  del quale  vengono messe monete  d’oro appartenenti  al capo famiglia. Due candele sono fissate ed accese sul capo  dell’agnello che, circondato da fumo d’incenso, viene colpito con un sacco contenente denaro. Poi le candele vengono  spente ed il capo  famiglia dice  alcune preghiere. Sacrificato  l’agnello,  il sangue  viene  versato  in  acqua corrente con l’invocazione: “possa il denaro colare come l’oro”.

 

 

Riti funebri.

 

Dopo un decesso, le donne manifestano il loro strazio con grandi  pianti e mettono al defunto i suoi vestiti migliori. Il funerale è molto fastoso. Nella tomba vengono posti gli oggetti più  cari e più usati dal  defunto. La tomba viene ricoperta di fiori.

Presso i Rom, la veglia funebre è illuminata  da un gran numero di  candele; i Sinti, invece, accendono un falò che dura una notte intera.

Alla veglia funebre partecipano tutti gli uomini, bevendo, fumano,  raccontando vecchie storie.  I Sinti,  dopo il funerale,  bruciano il  car- rozzone o le tende in  cui era vissuto il defunto,  e distruggono  anche gli oggetti avuti in dono dal morto. Il luogo dove è avvenuto il decesso viene evitato: nessuno  della famiglia  vi si  accamperà più.  Questo  è anche uno dei motivi  per cui  gli Zingari hanno  difficoltà ad  abitare nelle case.

Il lutto  consiste  in  una  serie di  privazioni  e  manifestazioni  di astensione da cibi ed attività  ricreative. Nei primi giorni  non ci  si lava e gli uomini non si radono, mentre le donne non portano i  gioielli consueti. Evitano  di ripetere  il  nome del  morto; in  alcuni  gruppi, cambiano nome ai familiari che portano lo stesso nome del defunto.

 

 

Il culto dei morti.

 

Gli Zingari frequentano con molta pietà il cimitero. Il giorno dei morti è un giorno  di pellegrinaggio  alle  tombe dei  propri cari.  La  notte precedente, i Sinti ed i Gitani usano accendere tanti ceri quanti sono i defunti da commemorare.

Presso i Rom, c’è un’altra  serie di pratiche rituali. Alla  conclusione delle sesta settimana, la famiglia offre il the ed una fanciulla,  sopra un asse, mette una brocca d’acqua, un bicchiere ed una candela accesa. A tale uso è collegata  la credenza secondo cui l’anima  del morto  continua a permanere nei pressi  del proprio corpo per  sei settimane,  per cui tale rito lo libera dai legami con la terra. Ma il rito più  solenne si ha un anno dopo la morte: è un banchetto sacro, la Pomana  (ricordo). La prima Pomana  avviene al  ritorno del  funerale: a  capotavola  viene lasciato un piatto vuoto e  nel piatto  viene messo ciò  che piaceva  al defunto. La grande Pomana è  l’ultimo banchetto funebre: il morto  dovrà essere dimenticato e non potrà essere  più pronunciato il suo nome,  per evitare il suo  ritorno sotto  forma di “Mulo”  (spirito che  molesta  i vivi).

Durante il banchetto funebre, una  persona della stessa età del  defunto prende il posto  del morto;  sul tavolo  vengono accese  tante  candele, quanti erano gli  anni del  defunto. Si crede  che tutto  ciò che  viene mangiato e  bevuto andrà  a  vantaggio del  morto:  in  tale  occasione, vengono ricordati episodi riguardanti la vita del defunto.

Gli Zigani pregano i morti, chiedendo loro protezione ed aiuto.

 

 

La vita ultraterrena.

 

I Rom vedono l’al di  là come un luogo in  cui i defunti possono  accamparsi in pace e in serenità, in cui ritrovano i parenti e gli amici, dove usano gli oggetti cari, quelli che sono stati messi nella loro  tomba o bruciati al momento del loro funerale.

Gli Zingari credono alla vicinanza  degli spiriti dei  defunti, per  cui cercano di accattivarsi la loro benevolenza con riti propiziatori e  temono di offenderli, provocando la loro vendetta.

Gli spiriti  dei  morti,  denominati Mulè,  possono  essere  benevoli  o malevoli. I primi vengono implorati  per ottenere protezione, gli  altri invece sono visti come ‘vampiri’ che ritornano ogni notte a molestare  i viventi.

