Indice. Storia del popolo Rom
2.5. Il viaggio, lo spazio, il tempo
2.6. L’organizzazione socio-economica
c a p i t o l o 3. Conclusioni
c a p i t o l o 1. Chi sono
1.1. Le origini dei Rom
Rom in Europa, Lom in Armenia, Dom in Medio Oriente. E’ il nome con cui i popoli Zingari designano se stessi. L’origine della parola è indiana: il significato è quello di “uomo”, in particolare “uomo libero”.
I vari gruppi si sono poi distinti per il luogo di immigrazione (antichissimi Rom abruzzesi), per il mestiere che li caratterizza (Rom Kalderasa [calderai], Lovara [allevatori di cavalli],…) o per altre definizioni.
Il termine con cui gli Zingari identificano i sedentari è gagio (femminile gagi, plurale gage). Il termine con cui invece i gage li identificano deriva da “Atsingani”, il nome di un’antica setta eretica proveniente dall’Asia minore. La fama di maghi e l’alone di mistero li accomunava ai popoli che apparvero nell’Impero bizantino; il nome fu trasferito ai popoli nomadi, trasformandosi in Zingari (italiano), Zigeuner (tedesco), Zigenar (svedese), Cingan (francese antico), Tsigane (francese moderno). Queste denominazioni sono in genere utilizzate per definire tutti popoli nomadi.
Il solo nome che li associa alla loro vera origine, quello di ‘Indiani’, è raramente usato. Invece, il termine inglese Gypsies deriva da una leggenda sulla loro origine egiziana (Egypcians). Il termine Bohemiens deriva dalla loro presunta origine boema.
Le leggende.
Il mistero che accompagna i popoli Zingari ha favorito la nascita di ipotesi leggendarie. Per esempio, la già citata provenienza egiziana, la discendenza da Noè o addirittura da Caino. Sono numerose le leggende sulle origini bibliche: gli Zingari potrebbero essere una delle tribù d’Israele catturate dai re assiri nel 721 a.c.; oppure sarebbero i Cananei emigrati in Europa dopo la conquista di Giosuè; o, ancora, i discendenti di Adamo e di una prima moglie, precedente ad Eva: per cui, essendo sfuggiti al peccato originale, sarebbero esonerati dall’obbligo del lavoro, di “guadagnarsi il pane col sudore della fronte”.
Un’altra serie di leggende propende per l’origine africana: illustri studiosi europei (a cominciarono da Thomasius) ipotizzarono per molto tempo, senza alcun fondamento, la tesi secondo cui gli Zingari venivano da paesi di volta in volta denominati ‘piccolo Egitto’ o ‘Egitto’. E quindi gli Zingari diventavano i discendenti dei Mammalucchi cacciati dal sultano Selim, oppure i discendenti dei sacerdoti di Iside, mescolati con sacerdoti siriani…
Queste ‘ipotesi’ furono riprese in Francia durante il regno di Luigi XVI, quando l’Egitto dei faraoni era di gran moda, così come il mistero degli Zingari. Nel periodo romantico ci sono gli ultimi sostenitori dell’origine egiziana.
Altre leggende raccontano di provenienze dalla Persia (Tartari fuggiti al tempo di Tamerlano, Circassi messi in fuga nel 1400, discendenti degli Avari sottomessi da Carlo Magno…). E poi le origini europee: vengono dalla Valacchia ? Sono ebrei tedeschi sfuggiti alle persecuzioni del XIV secolo (gli yiddish) ? O forse sono un misto di Ebrei e Ussiti?
Oppure, come disse lo storico provenzale P.J. de Haitze (vissuto nel ‘700), “sono un composto di tutte le nazioni” ?
Abbiamo visto che i misteri tendono ad incrociarsi: le leggende che riguardano i Celti sono altrettanto numerose di quelle che coinvolgono gli Zingari: quindi, sono stati molti ad individuare nei druidi (sacerdoti celti) i progenitori degli Zigani.
E’ chiara la tendenza di attribuire l’origine degli Zingari a popoli noti per le pratiche magiche, vissuti in Egitto, Caldea, Siria, Gallia. Alcuni ellenisti hanno individuato nella Grecia antica le famose origini: gli Zingari sarebbero i Siginni menzionati da Erodoto; le sibille, le sacerdotesse di Dodona, sono state associate alle indovine zingare. I Siginni sarebbero i Sinti, di cui parla Omero: “il popolo ‘dal barbaro linguaggio’ noto a Lemno, caro a Vulcano”.
C’è pure una leggenda siciliana: gli Zigani sarebbero i misteriosi ‘Sicani’ che n tempi antichi abitavano l’isola. La leggenda più stravagante è comunque quella di J.A. Vaillant (I Romi. Storia vera dei veri zingari, 1857): “questi titani indo-tartari, padroni della terra che percorrevano in lungo e in largo [diedero] il loro nome a Romolo, fondatore di Roma, introdussero il culto di Diana ed Apollo, inventarono il Vangelo 11 secoli prima di Cristo…”
Ancora leggende che s’intrecciano: gli Zingari sarebbero discendenti di una popolazione preistorica vissuta in Atlantide, il misterioso continente distrutto da un cataclisma. I sopravvissuti sarebbero sbarcati in Africa, fermandosi (ovviamente) in Egitto.
La favola di Atlantide colpì la fantasia di Folco de Baroncelli-Javon, poeta provenzale: “immaginò gli atlantidi in fuga sui loro navigli, gli uni verso ovest, dove sarebbero stati gli antenati degli Indiani d’America, gli altri verso est per entrare nel Mediterraneo e sbarcare nella Camargue, millenni prima che vi si instaurasse il culto di Sara la Kalì, Sara la Nera” (Vaux de Foletier, 1977, p.31).
E’ importante notare che quasi tutte le leggende non sono il frutto della fantasia popolare, ma sono teorizzazioni ‘colte’ di illustri studiosi occidentali, per un arco di tempo che va dal medioevo fino al XIX secolo.
La storia antica, in India.
La lingua zingara indica il percorso seguito dalle popolazioni: il romanì appartiene alla famiglia indo-europea, il cui vocabolario e la cui grammatica si lega al sanscrito. Fa quindi parte delle lingue del gruppo indiano, ed è molto simile all’hindi ed al kashmiri.
L’origine indiana è ormai fuori discussione. Gli Zingari sono una popolazione indo-ariana, la cui provenienza rimane dubbia: Dom, infatti, è il nome di un agglomerato di gruppi etnici indiani molto antichi. In un trattato sanscrito di astronomia del VI secolo è associato al nome “Gandhavra” (musicista). Questi riferimenti non sono sufficienti a definire la zona indiana di provenienza: le ipotesi più accreditate si riferiscono alla zona nord-est dell’India ed alla casta dei paria, la più bassa della società indiana. Tuttavia ci sono interpretazioni che negano questa appartenenza di classe e si riferiscono all’abilità degli antichi Zingari nell’artigianato del ferro.
Le motivazioni che spinsero alla migrazione sono sconosciute: si possono ipotizzare conflitti con popolazioni di invasori o motivazioni che da sempre spingono ad emigrare: la fame, il desiderio di condizioni migliori.
Michele Kunavin, ziganologo russo, raccolse nel 1840 le leggende degli zingari degli Urali. Considerando l’importanza della trasmissione orale tra le generazioni, alcuni di questi racconti appaiono molto significativi:
“In quel paese in cui sorge il sole dietro una montagna scura, c’è una città grande e meravigliosa, ricca di cavalli. Tanti secoli fa, tutte le nazioni della terra viaggiavano verso quella città, a cavallo, a dorso di cammello, a piedi… Tutti vi trovavano rifugio. C’erano pure nostre bande. Il sovrano di quella città li accoglieva con favore… Vedeva che i loro cavalli erano ben curati e propose loro di stabilirsi nel suo impero. I nostri padri accettarono e piantarono le loro tende nelle verdi praterie. Là vissero a lungo, contemplando con riconoscenza l’azzurra tenda dei cieli… Ma il Destino e gli spiriti del male vedevano con dispiacere la felicità del popolo dei Rom. Allora mandarono in quelle contrade serene i malvagi cavalieri Khutsi, che appiccarono il fuoco alle tende del popolo felice e, dopo aver passato gli uomini a fil di spada, ridussero in schiavitù le donne e i bambini. Tuttavia molti riuscirono a fuggire e da allora non osano più sostare a lungo nello stesso posto”.
“Molto, molto tempo fa, quando i nostri antenati non sapevano nulla dei veloci cavalli, quando, come le altre razze, vivevano in case di legno e di pietra, una grande afflizione colpì il nostro popolo… Trattati come paria disprezzati dall’umanità, i nostri antenati vivevano in continua paura, tremando davanti ad ogni soldato o contadino, perché ognuno aveva il diritto di uccidere i figli della nostra razza… Nuovi nemici arrivarono dalle alte montagne, intrisero del nostro sangue le nostre praterie, i nostri campi, i nostri giardini; credevano che la nostra razza stesse per perire. Ma [la dea] Laki decise altrimenti: mandò cavalli veloci per salvare il nostro popolo dalla morte. Migliaia di cavalli galopparono giù dalla montagna e i nostri antenati li presero per fuggire lontano dal nemico. Il popolo dei Rom fuggì su quei cavalli, come il cervo davanti al lupo. Per questo motivo fuggono ancor oggi perché sono sempre circondati da nemici” (cit. in Vaux de Foletier, 1977, p.40).
La data del primo esodo è approssimativa: la si fissa intorno al Mille, che è la data in cui, secondo i linguisti, apparvero le lingue indo-ariane.
1.2. La storia
Prima tappa: la Persia.
Nel 1011 il poeta persiano Fidursi terminò il “Libro dei Re”: in esso si racconta l’arrivo di diecimila ‘Luri’, accolti dal re Behram-gor, che li chiese a suo suocero, il re indiano Shengùl:
“O re cui giunge la preghiera altrui,
Di girovaghi musici trascegli
Uomini e donne, a diecimila, tali
Che cavalcando battere in cadenza
Sappian liuti, e a me li invia ben tosto
Perché la voglia mia per questa gente,
Celebre tanto, satisfatta sia”. (trad. Italo Pizzi)
Nonostante il carattere leggendario dei testi, rimane rilevante la testimonianza scritta dell’arrivo in Persia di un popolo nomade proveniente dall’India prima del X secolo, con una reputazione di musici di grande talento.
Le tracce del lungo soggiorno persiano sono ancora presenti nella lingua zingara, a cominciare dal termine ‘darav’ (mare), derivato dal persiano ‘darya’. E’ incerta la permanenza di popoli zingari in Persia fino ad oggi, anche a causa della confusione che spesso i viaggiatori hanno fatto con gli Arabi nomadi ed in particolare con i Beduini. Sicuramente, il viaggio proseguì verso nord-est, attraverso l’Armenia ed il Caucaso. Ancora una volta, sono elementi linguistici a svelarci il percorso degli Zigani: ‘grast’ (cavallo, termine armeno), ‘vurdon’ (carro, termine osseto).
I gruppi zingari che sono rimasti in Armenia e nei paesi transcaucasici si chiamano ‘Lom’: sono in genere cristiani o musulmani. Ma la maggior parte della popolazione proseguì il viaggio, probabilmente intorno al secolo XI, al tempo della guerra tra l’esercito di Bisanzio e quello dei Turchi Selgiuchidi.
Il viaggio prosegue nelle terre di Bisanzio.
Tra il 1100 ed il 1300 i popoli nomadi entrano nelle terre dell’Impero bizantino. Qui viene loro attribuito il nome della setta manichea degli Atsingani, da cui deriva il nome che ancora oggi li contraddistingue. Da questo periodo iniziano le testimonianze scritte, che segnalano presenze zingare nelle isole greche ed in Medio Oriente.
La città di Modone (oggi Methoni), situata a metà strada tra Venezia e la Terra Santa, era uno dei principali centri zingari. Le testimonianze sono numerose, anche perché la città era uno degli scali dei viaggiatori diretti a Gerusalemme.
Prima della conquista turca, gli Zingari erano numerosi anche nei paesi vicini alla Grecia: alla metà del ‘300, erano molti i ‘Cingarije’ del regno di Serbia, dove vivevano facendo i maniscalchi.
Numerosi Zingari vivevano in Valacchia, prevalentemente in condizioni di schiavitù: nel 1386, Mircea I, voivoda di Valacchia, confermò la dona- zione (fatta nel 1370) di quaranta famiglie Atsigane al monastero di S. Antonio. La situazione in Moldavia era simile: l’origine della schiavitù è incerta: si può ipotizzare l’arrivo degli Zigani nel 1200, come prigionieri di guerra (e quindi come schiavi) degli invasori Tartari. In seguito, avrebbero mantenuto la condizione servile.
Lo storico rumeno Panaitescu ipotizza un motivo d’ordine economico: in seguito alle Crociate, l’area del Danubio era diventata particolarmente prospera grazie ai commerci. La ‘divisione del lavoro’ di quella società aveva reso indispensabili gli Zingari, in quanto artigiani (fabbri, costruttori di laterizi) di valore. Ma, poiché rifuggivano un impegno prolungato e si spostavano spesso, furono resi schiavi e costretti all’immobilismo nei domini di principi e signori. Vi erano inoltre gli schiavi dello Stato (Zingari della Corona) e del clero (metropolita, vescovi, monasteri). Gli Zingari di Romania restarono schiavi fino alla metà dell’800.
Nelle terre greche, gli Zingari acquisirono la parola ‘drom’ (strada, in greco dromos’), mentre gli Zingari siriani conservarono il termine di origine indiana. ‘Beng’ (rospo, rana) è il termine zigano che si riferisce al diavolo, derivato (secondo lo ziganologo greco Paspati) da un’immagine tipica delle chiese bizantine: San Giorgio che trafigge il demonio, raffigurato come un dragone.
Arrivo in Occidente.
All’inizio del 1300, prosegue la marcia plurisecolare degli Zingari. I popoli moldavi e valacchi desideravano sfuggire alla schiavitù, gli abitanti delle terre bizantine fuggirono all’invasione turca, che arrivò alle porte di Costantinopoli, e in Serbia e in Bulgaria.
Non fu un esodo di massa, solo alcuni si spostarono, ed ancora oggi la maggioranza dei popoli zingari vive nell’Europa orientale. Il cammino delle carovane non era facile: spesso raccontavano alle autorità di essere pagani, provenienti dall’Egitto, convertiti al cristianesimo, poi ancora pagani ed infine riconvertiti ed in pellegrinaggio, per scontare le colpe commesse. Nel Medioevo ogni buon cristiano aveva il dovere di dare aiuto ed assistenza ai pellegrini, e cosi gli Zingari furono molto facilitati. Inoltre, la leggenda che raccontavano aveva un fondo di verità, poiché nei paesi bizantini, furono spesso costretti a convertirsi al Cristianesimo o all’Islam.
Un gruppo orientale riuscì persino ad ottenere lettere di protezione per duchi e vescovi, scritte da Sigismondo, re di Boemia e d’Ungheria.
Grazie a questi espedienti, gli Zingari percorrono la Germania (Amburgo, Lubecca, Rostock,…). Alcuni scendono verso il sud, verso Lipsia, mentre altri gruppi giungono in Svizzera.
I cronisti dell’epoca (siamo all’inizio del ‘400) parlano di vestiti miserabili, ma di abitudini sfarzose. In Germania gli Zingari furono imitati da gruppi di persone di lingua germanica, che adottarono la vita nomade ed i mestieri dei nomadi: gli Jenische.
In Francia e in Italia, di fronte al Papa.
L’arrivo dei gruppi zingari in Francia è segnalato nel 1419. Il 22 agosto, un gruppo arriva nella città di Catillon-en-Dombes. Presentano lettere al duca di Savoia ed all’imperatore. L’incontro con i cittadini è cordiale, basato sullo scambio di doni. In altre città c’è maggiore diffidenza, che però viene superata. La città di Tournai, appartenente al regno di Francia, elargì dodici monete d’oro, più pane e birra. Gli ‘Egiziani’ (cosi venivano chiamati) tornarono anche la primavera seguente, suscitando la stessa curiosità nei cittadini, che ammiravano l’abilità dei cavalieri e degli stessi cavalli, e si “facevano dire la buona ventura”.
Talvolta le lettere di protezione di principi e duchi non bastavano. Fu allora deciso di ottenere una lettera di protezione universale. L’unica persona che poteva scriverla era il Papa. Nel luglio del 1422 un gruppo di Zingari parte per Roma, ad incontrare Sua Santità Martino V.
Passano per Bologna e Forlì, dove raccontano di compiere un viaggio di penitenza, per tornare “nella retta fede”.
Negli archivi vaticani non c’è traccia di questo incontro, tuttavia questo periodo presenta molte altre lacune di documentazione. Gli Zingari utilizzarono per oltre un secolo il documento pontificio, che permetteva “privilegi del papa e dell’imperatore, per cui potevano andare per il mondo senza pagare alcun pedaggio o gabella”. Il testo integrale della lettera di Martino V è conservato in una traduzione francese, proveniente dalla Lorena:
“Tutte le autorità ecclesiastiche e civili sono richieste di
lasciar passare liberamente nel mondo, per terra e per mare, il duca Andrea del Piccolo Egitto [‘capo’ della spedizione] e tutta la sua truppa, con i loro cavalli e i loro beni, senza pagare alcuna tassa né diritto di passaggio, e sono promesse grazie eccezionali di assoluzione (è rimessa la metà dei peccati) ai fedeli che si mostreranno generosi con quei pellegrini”.
Un errore di un anno nella datazione e la strana formula nell’as- soluzione fanno dubitare dell’autenticità del documento. Presumibil- mente, come si evince da numerose testimonianze, Martino V incontrò realmente il “duca del Piccolo Egitto” ed i suoi e forse rilasciò anche la lettera, che poi fu spedita ai vari gruppi e modificata a seconda delle esigenze dei vari portatori. Un altro esempio della capacità dei popoli Zigani di utilizzare le debolezze dei gagè (esemplare il riferimento alla “metà dei peccati” condonati a chi si mostra generoso nei confronti di “questi pellegrini”).
Dopo il viaggio in Italia, molti tornarono indietro, altri rimasero. Probabilmente, i Rom dell’Italia meridionale provengono invece dalle terre dell’Impero bizantino, arrivati via mare prima del viaggio del duca Andrea.
In Spagna, in Gran Bretagna, in Scandinavia.
Proseguiamo il nostro viaggio: pochi anni dopo il loro arrivo in Francia, alcuni Zingari continuano per la Spagna. Probabilmente, nessuno fra i Gitani (Zigani spagnoli) proviene dall’Africa: l’analisi linguistica evidenzia molti termini provenienti dal greco, inoltre ci sono prove che avessero già attraversato la Francia: in particolare, facevano appello alla protezione del Papa.