In alcune leggende zigane, il  vampiro non è un morto,  bensì un  essere umano, più propriamente un bimbo che si trasforma in un essere mostruoso e divora gli uomini. Per  i Sinti, il  Mulo è invisibile  e talvolta  si rivela in forma sensibile: un bambino, un cane. Per liberarsene, occorre fare il segno della croce e recitare una preghiera. Se l’incontro con  il Mulo avviene per strada e non si riesce a liberarsi da questa  presenza, bisogna togliersi la giacca ed infilarla alla rovescia.

Spesso, gli  Zingari sono  fatalisti:  c’è una  forza  ineluttabile  che governa dall’esterno e che guida la condotta umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                    c a p i t o l o  3. Conclusioni

 

In questo ultimo capitolo riassumiamo le impressioni, i problemi-chiave, i confronti che la nostra esperienza ci ha suggerito.

 

 

La sfiducia.

 

‘Con i gagè non si è mai risolto niente concretamente. Anche i preti che sono venuti,  hanno preso  i bambini per  portarli a  scuola solo per farli  disprezzare dagli  altri.  Per fortuna  i miei  figli  a scuola vengono trattati bene, altrimenti  farei la guerra, perché non  è giusto che un bambino Sinto venga messo in un angolo e deriso da  tutti. Cosa hanno meno degli altri  bambini ? Il gagio si  sente superiore,  ma io, quando mi trovo di fronte ad uno che si da  delle arie, me ne dò  di più. Una volta sono entrata in un negozio, chissà che cosa mi credevo di essere – quando  ci penso  mi viene da  ridere  pure a  me –  però  sono entrata a testa alta. Se  tu ti  senti come una  poveretta chiedendo  le cose per pietà,  lamentandoti e  dicendo “per piacere,  per piacere,  ho tanti figli”  e così  via,  nessuno  ti considera;  se invece  vai  con coraggio, facendo vedere  che non  hai paura di  niente, ti  staranno  a sentire’ (cit. in M. Karpati, 1983).

La testimonianza di una donna Sinta  (residente a Roma) offre uno  spac- cato dei  rapporti tra  Zigani  e gagè:  è una  ennesima  conferma  del- l’elemento che caratterizza  i rapporti  tra Zingari  e gagè:  la  quasi assoluta mancanza di fiducia.

I motivi sono noti: per i gagè, gli Zingari sono misteriosi, vestono  in maniera strana, conducono una vita  particolare, chiedono l’elemosina  e hanno la fama  di ladri:  sono tutti elementi  ritenuti deteriori  dalla società contemporanea.

Gli Zingari hanno  vissuto secoli  di persecuzioni; sono  stati  vittime dell’Olocausto; agli inizi degli anni  ’90 sono tornati ad essere  bersaglio dei movimenti neonazisti europei (in Germania, Austria,  Italia); vengono comunemente  disprezzati  e  suscitano   repulsione,  che   essi avvertono chiaramente; i mass media li criminalizzano sistematicamente. E’ certo che,  se si  mettono da  un lato  le motivazioni  degli  Zigani (persecuzioni, disprezzo, stermini) e dall’altro  quelle dei gagè  (diffidenza, piccoli furti subìti), sono le prime ad apparire più fondate. Tuttavia, occorre necessariamente creare un clima di fiducia se si vuole il superamento delle  diffidenze reciproche: la  fiducia si  costruisce, con fatti e comportamenti concreti.  Sono oggi tanti gli esempi  (volontariato, associazioni) di strutture in cui Rom e gagè si sono incontrati e si sono fidati gli uni degli altri. Anche la nostra stessa esperienza, acquisita durante la realizzazione del video, ci ha mostrato chiaramente l’importanza di un rapporto di fiducia (non strumentale),  precondizione per un qualsiasi  interscambio tra  persone più vicine  di quanto  comunemente si creda.

 

 

La catastrofe della sedentarizzazione.

 

Nelle scienze sociali, la catastrofe  è un evento che  comporta il  passaggio improvviso da uno stadio  ad un  altro. Per i  popoli nomadi,  la sedentarizzazione è stato, in questo  senso, un evento catastrofico:  ha comportato infatti il  passaggio   da un modo  di vivere  ad uno  com- pletamente diverso.