Gli Zingari passano dall’Aragona alla Catalogna fino all’Andalusia. L’11 giugno 1447 sono a Barcellona. Nelle città di Spagna i ‘capi’ zingari, che si qualificano come “Conti del Piccolo Egitto” sono accolti con tutti gli onori, e ricevono doni in abbondanza.
Solo all’inizio del ‘500 ci sono notizie di “Ciganos” in Portogallo. Nello stesso periodo sbarcano in Inghilterra ed arrivano fino in Scozia. In queste terre, non suscitarono grande sorpresa, perché già esistevano i “Tinkers”, persone con stili di vita ed abitudini simili a quelli zingari, che parlavano lo ‘shelta’, una lingua rimasta a lungo sconosciuta ed imparentata col gaelico e con l’antica lingua irlandese.
Nella prima metà del ‘600, i Gypsies (in Gran Bretagna assunsero questo nome, poiché dicevano di venire dall’Egitto) arrivarono in Irlanda, per sfuggire al reclutamento militare avviato in Inghilterra.
La storia dell’arrivo in Scandinavia ha i caratteri della leggenda: nel 1505, una nave scozzese partì per la Danimarca. A bordo c’era un gruppo di Zingari, con a capo Antonio Gagino, conte del Piccolo Egitto, che aveva ricevuto dal re Giacomo IV una lettera per il re Giovanni di Danimarca. Successivamente, nel 1512, il conte arrivò in Svezia. L’arrivo degli Zingari in Norvegia è molto più triste: nel 1544, alcuni Gypsies arrestati in Inghilterra, furono deportati per ordine del re britannico. Dalla Germania, passando per lo Jutland, altri Zingari arrivarono in Scandinavia, dove si diffusero fino alla Finlandia.
In Africa, in America.
A partire dal 1600 gli Zingari subiscono la deportazione nelle colonie: i portoghesi li inviano nei loro domini di Capo Verde, dell’India, del Brasile, dove vengono chiamati ‘ciganos’.
Nel 1775, il re spagnolo Ferdinando VI inviò i Gitani che rifiutavano il servizio militare in America. Durante il XIX secolo, durante le guerre di liberazione dell’America del Sud, inizia l’emigrazione volontaria degli Zigani nel nuovo continente: sono i ‘Chiganeros’, che vanno in Argentina ed in Venezuela. Tra le fine del ‘600 e l’inizio del ‘700, alcune compagnie inglesi e scozzesi praticavano la deportazione dei Gypsies, per farli lavorare nelle piantagioni della Giamaica o della Virginia.
Alcuni Zingari andarono nelle colonie volontariamente, reclutati dalla Compagnia delle Indie; altri furono inviati forzatamente da Luigi XIV, alla fine del ‘600; altre deportazioni furono ipotizzate o minacciate, ma apparvero disumane e vi si rinunciò.
Nel 1802 il prefetto dei Bassi Pirenei, d’accordo col governo di Parigi, fece arrestare tutti gli Zingari dei Paesi Baschi, per deportarli in Luisiana. Il progetto fu impedito dalla guerra con l’Inghilterra, che riprese subito dopo.
1.3. Le persecuzioni subite dai Rom
La storia del popolo zingaro è in buona parte la storia delle persecuzioni che ha subito. Finché l’organizzazione sociale fu compatibile con il nomadismo, i motivi di scontro erano per lo più occasionali e sporadici. Nel Medioevo era relativamente normale condurre una vita errante (cavalieri, pellegrini, ordini mendicanti). Più tardi, invece, si verificò uno scontro tra strutture incompatibili.
Sporchi, cannibali e ladri di bambini.
Durante il periodo di formazione dei primi stati nazionali, quando si accentuano i processi di sedentarizzazione e di controllo sociale, gli Zingari tendono ad apparire come diversi: non più solo il colore scuro della pelle, la “stranezza” degli abiti, l’alone di mistero che li accompagna, ma anche il modo di vita diviene sospetto e malvisto. Inizia, a partire dal ‘500 ed ancora più dal ‘600, un processo di criminalizzazione dei modi di vita zingari: l’accusa di parassitismo dovuta alla pratica della mendicità, l’eterna accusa di essere ladri, in una società che tende a dare sempre più importanza alla proprietà privata. Miguel de Cervantes, all’inizio di una delle sue ‘Novelle esemplari’, scrive:
“Sembra che Gitani e Gitane non siano sulla terra che per esser ladri; nascono da padri ladri, sono educati al furto, s’istruiscono nel furto e finiscono ladri belli e buoni al cento per cento; la voglia di truffare e la furfanteria sonno in loro accidenti di cui si liberano solo alla morte” (Cervantes, 1956).
Il “Dictionairre universel de justice, police et finances” (1725) di Francois-Jacques Chasles definisce gli Zingari come “certi pitocchi erranti, vagabondi e libertini, che vivono di furto, d’astuzie e di truffe, e che soprattutto fanno professione di dire la buona ventura”. Inizia l’abitudine di dare giudizi senza informarsi: se è vero che nelle cronache e negli archivi giudiziari sono rimaste molte tracce dei furti zingari, è altrettanto vero che costituivano un mezzo marginale di sostentamento. In genere si trattava di piccoli furti (polli, legna, frutti): è tipica di tutti i popoli nomadi l’idea che ciò che si trova all’aria aperta appartiene a tutti.
Il romanziere inglese Fiendin fa dire ad un re dei Gypsies: “il mio popolo è ladro, senza dubbio; ma deruba solo il vostro. E voi, voi vi derubate reciprocamente” (H. Fielding, 1751).
Altra accusa classica (ma priva di fondamento) è quella per cui le Zingare rubano i bambini. Una idea diffusa nel credo popolare, in cui si può ravvisare più che altro la criminalizzazione del diverso. Stesso discorso per l’accusa di cannibalismo, a lungo rivolta ai popoli zingari: nel 1782, numerosi giornali ungheresi e tedeschi pubblicarono la notizia secondo cui numerosi Zingari magiari uccidevano i viaggiatori e ne mangiavano i cadaveri. La “Hamburger Neue Zeitung” scrisse di 88 persone divorate. Il “Pester Intelligenzblatt” (‘foglio intellettuale di Pest’, datato 4 settembre 1782) narrò di confessioni, e di persone cotte, affumicate e divorate. L’imperatore Giuseppe II non volle credere a tali misfatti, sospese le esecuzioni ed i processi ed inviò una commissione sul posto.
Si scopri cosi che nell’agosto del 1782 erano scomparse alcune persone senza lasciare traccia. Contemporaneamente, un gruppo di Zingari era stato arrestato per furto. Sotto tortura, gli furono estorte delle confessioni: gridarono “li abbiamo mangiati”. Altri supplizi portarono ad altre confessioni, ed alle esecuzioni. Poi le persone ritenute scomparse furono ritrovate. Ma il sospetto di cannibalismo rimase a lungo sugli Zingari.
Heidenjachten ed espulsioni.
Tra i popoli Zigani e le varie forme di autorità c’è una vera e propria idiosincrasia. E le autorità stesse (che per loro natura esigono i controllo sui sudditi) hanno sempre mal sopportato questi nomadi refrattari al potere ed alla sottomissione.
La lista degli atti di repressione comincia nel 1471, quando l’assemblea di Lucerna proibì agli ‘Zeginer’ di rimanere in Svizzera. Nel 1499, con la Prammatica di Medina del Campo, i Re cattolici ingiungevano ai gitani di abbandonare la vita errante, minacciando 100 colpi di frusta ed il taglio delle orecchie (!). Nel 1500, alla Dieta di Augusta, l’imperatore Massimiliano I ordinò agli Zigani di abbandonare le terre del Sacro Romano Impero.
Nei secoli successivi, le ordinanze di espulsione furono emesse dal Regno di Francia, dalla repubblica di Strasburgo, dai Paesi Bassi, dalla repubblica di Ginevra, dall’Inghilterra e dalla Scozia, dagli Stati italiani e tedeschi, dalla Boemia, dalla Polonia e da molti altri ancora.
Carlo V proclamò l’espulsione degli Zingari dai Paesi Bassi del nord nel 1524. Sotto il regno di Elisabetta, il Parlamento inglese ordinò ai Gypsies di abbandonare “the naughty, idle and ungodly life and company” (il loro detestabile modo di vivere).
Quasi tutte le misure di espulsione rimanevano inapplicate, per le scarse capacità degli Stati di controllare il territorio. Gli Zingari si limitavano a soggiornare nelle zone di confine oppure nei luoghi meno accessibili, come foreste e montagne.
L’unico paese in cui gli Zingari furono cacciati erano le Province Unite (Paesi Bassi): alla metà del ‘700 non vi erano più nomadi, a causa delle ‘Heidenjachten’ (cacce ai pagani), battute con partecipazione di fanteria e cavalleria, che provocarono la morte di molti Zingari.
Nel 1594, due membri delle Cortes di Castiglia proposero di separare i Gitani dalle Gitane, in modo da estinguerne la razza. Nel 1631, Juan de Quinones pubblicava il “Discurso contra los Gitanos” chiedendo l’espul- sione o lo sterminio totale dei Gitani.
Nel 1682, Luigi XIV dichiarava, usando un linguaggio simile a quello dei leaders dell’estrema destra di oggi: “E’ impossibile scacciare dal regno questi ladri, data la protezione che hanno trovata in ogni tempo e che oggi continuano a trovare ancora oggi presso gentiluomini e signori giustizieri, che danno loro asilo nei castelli e nelle loro case…
Questo disordine è comune alla maggior parte delle province del nostro regno” (cit. in Vaux de Foletier, 1977, p. 91).
Spesso si ricorreva ad orrendi supplizi nei confronti degli Zingari, anche quando non erano accusati di niente. Nei Paesi Bassi del ‘700 si usava torturare ed uccidere gli Zingari davanti ai figli, ai quali veniva successivamente impartita una lezione di morale. La Prammatica di Filippo V (1745) permetteva a chiunque di uccidere all’istante un Gitano trovato fuori dalla sua “residenza abituale”.
Nel 1715 furono arrestati in Spagna 12mila Gitani. La marina francese iniziò contemporaneamente ad utilizzare come rematori gli Zingari, “in quanto vagabondi”.
L’assimilazione illuminata.
Il “Dispotismo illuminato” tentò di annullare la cultura e le abitudini zigane e di dare loro i diritti di cittadinanza, interrompendo le persecuzioni.
Maria Teresa e suo figlio Giuseppe II, imperatori d’Asburgo, decisero di rendere felici gli Zingari, anche contro la loro volontà. Tra il 1768 ed il 1782 decisero l’abolizione del nome (‘nuovi Magiari’ era la loro nuova denominazione), l’obbligo di rinuncia alla lingua, l’obbligo di frequentare le chiese, abitare in abitazioni regolari e vestirsi come tutti gli altri. I ‘nuovi Magiari’ avrebbero dovuto rinunciare al nomadismo e persino ai figli, educati dal governo lontano dalla famiglia. In cambio, avrebbero ricevuto case, bestiame ed attrezzi agricoli.
Il tentativo di “civilizzazione” forzata fu un fallimento e provocò sofferenze analoghe a quelle causate dai tentativi di sterminio. Una notte di dicembre, nel 1773, tutti i ragazzi zingari del palatinato di Presburgo furono strappati alle famiglie (erano gli Zingari che rubavano i bambini ?) ed affidati a contadini di villaggi lontani, che accettarono di allevarli dietro il compenso di 18 fiorini l’anno. Gli Zingari rinunciarono alle case ed agli attrezzi dell’Imperatore e tornarono al nomadismo. I figli fuggirono e finirono per ricongiungersi alle famiglie. Giuseppe II fu costretto a rivedere la sua politica.
Contemporaneamente, il re di Spagna Carlo III tentava di distruggere la cultura Gitana obbligandoli alla sedentarietà ed alla rinuncia alla lingua. Un proverbio gitano ricorda che “a liri ye crayi nicobò a liri es calè” (la legge dei re ha distrutto la legge dei Gitani).
Le operazioni di polizia (che continuavano in Francia e nei Paesi baschi) ed i tentativi di assimilazione forzata erano diversi nelle forme ma identici nelle finalità: distruggere una cultura altra. Tra ‘600 ed ‘800, questi fenomeni sono elementi di un più vasto movimento, quello tendente ad omologare le masse (nazionalizzazione delle masse) per creare lo Stato nazionale, che quasi sempre fu il frutto di dure lotte e persecuzioni, assimilazioni ed integrazioni forzate da parte dell’etnia maggioritaria, anziché un romantico processo di costruzione della ‘patria’.
Continua la repressione.
I secoli in cui le persecuzioni degli Zingari conobbero un incremento quantitativo sono il XVII ed il XX.
L’800 è un secolo interlocutorio, in cui continuano le solite espulsioni, tra cui si segnala quella del Ducato di Modena, datata 5 gennaio 1832:
“(…) E’ proibito alle persone senza arte e mestiere, ai vagabondi, ai cosiddetti zingari ed agli accattoni di introdursi nei Domini Estensi (…). Le persone suddette, se non appartengono alla Città o al comune dove si trovassero vagando o questuando, saranno immediatamente espulse con foglio di via, (…) pena l’arresto” (M. Karpati, 1975).
Nel 1912, l’etnografo Adriano Colocci denunciò i pogrom avvenuti l’anno precedente:
“Iniqua fu la caccia all’uomo fatta l’anno scorso, massime in Puglia, contro innocenti famiglie zingare, sequestrate, seviziate, segregate su pontoni bruciate dal solleone, lasciate là senza cibo e senza assistenza. Anche dopo riconosciuto dalla Sanità ufficiale che quei tapini erano immuni da infezioni, non solo essi furono barbaramente malmenati e cacciati, essi e i loro bambini, ma si ebbe anche l’incredibile spettacolo di una Camera italiana, che di fronte alla proposta mentecatta fatta da uno dei suoi membri, che cioè il governo si facesse iniziatore presso gli altri Stati europei ‘di respingere sempre e comunque gli zingari per il solo fatto di essere zingari” non ebbe parole di ribrezzo contro tale bestemmia, che vorrebbe mettere al bando un intero popolo per l’unica ragione che è misero e odiato” (Colocci, 1912).
L’Olocausto.
“Il terzo contingente per numero era rappresentato degli zingari. (…)Negli anni 1937-38, tutti gli zingari nomadi furono raccolti nei cosiddetti campi di abitazione, perché fosse più facile sorvegliarli. Nel 1942 venne l’ordine di arrestare tutti gli individui di tipo zingaresco, compresi gli individui di sangue misto, che si trovavano nel Reich, e di trasportarli ad Auschwitz, a qualunque età e sesso appartenessero. Nel luglio del 1942, Himmler venne a visitare il campo. Gli feci percorrere in lungo e in largo il campo degli zingari, ed egli esaminò attentamente ogni cosa: le baracche di abitazioni sovraffollate, i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall’epidemia infantile Norma, che non potevo mai guardare senza orrore e che mi ricordavano i lebbrosi visti a suo tempo in Palestina: i loro piccoli corpi erano consunti e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano addirittura di guardare da parte a parte; vivi ancora, imputridivano lentamente…
Gli zingari atti al lavoro vennero trasferiti in altri campi, e alla fine rimasero da noi (era l’agosto 1944) circa 4000 individui da mandare alle camere a gas” (R. Hoess, 1960). Il comandante del lager di Auschwitz descrive così alcuni aspetti dello sterminio dei popoli Zingari perseguito dal regime nazista. Come gli Ebrei, anche gli Zingari subirono la condanna al genocidio. Nonostante l’origine ariana, furono dichiarati una razza inferiore e condannati prima alla sterilizzazione e poi alla deportazione di massa. Nei campi di Treblinka, Sobibor, Auschwitz-Birkenau, nelle fosse comuni di Chelman, Maghilev, Janyce gli Zingari condivisero la sorte degli Ebrei e portarono sulla pelle il numero di matricola e la Z (Zigeuner), come gli ebrei avevano la J (Juden).
L’Olocausto zigano è ricordato da pochi. Solo nel marzo del 1995 è stato costruito un monumento nel lager di Buchenwald, che ricorda la tragedia degli Zingari. La sentenza del tribunale di Norimberga ha riservato poche parole (alcune discutibili) a questo genocidio:
“I gruppi di azione ricevettero l’ordine di fucilare gli Zingari. Non fu fornita nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli ha dato al mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, doveva essere braccato come un animale selvaggio. Pittoreschi negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno talvolta stancata con la loro indolenza. Ma nessuno li ha mai condannati come una minaccia mortale per la società organizzata, nessuno tranne il nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di Himmler, di Heydrich [un alto funzionario di polizia], ordinò la loro eliminazione” (cit. in M. Karpati, 1971).
Dalla sterilizzazione allo sterminio.
Dopo che, nel 1933, Hindemburg nominò Hitler cancelliere, terminò ogni residuo di tolleranza nei confronti degli Zingari. Le misure di polizia divennero più severe e nel 1936 furono costituiti i “Wohnlager”, luoghi dove gli Zingari erano costretti ad abitare sotto il controllo della polizia e dove venivano sottoposti ad esperimenti di carattere biologico, a cominciare dalla sterilizzazione.
Nel ’36 cominciarono anche le prime deportazioni: la polizia bavarese inviò a luglio 170 Zingari a Dachau. Altri gruppi arrivarono poco dopo. L’accusa è che venne rivolta è quella di asocialità; in questo caso, i nazisti sembrarono mettere in secondo piano la “purezza del sangue”. Gli intellettuali del Reich erano impegnati a dare una patina di scientificità ai crimini che si andavano commettendo: il dott. Hans Globe, capo servizio del ministero dell’Interno (uno dei redattori delle leggi razziali), dichiarò nel ’36 che gli Zingari e gli Ebrei non hanno sangue europeo, il che vale anche per “semi-giudei” e meticci.
Nel 1938, il prof. Hans F. Guenther scrisse un intero libro sul- l’argomento: in “Rassenkunde des Deutschen Volkes”, scrisse che gli Zingari portarono sangue straniero in Europa, ed in più sono una mescolanza di varie razze, l’esatto contrario della purezza.
Due anni prima, il dott. Robert Koerber (in “Volk und Staat”) aveva ribadito che Ebrei e Zingari sono di origine asiatica, ben lontani dalle purezze nordiche e germaniche. Tuttavia, un dubbio restava: gli Zingari non erano forse ariani (indoeuropei) come i tedeschi ? Per verificarlo, Himmler prelevò 40 prigionieri Zingari da Sachenhausen e li consegnò ai proff. Fischer e Hornbeck. Il ministero della Sanità istituì una sezione per le ricerche razziali, con compiti analoghi. Nel 1942, intanto, tutti gli Zigani del Reich risultarono schedati.