Un evento catastrofico  mette una  società di fronte  ad una  situazione difficile: trovare le risorse per adeguarsi alla nuova situazione oppure scomparire (in varie  forme: essere inglobati  nella società  dominante, assimilazione alle fasce marginalizzate della  popolazione, o  semplice scomparsa fisica).

Si può definire il nomadismo la caratteristica essenziale degli Zingari, che altrimenti potrebbero essere associati ad una delle tante  minoranze etniche presenti nel mondo. Ma gli Zingari sono sempre stati qualcosa di diverso da una minoranza etnica, appunto perché nomadi. Il nomadismo  si  può  praticare  a  vari  livelli  (brevi  ma  continui spostamenti in un’area  delimitata, oppure  viaggio perpetuo  senza  una particolare meta).

Col passare del tempo gli Zingari  sono diventati sempre meno nomadi:  a partire dal Seicento si rafforzano  gli Stati nazionali, che esigono  il controllo sui circolanti  nel territorio:  nascono le  ‘Workhouses’,  le ‘Zuchthauser’, le ‘Maison  de force’, dove  vagabondi, poveri,  ‘pazzi’, orfani vengono rinchiusi ed obbligati al lavoro forzato.

Lo Stato, assecondando  tendenze socio-economiche  in atto,  iniziava  a costruire l’omologazione ed un più rigido controllo sociale. Si arriva  così alla  situazione  attuale, fatta  di  passaporti,  carte d’identità, frontiere, permessi di soggiorno.  Raramente gli Zingari  si trovano in una  situazione di  piena regolarità. E  gli organi  politici sembrano  voler  dare  assistenza  agli  Zingari  in  cambio  del   loro controllo: spesso, si chiede agli Zingari, ospitati nei campi attrezzati dagli Enti locali, di non  cambiare residenza, pena  il decadimento  dei diritti appena  acquisiti. Gli  Zingari  (ed in  genere  coloro  che  si spostano da un  luogo all’altro  senza controllo)  sono, per  una  vasta serie di ragioni,  visti come  una grave  minaccia, come  un  potenziale

pericolo.

Insomma, nonostante il potenziamento dei mezzi di comunicazione, oggi  è impossibile condurre una  vita nomade.  Restano pochissimi  spazi  resi- duali, caratterizzati da enormi difficoltà: i Sinti giostrai piemontesi, per esempio, continuano a spostarsi conducendo la loro attività, ma sono bloccati da asfissianti pratiche burocratiche (permessi, licenze…). C’è  un  grande  processo  storico  plurisecolare  dietro  la  fine  del nomadismo: e c’è, appunto, un evento catastrofico per la società Rom.

 

 

‘Reverse scenery’.

 

Per capire la portata di questo evento è estremamente utile ribaltare  i termini della questione: proviamo ad  immaginare cosa succederebbe  alla nostra società se un processo storico la costringesse al nomadismo:

 

  1. dovremmo cambiare i nostri concetti di spazio e di tempo: non piùlo    spazio abitativo, fermo, con l’abitazione  come punto di  riferimento    fisso ed il viaggio come “andare al di fuori” dallo spazio fisso, con    la prospettiva del ritorno.   Ed il  tempo, non  più  come scansione  degli orari  della  città  ma determinato in base ai tempi  di percorrenza ed  alle esigenze  della    vita nomade: dal tempo dell’orologio al tempo con limiti  evanescenti    ed elastici.

 

  1. dovremmo trovare nuove risorse peradattarci alla nuova  situazione:    risorse  culturali,  per   pensare  in  modo   adeguato  alla   nuova    situazione;    risorse economiche,  per  sopravvivere  ad una  realtà  che  ha  reso    inservibile la nostra vecchia organizzazione economica; quasi tutti i    modi occupazionali (uffici,  fabbriche, negozi)  che erano  possibili    con la sedentarizzazione, sono diventati incompatibili col nomadismo:    solo poche forme economiche (che  prima erano marginali) sono  ancora    possibili,  occorre  trovarne  altre,  per  l’acquisizione  dei  beni    indispensabili per la sopravvivenza.

 

In queste  condizioni,  è  facile immaginare  quale  profonda  crisi  ci colpirebbe; saremmo capaci di adattarci, magari nel biasimo generale  di chi ci vede come diversi,  pericolosi, misteriosi ? Di  chi considera  i nostri modi di vivere, di vestire,  di parlare, di procurarci da  vivere come deteriori ? E’  estremamente probabile una  risposta negativa:  per cui, se la nostra società fosse condannata al nomadismo come la  società Zingara è stata condannata alla sedentarizzazione, noi ci troveremmo  in una  situazione  simile  a  quella  dei  Rom:  sconfitti  dalla  storia, esponenti di una società in piena crisi.