Le ricerche sul sangue non portarono alla condanna definitiva; ad essere decisiva, fu invece una tesi di laurea, presentata da Eva Justin, assistente del dott. Ritter, che lavorava al ministero della Sanità. Nel 1943, la pubblicazione della tesi offrì la giustificazione pseudo-scientifica dell’Olocausto degli Zingari: infatti, si sosteneva che i bambini zingari portano un fattore ereditario pericoloso (“Wandertieb”, impulso al nomadismo) che ne determina il comportamento. Nel 1937 e nel 1938 si intensificano le retate contro gli Zingari: dapprima si arrestarono solo gli uomini, poi bambini e donne. Nel 1938 Himmler (ministro dell’Interno e capo delle SS) si occupa in prima persona della questione: il 16 maggio fa trasferire l’ufficio degli “affari zingari” da Monaco a Berlino; il 1 luglio ordina una settimana di epurazione; l’8 dicembre impone agli Zingari di scegliere tra la sterilizzazione e l’internamento; il 16 dicembre 1942 decreta la “deportazione generale”. In febbraio, il primo convoglio di prigionieri arriva ad Auschwitz-Bierkenau. Qui diventarono cavie per il dottor Mengele, che li utilizzò per verificare la resistenza al freddo, fece esperimenti sui gemelli e sull’inoculazione del tifo, oltre che sulla sterilizzazione. Nel campo di Ravensbruck furono sterilizzate tutte le Zingare di età compresa fra i 7 ed i 45 anni. Il dott. Portschy spiegò la necessità di questi provvedimenti:
“Per ragioni di sanità pubblica, e in particolare perché gli Zingari sono portatori di una eredità notoriamente grave e malata, perché essi sono dei criminali inveterati, parassiti in seno al nostro popolo, al quale non possono che apportare che danni immensi, mettendo in grave rischio la purezza del sangue dei contadini e il loro genere di vita, è necessario in primo luogo che si badi di impedire a loro di riprodursi, e che li si costringa al lavoro forzato nei campi di lavoro, senza peraltro impedir loro di scegliere l’emigrazione volontaria verso altri paesi” (cit. in M. Karpati, 1971).
Il genocidio.
Dachau, Mauthausen, Watzweiler, Neuengamme, Ravensbruck, Buchenwald, Jagala, Treblinka, Auschwitz. Sono le tappe della tragedia che ha colpito il popolo Zingaro.
Poche persone tentarono di salvare gli innocenti: un sacerdote cattolico di Illingen, che fece fuggire in Francia molti Zingari. Altri riuscirono a fuggire nelle montagne, e spesso partecipavano alla lotta partigiana. Ma moltissimi altri vennero catturati, con l’espansione tedesca in Boemia, Polonia, Belgio, Olanda, Francia, Balcani.
Il regime hitleriano ha avuto numerosi complici, a partire dai col- laborazionisti: il governo di Vichy fu responsabile dell’internamento in campi di concentramento di 30mila fra Rom e Gitani. Altri furono consegnati agli occupanti tedeschi e molti furono quelli che morirono durante la deportazione.
La notte di Natale del 1941, migliaia di Zingari furono uccisi dal fuoco degli Einsatzgruppen (‘gruppi di azione’) nazisti. Accadde in Crimea, nella periferia di Simferopol. Nell’agosto del 1944 Himmler ordinò lo sterminio totale.
E’ difficile stabilire il numero totale degli Zingari morti a causa della follia nazista: la cifra varia da 250mila a 500mila unità. Si hanno maggiori informazioni sulle cifre parziali: nel 1943, i libri contabili di Auschwitz registravano 20.943 Zingari. Ogni baracca conteneva 800 o 1000 persone, mentre era stata costruita per 300 unità. Solo nel marzo 1943 morirono 7000 zingari. La notte del 31 luglio 1944, ne furono uccisi 4000, nelle camere a gas.
Durante l’interrogatorio di Norimberga, Hoess (il comandante di Auschwitz) tentò di giustificarsi affermando che gli Zingari non si ac- corsero della situazione di prigionia e non soffrirono. Nel fascicolo che riguardava Hoess, fu ritrovata questa annotazione: “H. non è soltanto un buon comandante di campo, ma in questa sfera di azione si è rilevato un vero pioniere, per il suo apporto di nuove idee e di nuovi metodi educativi” (cit. in M. Karpati, 1971).
Dentro il lager.
Un testimone diretto, il dottor Mikos Nyiszli, fu internato ad Auschwitz e si trovò accanto a Josef Mengele. Nelle sue memorie si leggono le atrocità compiute nel lager: gli esperimenti sui gemelli, uccisi contemporaneamente e trasportati in infermeria, dove si compivano le analisi e le radiografie. Quindi la dissezione dei cadaveri. Mengele voleva scoprire il segreto della moltiplicazione della specie e fare in modo che ogni donna tedesca potesse partorire quanti più gemelli possibile, al fine di accrescere il numero della razza superiore.
Parallelamente, Mengele “manda a morte quanti sono designati dalle sue teorie razziali come esseri inferiori e nocivi all’umanità. Questo medico criminale rimane per ore intere al mio fianco, in mezzo a microscopi, provette e reperti oppure in piedi al tavolo di dissezione con un camice macchiato di sangue, le mani insanguinate, intento ad esami e ricerche, come un invasato. Lo scopo immediato della ricerca è la moltiplicazione della razza tedesca, lo scopo finale la produzione di tedeschi puri” (M. Nyiszli, 1961).
“I gruppi di azione ricevettero l’ordine di fucilare gli Zingari. Non fu fornita nessuna spiegazione circa il motivo per cui questo popolo inoffensivo, che nel corso dei secoli ha dato al mondo, con musica e canti, tutta la sua ricchezza, doveva essere braccato come un animale selvaggio. Pittoreschi negli abiti e nelle usanze, essi hanno dato svago e divertimento alla società, l’hanno talvolta stancata con la loro indolenza. Ma nessuno li ha mai condannati come una minaccia mortale per la società organizzata, nessuno tranne il nazionalsocialismo, che per bocca di Hitler, di Himmler, di Heydrich [un alto funzionario di polizia], ordinò la loro eliminazione” (cit. in M. Karpati, 1971).
Bravi borghesi contro ‘anormali e depravati’.
Cominciarono nel 1926, prima di Hitler. Terminarono solo nel 1973. La società ‘filantropica’ svizzera “Opera di soccorso per i figli della strada” ottenne nel ’26 pieni poteri per risolvere quello che veniva definito il problema della minoranza nomade, il cui gruppo più numeroso era costituito dagli Jenisch, un popolo di origine europea che da 5 secoli aveva assunto i modi di vivere delle altre popolazioni nomadi.
L’Opera di soccorso progettò il genocidio culturale, in nome dell’ideologia borghese, allora dominante in Svizzera, che riteneva il no- madismo una piaga sociale da estirpare. Per realizzare tale nobile intento, i figli degli Zingari furono strappati alle famiglie (come ai tempi di Giuseppe II) e rinchiusi in istituti, dove ricevettero nomi diversi e gli fu impedito ogni contatto con i genitori. Le ragazze venivano abitualmente sterilizzate. Un giurista elvetico, R. Waltisbul, scrisse che “dal punto di vista eugenetico e della polizia criminale non possiamo che parteggiare per la sterilizzazione di determinati tipi di nomadi”.
Il fondatore dell'”Opera di soccorso dei figli della strada”, A. Siegfried, si vantò dei risultati raggiunti: “dobbiamo dire che molto è stato raggiunto se se queste persone non formano una loro famiglia, non si riproducono più per mettere al mondo nuove generazioni di bambini anormali e depravati”.
Dal 1926 al 1972 furono 500 i bambini che subirono il trattamento dell’Opera: la loro infanzia trascorse in istituti, in ospedali psichiatrici ed anche in prigione. Questi orrori terminarono nel 1973, e solo in seguito ad una campagna decennale di informazione fatta da una associazione Jenisch, “La ruota della strada maestra”. Nel 1986, il presidente della Confederazione elvetica, Alfons Egli, chiese scusa ai nomadi per gli atti inumani compiuti nei loro confronti.
Il soccorso per i figli della strada.
Mariella Mehr, scrittrice Jenisch, ha raccontato in un libro l’esperienza di quell’inferno, fatto di psichiatri e di sadici, di violenze e di lacrime, che lei subì fino all’età di 18 anni:
“Nella mia madre lingua, la jenisch, io sono una jenisch; nella lingua dell’igiene razziale, e dunque della scienza dell’antropologia: una senza dimora, una asociale o almeno gravata dall’eredità di una stirpe asociale e senza dimora, cioè una vagante, una di quella sorta di sottospecie umana, dannosa, una moralmente deficiente, incapace di integrazione sociale, una ladra del giorno, notoriamente fannullona, tarata, senza valore, abulica verso il lavoro, sessualmente pervertita, una pericolosa socialmente, una psicopatica, che appartiene a quella feccia che Hitler avrebbe legalmente condannato e resa innocua. (…)
‘Qui vedete un membro di quella tribù di nomadi in base alla storia della quale vi ho illustrato la teoria dell’ereditarietà. Questo soggetto è la terza generazione di malati di mente che quel gruppo nomade ha prodotto’. Il dottor Ackermann davanti ad un gruppo di infermiere apprendiste dell’istituto Waldheim. Silvia [alter ego dall’autrice] si vergogna, umiliata, irata, intimidita, buttata là davanti a venti paia di occhi inquisitori: sei come tua madre Silvia, sei pazza, pazza come quel mostro che ti ha messo al mondo. Sei pazza Silvia, perduta in una follia che tu stessa non comprendi. Credilo Silvia, finalmente, credi a loro, agli dèi bianchi, credili. (…)
Sento sbattere una porta, salire con passi pesanti la scala. “Scotennare”, così il mio padre adottivo chiamava le botte. Mi batteva con la sua cinghia da militare e piangeva. Io ero per lo più nuda. La stanza da bagno all’asilo del “Zum Lachelnden Jesus” un luogo grigio, maleodorante, nel quale Silvia, a tre anni, veniva rinchiusa per ore, perché la piccola aveva sporcato le sue mutandine. (…)
Il viso con la cicatrice fa il turno di notte. Da mezzogiorno Silvia non ha visto più una suora. Solo il viso con la cicatrice ha scrutato di tanto in tanto dentro la stanza, ha sentito il polso della ragazza. I dolci sono sul tavolo nessuno li ha toccati. Il viso con la cicatrice ha promesso di tornare la sera.