 

Si può osservare  (rispetto a  questo  tipo di  analisi) che  un  evento catastrofico, per essere tale, deve essere improvviso, mentre i processi di sedentarizzazione risalgono a molto tempo fa. Questo è vero, ma occorre dire che  solo oggi si ha una  sedentarizzazione pressoché totale, per le difficoltà legislative sempre più numerose. Oggi si è arrivati alla  paradossale situazione di  una Europa  fortezza del benessere, difesa dagli eserciti, i cui cittadini possono  circolare liberamente. Per gli  altri, gli  “extra-comunitari”, la  libera  circolazione è impossibile. Per gli  Zingari la situazione è ugualmente  difficile, per cui essi stessi tendono a sedentarizzarsi.

In alcune realtà, si progettano  campi-ghetto dove far risiedere i  Rom: per tornare all’esempio precedente, sarebbe come se  costringessero  noi al nomadismo perenne, senza possibilità di soste. La sedentarizzazione  è stato  un  processo costante  e  graduale,  proveniente dall’esterno  rispetto  alla società  zingara,  con  esiti  catastrofici. Il fatto che il  processo sia stato graduale  e diluito  nel tempo ha permesso la sopravvivenza della società Rom.

Il fatto che i Rom slavi  siano sedentarizzati anche in Jugoslavia,  non cambia i termini del discorso:  la sedentarizzazione-catastrofe era  già in atto, perché quella società era in profonda crisi anche nei Balcani.

 

 

‘Culture clash’.

 

Una televisione  in  ogni  roulotte. Circa  quattro  ore  quotidiane  di visione: quattro ore di assorbimento di modelli antitetici alla  cultura di origine, la  proposizione-imposizione  di modelli  diversi da  sé  ed irraggiungibili.

Le strutture socio-economiche  della società  gagì e di  quella  zingara sono incompatibili: l’economia zingara è  stata espulsa dal sistema  (v. par. 2.7), la sedentarizzazione ha messo contemporaneamente in crisi  le stesse coordinate spazio-temporali della società Rom.

In più, c’è la televisione: nell’ambito dello scontro tra i due  sistemi, si colloca anche  lo scontro  culturale: in questo,  la cultura  zingara appare perdente  anche agli  stessi  Rom, sottoposti  alla  proposizione televisiva di modelli occidentali, altri rispetto ai propri.

Ecco quindi profilarsi uno scontro tra i giovani (desiderosi di vestirsi come i  ragazzi della  tv,  attratti  dal calcio  e  dalle  sue  stelle, vogliosi di consumi troppo spesso irraggiungibili) ed adulti, divisi  tra ciò che hanno imparato dai genitori ed i modelli televisivi di cui  essi stessi subiscono il fascino.

Girando per il campo, è possibile vedere ragazzi che si vestono, parlano e si  atteggiano  come  i  ragazzi  messinesi,  i  quali  a  loro  volta somigliano a quelli di tante altre città. Un ragazzo Rom, il giorno  del Giugervdan,  indossava  occhiali   a  specchio  e   scarpe  dal   tennis fosforescenti, come un giovane di New York.  In quel giorno di festa,  i Rom indossano il loro abito migliore: è significativo che gli abiti  indossati fossero quasi tutti di foggia occidentale.

Tra l’altro, tra le donne occidentali vanno attualmente di moda abiti di foggia zigana: è  curioso vedere  due culture che  si affascinano  e  si disprezzano a vicenda.

I ragazzi (e non solo loro) seguono  le vicende del calcio, alcuni  giocano all’oratorio Savio, conoscono i nomi dei campioni (strapagati) delle squadre italiane e si stupiscono se tu non tifi per nessuna  squadra.

I programmi più  visti sono  quelli generalmente  considerati  peggiori: programmi “d’intrattenimento”,  telefilm,  telenovelas:  in  pratica  il peggio che la tv-spazzatura sforna.

La pressione  televisiva porterà  sempre  più Rom  a vestirsi  come  gli occidentali, a  pensare come  i  personaggi della  tv, a  desiderare  la macchina e tutti i prodotti della società dei consumi, senza che abbiano a disposizione le risorse adeguate per ottenerli.

Il che potrebbe spingere molti  nelle attività illegali, per ottenere  i beni di consumo  che, più  che ‘l’essere Rom’,  si avviano  a  diventare elementi costitutivi di una nuova identità.

Nelle roulotte  è possibile  vedere,  oltre che  ritratti  di  carattere religioso, le nuove icone del  consumismo: gli adesivi con  i marchi  di alcune note aziende.

La televisione può  rivelarsi,  alla fine,  più pericolosa  della  stessa sedentarizzazione, cancellando le basi di una identità un tempo forte  e definita: potrebbe riuscire dove  le ‘heidenjiachten’, i  nazisti e  gli altri sterminatori hanno fallito: la distruzione dell’identità Rom.

Il consumismo, lo  ricordava Pasolini,  sarà la  peste di  fine  secolo. Pensare che  le sirene  televisive  catturino solo  i Rom  è  del  tutto sbagliato: si tratta di un grande fenomeno mondiale di portata storica. E’ bene chiarire che il  consumismo ha un grande ruolo  anche nelle  società a capitalismo avanzato, ma ha  un diverso impatto rispetto ai  Pvs (Paesi “in via di sviluppo”): intanto,  le società del Nord del  pianeta sono costitutivamente consumiste  e si  possono permettere  di  esserlo, almeno fino ad ora: per  esempio, un tedesco bombardato ed  affascinato dalla pubblicità  di  un’automobile  può  soddisfare  il  suo  desiderio (indotto o meno che sia) in maniera più o meno facile; un’albanese (o un brasiliano o un  nigeriano) non  può  farlo: è  costretto a  sognare  ad oltranza, si lega all’oggetto del suo desiderio, finisce per non potervi più rinunciare, ne fa un feticcio.

Il risultato  è che  oggi  un europeo  ha più  facilità  ad  abbandonare l’automobile (o a non guardare  più la tv, o a  consumare meno),  mentre gli abitanti del Terzo mondo tendono a legarsi agli oggetti del  consumo che riescono a raggiungere.

L’impatto del mercato  mondiale con  le varie realtà  del pianeta  è  in genere traumatico: produce l’estraneazione a sé stessi degli abitanti di un qualsiasi paese povero, che  vede distrutta la propria cultura  senza poter  aderire  a  quella  occidentale,   di  cui  subisce  il   fascino (trasmesso, appunto, via etere), ma a cui non può aderire proprio perché troppo povero.  Diventa doppiamente  straniero:  rispetto  alla  cultura d’origine ripudiata, rispetto alla ‘cultura dei consumi’ che tra l’altro recepisce nelle forme peggiori: in  alcuni paesi dell’America latina  il feticismo delle merci  è arrivato  ad un livello  tale per  cui,  specie nelle fasce più povere della popolazione, molti genitori danno ai propri figli nomi come “Toyota” o “Coca Cola”.

 

Questo discorso vale per quasi tutti i paesi terzomondiali, per l’Europa dell’est (con qualche eccezione) e per la società Rom.

Per capire i  Rom slavi,  più che  alla società  zingara è  forse  utile riferirsi all’Albania.

Si tratta di un paese poverissimo  (550 dollari l’anno di reddito  medio pro-capite). In quasi  tutte le  case c’è  la televisione,  molti  hanno (circa la metà  delle  famiglie) l’antenna parabolica:  nelle strade  di Tirana si vedono case in condizioni disastrose ai cui balconi sono appese le parabole per la ricezione via  satellite (anche questo è un  fenomeno mondiale, in atto soprattutto nel mondo arabo).

Molte famiglie vedono i programmi  Rai, Fininvest e Bbc. Dopo  la tv,  è l’automobile il sogno degli albanesi: così è nato il più grande  mercato mondiale di auto rubate (solo  in minima parte a  beneficio degli  albanesi).

La colpevolizzazione  dei poveri,  che  ciclicamente si  presenta  nella storia, porterà certamente a biasimare gli albanesi: in realtà, c’è  una conseguenza logica precisa:  i  media propongono  modelli di  consumo  e disegnano l’occidente (nello specifico l’Italia)  come un paradiso  dove tutti/e sono bellissimi/e e si  vincono  milioni con  una telefonata  in diretta; le  pubblicità  delle  automobili  scorrono  in  continuazione: perché stupirsi se poi c’è  chi cerca di soddisfare  i propri  desideri, indotti con tanta costanza ?