Il viso con la cicatrice si siede sul bordo del letto, accarezza la testa e le braccia di Silvia e il petto. (…) Silvia è piccola, senza calore, senza affetto. Se ne sta tutta zitta. Silvia è una piccola bambina coraggiosa.
Il viso con la cicatrice respira forte. Allarme. Silvia si irrigidisce. Il dottore apre la sua vesta bianca, fa qualcosa ai suoi pantaloni grigi. Con l’altra mano spinge il corpo di Silvia su di sé. Silvia soffoca.
Non uccidermi, dottore, mi fai male. Non posso più sopportare nessun dolore. Prego dottore, non più.” (M. Mehr, 1995).
Le persecuzioni più recenti.
Venti aprile 1974: “Mi sono alzato prima di tutti gli altri, circa alle cinque. E intorno, ogni dieci metri, c’era la polizia con i mitra…
Quando sono stati fra le baracche, hanno fatto alzare tutti quelli che dormivano, anche i bambini… hanno fatto la perquisizione… poi hanno cominciato a tremare, i bambini hanno cominciato a piangere… Fino alle tre e mezza del pomeriggio ci hanno tenuti circondati, senza mangiare senza sigarette, senza acqua… Poi quello in borghese e il capitano ci hanno comandato di andare via da quel terreno (Roma, Settecamini). Entro le cinque della sera dovevamo sparire di lì: sparire materialmente e moralmente” (cit. in M. Karpati, 1974)
Le persecuzioni nei confronti degli Zingari non si sono arrestate. Sono solo diventate meno visibili. In questo paragrafo elenchiamo alcuni atti persecutori degli ultimi anni, scelti per la loro valenza simbolica.
Continuiamo con un titolo della “Domenica del Corriere”, datato 21 agosto 1975: “Gli zingari non se ne vanno e allora scaldiamoli”. Il macabro riferimento è allo sgombero del 5 agosto, tra Bresso e Sesto San Giovanni: le immagini del settimanale mostrano i poliziotti che spargono benzina e incendiano gli sterpi attorno alle carovane Rom, mentre altri li minacciano con i mitra imbracciati; ragazze che spingono fuori dalla cortina di fumo una macchina; carrozzoni in fiamme; bambini nudi che si stringono terrorizzati alla mamma piangente.
Da Roma ci giunge la cronaca di un altro sgombero violento, avvenuto il 5 aprile del 1983:
“Il giorno dopo Pasqua, senza nessun preavviso la polizia del Commissariato di via dei Romanisti e dell’Ufficio stranieri, ci hanno intimato di sgomberare subito. Già la settimana prima ci avevano bruciato le baracche al Quarticciolo, dove abbiamo sempre pagato l’affitto. (…) Noi con una macchina siamo riusciti a spostare nove carovane e le altre sono state bruciate. Anche quella del nonno cieco; la nonna era disperata. Hanno portato via gli uomini per controlli. Milenko aveva in braccio la bambina, Susanna, di un anno e mezzo, perché la moglie era via… A lui l’anno rimpatriato e hanno tenuto la bambina per metterla in collegio. Per fortuna c’era un poliziotto di origine rumena e siamo riusciti a farcela riconsegnare. (testimonianza di Mirko G., in Levak – Karpati, 1984).
Sette marzo 1995: una bomba scoppia ad Oberwart, in Austria, uccidendo quattro Zingari, tra cui due nipoti di un reduce dai lager di Hitler.
Nonostante l’evidente responsabilità neonazista, la polizia perquisisce le case degli Zingari, avanzando l’ipotesi di una faida.
Ed ancora: dieci marzo ’95: 200 persone manifestano a Padova contro la sentenza razzista che ha condannato ad 1 anno e cinque mesi con la con- dizionale il carabiniere Zantoni, colpevole di omicidio nei confronti di Tarzan Sulic, Rom di 11 anni.
Era stato illegalmente rinchiuso, il 23 settembre ’93, in una cella di sicurezza, insieme alla cuginetta Miria Diuric. Piangevano e volevano uscire: arriva il carabiniere, li minaccia, parte un colpo dalla pistola, la pallottola uccide Tarzan e finisce nel petto di Miria, che sopravvive. Per l’assassino neanche un giorno di carcere. Sono solo alcuni recenti episodi, simbolo di intolleranza, razzismo, ferocia. Ce ne sono molti altri analoghi. I responsabili sono ‘tutori dell’ordine’ e persone perbene, bravi cittadini e uomini onesti. Gente che si crede civile. E per questo diventa assassina.
c a p i t o l o 2. La cultura
2.1. I gruppi
I gruppi zingari presenti in Italia possono dividersi in tre grandi fasce:
- Zingari di antico insediamento, presenti soprattutto nell’Italia centro-meridionale, discendenti dei nomadi arrivati in Italia apartire dal ‘400 (v. par. 1.2). Lavorano i metalli (rame e ferro) e si dedicano al commercio. Hanno, in genere, la cittadinanza italiana; spesso abitano in abitazioni regolari e lavorano nell’edilizia o comunque in settori marginali.
In base alla regione d’insediamento si definiscono Rom abbruzzesi, calabresi, ecc.
In Italia settentrionale conducono generalmente una vita nomade, conciliandola con le loro occupazioni: sono infatti giostrai, gestori di piccoli luna park e spettacoli viaggianti, piccoli commercianti e allevatori. Sempre in base alla regione d’insediamento, si chiamano Sinti piemontesi, lombardi, Gachaknè (tedeschi), Estrekaria (austriaci), Havati (croati).
- Zingari immigrati dopo la prima guerra mondiale: sono Rom provenientidall’Europa orientale, che parlano dialetti slavi e perlopiù fanno i calderai e i commercianti. Si definiscono Lovara, Churara, Kalderasa.
- Zingari immigrati a partire dagli anni ’60: gli arrivi sono ancora incorso ed hanno subìto una prevedibile accelerazione a causa della guerra nella ex Jugoslavia. Infatti, questi Rom provengono dai Balcani, dove erano quasi tutti sedentari. In Italia, sono seminomadi, anche se è chiara la tendenza alla sedentarizzazione.
I Rom provenienti dalla Serbia si definiscono Kaniara, i Lovara vengono dalla Polonia, i Rudari sono invece originari della Romania. I Khorakhanè provengono dalla Bosnia, dal Montenegro e dal Kossovo.
2.2. La religione
Premessa.
I pareri sulla religiosità degli Zingari sono molto discordi. Per esempio, il Predari afferma: “nessun sentimento è in essi di religione, nemmeno sotto forma di qualche superstiziosa immagine; quindi una facilità strana ad informarsi al culto, qualunque sia, del paese in cui vivono… Lo zingaro manca persino nella usa lingua di un vocabolo che esprima l’idea di religione” (Predari, 1841, p.149).
Altri sostengono che “lo zingaro non seppe assurgere all’idea di una Mente regolatrice dell’Universo e gli mancò la nozione della divinità, vivendo sempre nella cerchia dell’istinto, non vede la necessità di piegare la sua intelligenza alla comprensione delle idee astratte…” (Colocci, 1889, p.163).
Questa convinzione può derivare dal fatto che gli Zingari non hanno mai avuto una religione ufficiale, adeguandosi sempre ai culti dei paesi con i quali hanno avuto contatti. Il Benimeli ammette che gli Zingari “in realtà sono più superstiziosi che religiosi, però in mezzo alla loro più assoluta ignoranza hanno, come la maggior parte degli uomini, un’anima naturalmente religiosa” (Benimeli, 1965, p.38).
Leblon afferma che “la fede zingara poggia su una visione mitica di un mondo diviso tra forze oscure e contrarie, benefiche o malefiche, in perpetua lotta di influenza” (Leblon, 1964, p.3). Le due forze sono impersonate in Dio e nel diavolo: “riconoscono due princìpi: o Del, Dio creatore, principio del bene; o Bengh, il diavolo, principio del male. Ambedue potenti e sempre in lotta tra loro. Questi princìpi non sono astratti ma al contrario materializzati negli elementi della natura”. Questa materializzazione non va intesa in modo assoluto, ma come una tendenza a vedere nei fenomeni naturali manifestazioni di Dio e del diavolo, i quali hanno un deciso carattere spirituale.
Dio.