Oggi l’Albania è il caso più evidente di ‘telecolonizzazione’. A  Tirana si può trovare il ‘caffè Juventus’, coi camerieri in maglia bianco-nera; il ‘bar Berlusconi’, prodotto del mito dell’arricchimento facile.

E l’Italia non è il paese innocente che guarda un paese impoveritosi per colpe proprie: basta ricordare la tessere onoraria del Psi al  dittatore Hoxa, le  traversine  tossiche regalate  agli  albanesi  dalle  ferrovie italiane (l’ennesimo caso  di mala-cooperazione), il  traffico di  clandestini a beneficio (tra gli altri) della Sacra corona unita pugliese.

Il terzo mondo è attualmente condannato a sognare ciò che  probabilmente non avrà mai: e chi va a cercarlo nel paradiso dei consumi troverà  soldati coi fucili pronti a fermarli.

 

 

L’impatto televisvo.

 

E’ indispensabile,  per  capire la  trasformazione  della  società  Rom, riferirsi a quello che è  un fenomeno di dimensioni mondiali:  l’impatto della rappresentazione televisiva della società dei consumi nei Pvs.  E’ un impatto che provoca effetti  analoghi (anche se  non identici)  nella società tunisina, in quella albanese ed in quella Rom.

Tra l’altro, i  Khorakhanè provengono  da zone vicine  all’Albania ed  è quindi estremamente probabile che abbiano subìto la stessa  fascinazione descritta in precedenza: d’altronde, il flusso migratorio dei Rom  slavi avviene da 20 anni per la ricerca di condizioni migliori, non per i tra- dizionali motivi che spingevano i nomadi al viaggio.

I Rom  di oggi  sono altro  rispetto  a quelli  del passato:  due  volte stranieri, rispetto  alla cultura  di  appartenenza (che  ormai  tende  ad apparire perdente anche a loro) e rispetto a quella consumistica, da  cui sono distanti sia per le  remore della tradizione (refrattaria  all’idea di ricchezza  come  accumulazione)  sia  per  ostacoli  oggettivi,  come l’insufficienza delle risorse per un’adesione effettiva.

Vedere da un lato persone belle, ricche e felici (in virtù dei consumi), e dall’altro il campo nomadi  caratterizzato da emarginazione,  povertà, infimo livello di consumi produrrà   sempre più la vittoria del  modello televisivo (occidentale, capitalistico)  sulla cultura  Rom: il  ‘culture clash’, stando così le cose, sembra avere un chiaro vincitore. Probabilmente, sentiremo sempre meno le orgogliose affermazione fatte in passato dagli  Zingari  (“Rom  sim”,  sono  un  Rom).  Più  che   dalla sedentarizzazione, mille anni di storia  degli Zingari stanno forse  per essere cancellati da una scatoletta magica, capace di creare la realtà e di sedurre chi la guarda.

 

 

Alienazione feticismo destrutturazione.

 

Sono le tre parole-chiave per capire ciò che sta succedendo alla società Rom, diventata ormai altro da  sé (rispetto a ciò che  era in  passato), attratta dal  feticismo delle  merci  (che suscitano  uno  straordinario potere di fascinazione  di carattere magico),  infine destrutturata  nei suoi caratteri peculiari.

 

Possiamo costruire un modello interpretativo  derivato da quanto  detto fino ad ora:

 

  1. Il primo elemento è la sedentarizzazione, che da parziale si avviaa    diventare totale, destrutturando le coordinate spazio temporali e  la    stessa  ‘weltanschaaung’  della  società  Rom,  secondo  le  modalità   ampiamente descritte (v. par. 2.5).

 

  1. Il secondo elemento, in parte conseguenza del primo, è laespulsione    dal  mercato   delle  attività   tradizionali  della   società   Rom:    l’artigianato del ferro, lo spettacolo viaggiante, ecc, (v. par. 2.6)  sono  attività   tagliate  fuori   dalla   produzione  in   serie e   dall’organizzazione del lavoro nata con  la rivoluzione  industriale, mentre la regolazione burocratica costituisce un ulteriore fattore di   esclusione: la  società  Rom  non riesce  più  a  procurarsi  risorse    economiche, se  non con  attività  che nel  passato  erano  marginali    (mendicità,…)

 

  1. Il terzo elemento è l’impatto dei modelli televisivi, che costituisce una aggravante della crisiattivata dai primi  due elementi.  Questo fattore accelera la  destrutturazione della  cultura Rom  e  provoca  effetti collaterali (desiderio  dei consumi, feticismo delle merci) dalle conseguenze imprevedibili.