Dio è universalmente designato con il termine Devel o Del (dall’antico indiano devà, devata= divinità). E’ una persona spirituale, della quale gli Zingari non sanno, o meglio, non vogliono dare una precisa definizione; si rifiutano di pensare Dio in forma sensibile al punto da dichiarare peccato il rappresentare Dio in forme concrete. Gli attributi che gli danno sono: grande (baro), santo (hailigo, sunto) e nostro (maro). Alcuni Zingari pensano ad un Dio buono, che governa tutto l’universo con amore; non concepiscono l’inferno come una condanna, ma solo come un periodo di purificazione.
Altri, invece, pensano che l’inferno sia la continuazione “delle pene e dei dolori della stessa vita terrena”. I Gitani credono che Dio abbia un carattere vendicativo e malefico, ma ciò può essere giustificato, se si pensa al gusto pauroso delle manifestazioni religiose presenti in Spagna.
Il rapporto con Dio è un fatto personale: tutti si rivolgono a Lui pensando al padre. E’ una esperienza intima che non può essere spiegata dalla razionalità, essenziale per lo Zingaro.
La devozione.
Gli Zingari non hanno mai stabilito luoghi e forme di culto, esiste solo la pietà familiare. “Il culto degli zingari è molto povero e manca un sacerdozio proprio, manca il tempio, manca il calendario religioso (…). Quindi, tutto il culto sembra esplicitarsi nella preghiera spontanea, individuale, immediata, non legata a formule, a tempi ed a luoghi determinati” (Belloni, 1968, p.25).
Lo Zingaro assume sempre un comportamento di profondo rispetto, cercando di non infrangere l’ordine della natura stabilito da Dio. “Le preghiere, generalmente molto semplici e ingenue, sono formule di domanda, talvolta persino di pretesa: io ti pregherò ancora, se tu mi esaudirai; se tu ti ricorderai di me, io mi ricorderò di te” (Nicolini, 1969, p.98).
Di solito, nelle invocazioni si chiede ciò che riguarda la salute, la fortuna e la libertà. “Atti di culto vengono pure tributai alle anime dei defunti, rivolgendo loro preghiere, offrendo libagioni, accendendo ceri, venerando la tomba, proprio perché il legame del sangue continua anche dopo la separazione della morte” (Nicolini, 1969, p.99).
Lo spirito del male.
Il principio del male è il Bengh (indostano: beng= rana; sanscrito: bleka= ranocchio). Il Beng è l’antagonista di Dio, però è inferiore a lui. Come Dio, così il Bengh è indefinibile: gli Zingari dicono solo che egli non ha natura umana, anche se, talvolta, si presenta sotto le spoglie di un uomo. E’ molto difficile che essi parlino di questo argomento, temono anche di pronunciarne il nome e usano sinonimi come il brutto, il cattivo, quasi che, per la potenza evocatrice della parola, il chiamarlo per nome possa provocarne la presenza.
Gli Zingari credono che accanto alla natura demoniaca del Bengh, ci siano altre forze come i Mulè (che vengono a tormentare i vivi) e le Hexi (esseri stregati). Presso i Rom sussiste anche la credenza nelle Ursitory, che impassibili dirigono la sorte degli uomini.
La superstizione.
Al dualismo Devel – Bengh corrisponde la contrapposizione fortuna- sfortuna, baxt-bibaxt (dall’antico indiano bhaga= sorte), effetti delle disposizioni benevola del Devel o malefica del Bengh. Lo Zingaro usa portare con sé immagini sacre e amuleti.
L’amuleto più diffuso è il “sacchetto di cose sante”. E’ un sacchetto di tela o di pelle, che lo Zingaro porta appeso al collo e che si procura dalle ‘sante’. La ‘santa’ (hailighi gagì) è una fattucchiera, alla quale gli Zingari si rivolgono in caso di bisogno: per la guarigione di un malato per la liberazione di un carcerato.
La ‘santa’ assicura la sua mediazione, purché il richiedente abbia fiducia in Dio; è sempre una ‘gagì’ (una non zingara), ritenuta una potente mediatrice presso Dio. Il ricorso alle ‘sante’ serve a superare le difficoltà, infondendo quella fiducia necessaria per affrontare pericoli ed ostacoli.
Il timore superstizioso che circonda i morti è molto forte: gli Zingari danno molta importanza ai sogni, in cui appaiono i defunti, in quanto ritengono che vengano per dare loro avvertimenti, che devono essere eseguiti con la massima prontezza. Ma di questi sogni potranno parlare solo dopo lo scoccare del mezzogiorno. Gli Zingari praticano anche la magia verbale che si traduce in formule cariche di una grande forza di coercizione.
Se uno Zingaro chiede ad un altro di dirgli la verità, o di compiere una data cosa scongiurando sulla testa dei suoi figli o sulla memoria dei suoi morti, questi non potrà esimersi dal farlo. Naturalmente, tutto ciò non vale se la richiesta viene da un non-zingaro.
Moralità.
Lo Zingaro è fondamentalmente religioso, anche se non aderisce con piena consapevolezza a nessuna religione positiva. Tutto ciò che risponde alla volontà divina è principio di amore e di vita. Lo Zingaro vede nell’amore la ragione della sua vita, infatti si ritiene del tutto giustificato agli occhi di Dio quando ha assolto il suo impegno verso il prossimo. Va evidenziato che il prossimo, per lo Zingaro, è l’uomo del suo stesso sangue, non lo straniero, il gagiò. questo non vuol dire che non provi sentimento di forte e sincera amicizia per i gagè, l’ospitalità è sempre sacra per gli Zingari.
Dalla contrapposizione dei due mondi (Zingaro e non-Zingaro) deriva una diversa valutazione: mentre è male uccidere, derubare ed ingannare uno Zingaro, queste azioni non sono avvertite come colpe se rivolte verso i gagè, poiché lo Zingaro reputa il nostro mondo immorale, spinto dall’egoismo e da interessi materiali. Le relazioni con la propria gente si caratterizzano invece per la spontanea generosità. Non c’è differenza tra povero e ricco; chi ha, dà. E’ la legge del mondo nomade fondata sulla comunione dei beni: non esiste proprietà personale, né eredità.
Gli Zingari e il Cristianesimo.
Gli Zingari non accettano né il mistero del Cristo come vero Figlio di Dio incarnato e morto, né il mistero della Trinità. Non comprendono nemmeno il bisogno della Redenzione: ogni uomo soffre già nella vita a causa delle proprie colpe e in questo modo si riscatta davanti a Dio.
Con entusiasmo hanno accolto la devozione alla Madonna, che essi chiamano ‘Madre di Dio’, che si manifesta nel culto per la sua immagine, nei pellegrinaggi ai suoi santuari, nelle generose offerte. Accanto alla Madonna sono venerati alcuni santi, ad esempio santa Rita da Cascia e sant’Antonio da Padova.
“Gesù è il Deverolo, il Divino: inconsciamente gli attribuiscono pre- rogative divine, senza però riconoscerlo come figlio di Dio” (Karpati, 1962, p.109). Il Vangelo è praticamente incompreso. Restano ancora vive alcune leggende che deformano la narrazione evangelica della nascita e della morte di Gesù. Da loro, la Sacra Scrittura è stata considerata un libro di magia. Hanno accolto dalla religione cristiana quegli elementi che rispondevano alla loro visione religiosa del mondo e della vita e che soddisfacevano insieme al bisogno di forti emozioni. Alla partecipazione entusiasta a determinate manifestazioni religiose segue una palese indifferenza per gli impegni della vita cristiana quotidiana.
2.3. La musica dei Rom
Nei villaggi e nelle corti.
Nell’Europa centrale ed orientale la musica zingara è, ancora oggi, apprezzata ed ascoltata. La fama dei suonatori zingari risale alla Persia dell’anno Mille (v. pag. 5). Poco dopo il loro arrivo in Europa, alla fine del ‘400, Zingari suonatori di liuto erano presenti alla corte d’Aragona. Nei decenni successivi, si segnalano presenze nelle corti di Boemia ed Ungheria e della Transilvania.
Nel ‘500, ci sono testimonianze di alcuni Zingari che suonavano per i signori turchi che allora occupavano gran parte dell’Ungheria. Altri suonavano nelle corti dei nobili ungheresi, che invece resistevano all’invasore. Suonavano alla maniera turca e sotto l’influenza dei magiari, suonavano la cetra ed il cimbalo.
Ovviamente, i suonatori apprendevano e rielaboravano elementi delle culture musicali con cui venivano a contatto: per cui, si possono rin- tracciare elementi arabi e tecniche di orchestrazione ed armonizzazione che invece sono tipicamente occidentali. Alla fine del XVI secolo, la tipica orchestra zingara era composta da due violini, un contrabbasso ed un cimbalo (uno strumento a corde percosso da due martelletti).
Nei secoli successivi, il ‘600 ed il ‘700, il successo e la fama dei suonatori zigani diventò enorme: richiesti nelle feste pubbliche ed in quelle private, nelle nozze di paese e nelle osterie, nei villaggi dei contadini e nei palazzi dei signori.
Nel 1751, il conte ungherese Francesco di Galantha accordò a cinque vassalli zingari il titolo di ‘musicisti di corte’, che valeva molti privilegi, a partire dall’esenzione dalle tasse e dalle corvèe. Barna Mihhàly, violinista del conte Emerich Csàky, ebbe fama duratura e fu soprannominato l’Orfeo ungherese. Il cimbalista Simon Banyak era molto apprezzato dall’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Le orchestre zingare attraversavano l’Europa centrale ed orientale, suonando nei villaggi o in occasioni ufficiali, come l’incoronazione di Presburgo del 1808, dove Maria Luisa divenne regina d’Ungheria.