 

Il risultato della combinazione di questi tre elementi (il cui impatto è avvenuto in tempi ed in forme diverse nelle varie società Rom) è  facile a descriversi: l’implosione della società zingara.

L’implosione, frutto di una  serie di eventi  catastrofici, si  presenta come rapido declino di una civiltà.  Il risultato, per dirla in  termini semplici, è una società ‘che si lascia andare’.

Tutto ciò è chiaramente visibile al campo nomadi: se gli uomini  passano il loro tempo  nelle roulotte  o si lasciano  prendere dall’alcolismo  e delegano alle donne ed ai bambini il loro mantenimento, ciò deriva dalla loro perdita di  ruolo e  dignità, per  la combinazione  degli  elementi descritti in precedenza.

La perdita dell’onore  è una  ulteriore conseguenza  dell’implosione:  è significativo che spessp gli  uomini vadano  a chiedere lontano  dal luogo di residenza, dove non sono  conosciuti, ma si rifiutano di  farlo nei pressi del luogo dove risiedono.

 

 

Ghetto identità permanenze.

 

Il mutamento della società Rom non rimuove la ghettizzazione, che a  sua volta non serve  neanche a  difendere l’identità Rom.  Gli stessi  campi (attrezzati o meno)  somigliano a  ‘riserve indiane’ che  accrescono  la separazione tra mondo Rom e gagè.

Nello stesso tempo, si assiste alla crisi di identità della società Rom: vacillano le  strutture sociali  (la  ‘kris’ o  le  forme  analoghe,  in particolare),  sono  ridimensionate  o  sparite  le  forme  di  attività economica, le pratiche religiose tendono ad essere dimenticate (v.  par. 4.4), aumenta la litigiosità: sono tutte caratteristiche tipiche di  una società implosa, che tende a perdere le proprie caratteristiche sotto il peso di un’altra, senza (per vari motivi) potervi aderire.

Rimangono tuttavia delle permanenze culturali significative che legano i discendenti dei  popoli zigani  ai  loro progenitori:  il  ricorso  alla mendicità, il rifiuto del lavoro  dipendente, la sostanziale  diffidenza nei confronti dei gagè ed il rapporto strumentale con la loro società. Naturalmente, nel  passato questi  elementi  avevano forme  diverse:  la mendicità era una pratica residuale, una forma di approvvigionamento  di risorse  marginale  rispetto  agli  altri  lavori:  per  cui,  come   la chiromanzia, era prerogativa delle donne; lo stesso furto si inseriva in una situazione  completamente  diversa,  mentre  oggi  è  dettato  dalle condizioni  complessive  (il  rapporto  conflittuale  col  mondo   gagè, l’istigazione ai  consumi  prodotta  dalla tv  ed  anche  le  condizioni drammatiche che spesso pongono i Rom ai limiti della sopravvivenza).

 

 

 

 

Due culture ?

 

Comunemente, si continua a parlare  del rapporto tra la  cultura gagè  e zingara. Il rischio è che  si parli di fantasmi di  culture, più che  di culture vere e proprie.

La cultura zingara,  abbiamo visto,  si trova attualmente  in un  limbo: destrutturata nelle sue componenti fondamentali  (e senza più  autonomia economica) si trova oggi indifesa  rispetto al “culture  clash”, di  cui l’impatto televisivo è solo l’aspetto più evidente.

Per quel  che riguarda  la  “nostra” cultura,  sarebbe  interessante  (e difficile) da  definire:  se  ci  riferisce  alla  cultura  occidentale, ritorna  alla  mente    solo  il  “pensiero  unico”,  cioè   l’ideologia attualmente dominante, basata sull’idea di ricerca del massimo  profitto come  coordinata  fondamentale.  E  chiamare  questo  cultura  è  molto difficile.

In effetti, il “pensiero unico” ha cancellato (o tende a cancellare)  la pluralità di forme culturali presenti in Occidente: dalle culture locali al pensiero  religioso,  dalle correnti  filosofiche  fino  alle  teorie politiche. Che oggi sono ossessivamente definite come  sepolte,  finite, distrutte.

Rimane solo la cultura  del denaro  e del consumo:  che sta  cancellando anche la cultura zingara, la quale, comunque la si giudichi, rimane  uno straordinario esempio di resistenza ad un modello fortemente omologante. Se la resistenza è terminata, se “il vento non soffia più”, allora è più corretto parlare di fantasmi di culture.

 

 

Fascinazione / repulsione.

 

E’ vero che dello Zingaro esistono due stereotipi: da un lato il  ladro, sporco, diverso e pericoloso. Dall’altro il filosofo, musicista,  figlio del vento. Due  stereotipi che  indicano qualcosa d’importante:  il  Rom suscita repulsione ma affascina.

Da un lato il gagè tende a rimuovere  modelli di vita diversi dai  suoi, considerandoli inferiori appunto perché diversi; dall’altro ne subisce il fascino fino ad idealizzarli, chiaro segno di una insoddisfazione di sé. Oggi, il fascino della vita ‘bohemien’ è in declino, ma fu molto  forte, per  esempio,  alla   fine  del   secolo  scorso.   Il  modo   di   vita piccolo-borghese, dominante oggi, favorisce una falsa sicurezza, basata sul perbenismo e sulla criminalizzazione dei modi di vita diversi: è una sicurezza tanto fragile da non  poter permettersi neanche la  conoscenza dell’altro da sé: che ci  sia dietro  una paura inconscia  di subire  il fascino di un modo di vita altro e di rivelare l’insoddisfazione di sé ?

 

Dal punto di vista zingaro,  la società  gagè è vista  anch’essa con  un misto di ammirazione e senso di superiorità. Se l’ammirazione è forse un sentimento più  recente,  storicamente  lo si  vede  dal  patrimonio  di racconti Rom) i gagi sono visti un po’ come stupidi.

La diffidenza, di certo più che motivata (vedi par. 1.3), è comunque  il sentimento più forte: è anche vero, che una volta superato questo  muro, i rapporti tra Rom e gagè sono umanamente straordinari. Comunque, quando  persiste  la  diffidenza,  i  Rom  hanno  la  capacità (straordinaria nei  bambini)  di  dirti “quello  che  tu  vuoi  sentire”: conoscono i  nostri  pregiudizi  nei  loro  confronti  e  rispondono  di conseguenza.

 

I rapporti tra  le  due società  sono attualmente  caratterizzati  dallo scambio  ineguale:  dal  punto  di   vista  culturale,  è   praticamente unidirezionale: gli zingari  assorbono  modelli (dalla  tv e  non  solo) dall’esterno,  vengono  scolarizzati,   ma  vivono  in   uno  stato   di ghettizzazione.

Dal punto di vista economico, i Rom si  trovano in un modello del  tipo: dono senza reciprocità, cioè ricevono  l’elemosina senza dare in  cambio niente: è un modello  che produce frustrazione,  alleviata dalla  difesa culturale del rapporto strumentale con la società gagè, che è un modello tipico della società (che sono state) nomadi.

 

Altro segnale del rapporto tra le due società è il nome che le  famiglie danno ai  figli:  accanto  ai  nomi slavi,  sono  già  numerosi  i  nomi italiani.  E’  un   significativo  indicatore   del  livello   raggiunto (vittoria/sconfitta)  dalla  società   Rom  nei   confronti  di   quella ospitante.

 

 

Come il Sud.

 

Riferire situazioni che appaiono completamente diverse a sé stessi ed al proprio mondo serve molto a comprenderle meglio.

La vicenda dei  Rom non  è del  tutto diversa  da quella  del  meridione d’Italia.

Intanto, i  meridionali  condividono  la  sorte  zingara  per  quel  che riguarda le  accuse che  vengono  loro rivolte:  “non  hanno  voglia  di lavorare, sono ladri (o mafiosi), sono parassiti”.

Chi vive al Sud sa  bene che  la realtà è  infinitamente più  complessa, così come chi conosce la  società Rom comprende che le  semplificazioni razziste non spiegano e non risolvono niente.

 

In più, può  apparire  estremamente ipocrita  l’accusa agli  zingari  di esser ladri.  Viviamo in  una  società dove  il  furto  (l’accumulazione illegale di risorse) è prassi comune a vari livelli (politica, economia, ecc.), la società meridionale è  basata sull’economia criminale, il  cui peso non è certo da considerare marginale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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