Gli Zingari musicisti erano generalmente considerati migliori degli altri: nell’800 erano ritenuti i conservatori delle musiche nazionali, una sorta di memoria storica musicale: per esempio, nelle tradizione zingara rimane il canto di Rakòczi, una rievocazione della rivolta ungherese del 1702, contro gli Asburgo. Il canto fu in parte trasformato da Janos Bihari e divenne la Marcia di Rakòczi, l’inno nazionale ungherese.
Prosper Mérimée descrisse, durante il suo soggiorno a Pest del 1854, una festa con arie ungheresi suonate da Zingari: “[Fanno] perdere la testa alla gente del paese. Comincia con qualche cosa di molto lugubre e finisce con una gaiezza folle che conquista tutto l’uditorio, il quale batte i piedi, spacca i bicchieri e balla sulle tavole” (cit. in Vaux de Foletier, 1977, p.143).
I canti e i suoni.
“Des Bohemiens et leur musique en Hongrie” è il titolo del libro che Franz Liszt dedicò alla musica zingara: “l’Ungheria”, scrive Liszt “può dunque, a buon diritto reclamare come propria quell’arte, nutrita del suo grano e delle sue vigne, maturata alla sua ombra e al suo sole, acclamata dalla sua ammirazione, ornata, abellita, nobilitata grazie alla sua predilezione ed alla sua protezione, e così ben collegata con i suoi costumi che richiama i più intimi, i più dolci ricordi di ogni ungherese” (F. Liszt, 1859).
Il celebre musicista scrisse dell’interdizione che i musicisti gagì provarono ascoltando intervalli e modulazioni che venivano considerati come sbagli dall’armonia europea; più tardi, furono conquistati “dall’asprezza, dalla libertà e dalla ricchezza dei ritmi, dalla loro molteplicità e duttilità”.
Altri riconoscimenti vennero nel secondo Ottocento, quando celebri orchestre zingare giravano la Francia ed i paesi limitrofi, ottenendo un successo che provocò il moltiplicarsi di mediocri imitatori.
Intanto, le orchestre si arricchiscono di nuovi strumenti: il tamburino, la chitarra, il ‘naiu’ (flauto di Pan), la ‘cobza’ (un mandolino a nove corde); le voci accompagnano sempre più spesso le esecuzioni strumentali.
Nascono i cori zingari, specialmente in Ungheria ed in Russia: il marchese de Custin, in viaggio attraverso la Russia del 1839, raccontò del “canto selvaggio e appassionato” dei cori zingari di Mosca. Molte famiglie di cantori fanno fortuna ed entrano nell’alta società.
Nell’Italia meridionale, gli Zingari fabbricavano e suonavano lo ‘scacciapensieri’ (un cerchio di ferro con una lamina che vibra a contatto con i denti), che in Campania è ancora oggi chiamato ‘tromba degli Zingari’.
La musica zingara è stata apprezzata soprattutto nell’Europa orientale. Lentamente, però, si diffonde anche nella parte occidentale: tra i musicisti, Rameau inserì “L’Egiptienne” nelle ‘Nuove suites di pezzi per clavicembalo’; nel Carnevale di Venezia, Campra mise la “Canzone delle Zingare”; altri musicisti più noti si sono ispirati a temi zingari: Beethoven, Haydin, Shubert, Brahms. Si diceva che uno dei figli di Johann Sebastian Bach suonasse il violino con gli Zingari.
L’altro filone della musica zingara, quello gitano, è diventato univer- salmente noto solo in tempi relativamente recenti. Nel XIX secolo si impose il flamenco, fusione di musica andalusa e gitana, basato sul ‘cante jondo’ (canto profondo). I musicologi vi hanno individuato anche elementi orientali, arabi ed ebraici.
I ritmi e le melodie.
“Per la maggior parte dei casi” scrive ancora Franz Liszt, “i dilettanti europei, gli insegnanti di musica e soprattutto i maestri dei conservatori cominciarono a non capire nulla di codesto sistema, per il quale ci si immerge, con un tratto brusco, nel fluido immateriale che la musica sprigiona in tratto così intenso. Non tutti possono capacitarsi di come un uomo ragionevole possa passare senza preambolo alcuno da una tonalità di un sentimento, rappresentata in arte da una tonalità musicale, in quella che è la sua opposta; e che possa passare d’un tratto da una forma all’altra, con cui la prima non ha nesso, così come il Rom si getta da uno stato d’animo ad uno contrario, senza alcun perché, senza aspettare la lenta decrescenza del primo sentimento e la successiva formazione del nuovo” (F. Liszt, 1859).
Le parole di Liszt spiegano l’elemento essenziale della musica zigana: il ritmo, il passaggio fluido e libero attraverso tempi diversi; la linea melodica è delicata e si incrocia con perifrasi e arpeggi, scale furiose ed improvvisazioni. Tutto ispirato dal sentimento e dalla spontaneità, ma anche da una grande sapienza. L’orchestra è sempre affiatata, le forme musicali subiscono l’influenza dei vari paesi in cui gli Zingari soggiornano ma, nello stesso tempo, sono una rielaborazione originale; gli strumenti più usati sono il violino, la chitarra, il cembalo, l’arpa; e poi il clarino, gli ottoni, il violoncello ed il contrabbasso in Ungheria, le nacchere in Spagna, il tamburello in Turchia, il flauto in Russia e la zampogna in Gran Bretagna.
2.4. La donna e la famiglia
Il nucleo della società.
La famiglia è il nucleo fondamentale della vita dello Zingaro, tutta la sua esistenza si svolge dapprima nella famiglia di origine e poi in quella coniugale.
La famiglia non è solo importante per l’individuo, ma è anche un elemento essenziale per l’organizzazione sociale. Infatti, l’unità sociale fondamentale elementare non è la famiglia ristretta ai genitori e ai figli, ma la famiglia estesa: la Vica. Lo Zingaro dunque, non esiste al di fuori della famiglia; lo scapolo rimane nella propria famiglia; il vedovo e la vedova, secondo le circostanze, ritornano nella famiglia di origine o si inseriscono nella famiglia di un figlio o di un fratello. L’uomo è il capo della sua famiglia e rappresenta il legame tra la famiglia ed il gruppo. La donna appartiene alla Vica dell’uomo con il quale si sposa, nella quale va a vivere dopo il matrimonio. Il matrimonio non fonda la famiglia, è il figlio che fonda la famiglia. Solo dopo la nascita del primo figlio i coniugi possono costituire un nucleo indipendente.
La famiglia coniugale è il nodo fondamentale fra il gruppo parentale e la comunità: la kumpania. Il matrimonio rappresenta un momento di crisi nella vita dello Zingaro: la fase che precede il distacco dei coniugi dalle rispettive famiglie. Esso viene vissuto e ritualizzato in maniera diversa da gruppo a gruppo. Il rituale che prevede la verginità della ragazza, la presenza di testimoni e le varie formule pronunciate (in cui viene affermata l’indissolubilità del matrimonio) testimoniano il valore che gli Zingari attribuiscono a questo rito.
Il matrimonio viene stabilito dai genitori: il padre comunica al figlio l’intenzione di chiedere la mano di una ragazza per lui. Questa scelta appare al figlio come un dono. Già a partire dall’età di 14-15 anni, il giovane riceve una compagna e diventa un Rom, mentre prima non aveva alcuna importanza sociale. Il matrimonio tra i Rom può essere definito ‘matrimonio per acquisto’, in quanto il padre del ragazzo si reca presso la famiglia della ragazza per chiederle le mano, offrendo al padre di lei una somma di denaro. Il prezzo che viene pattuito tra le famiglie non è in realtà un prezzo d’acquisto, la sua funzione è più complessa: risarcimento al padre e ringraziamento per averla allevata bene, prova di possedere del denaro e quindi garanzia che la vita della ragazza nella futura famiglia non sarà dura, possibilità di un buon matrimonio, dato che parte della somma viene destinata per l’abbigliamento della sposa.
Presso i Sinti (ma anche in altri gruppi), il matrimonio viene deciso con la rilevante partecipazione dei futuri sposi: i genitori, infatti, tengono conto delle loro preferenze (in particolare, di quella maschile).
In caso di contrarietà delle famiglie, i due innamorati fuggono (una ‘tradizione’ diffusa anche nel meridione d’Italia) e poi ritornano insieme, ottenendo il perdono delle famiglie.
Secondo la tradizione, la prima notte di matrimonio una donna anziana controlla la verginità della ragazza mostrando agli invitati il lenzuolo o la sottana macchiati di sangue. Se viene verificato il contrario, ai festeggiamenti si sostituirà la lotta tra le due famiglie e la ragazza sarà considerata una prostituta e non potrà più sposarsi.
Il matrimonio è motivo di festeggiamenti che possono durare alcuni giorni ed è un evento che rafforza il legame parentale. Dopo il matri- monio, è importante per la donna essere feconda poiché ‘i figli sono la ricchezza e la potenza della famiglia’. La sterilità può essere motivo di scioglimento del matrimonio.
La sposa accolta nella casa del marito è inizialmente trattata come un’estranea dai suoceri. La vita al servizio della suocera è spesso dura; la sposa diviene serva della suocera e delle cognate più anziane, deve obbedire ai loro ordini. La coppia lascia l’abitazione del padre quando la sposa attende il primo figlio. Da questo momento il nuovo capo famiglia stabilisce la sua abitazione accanto a quella del padre.
Una serie di tabù circonda lo stato di gravidanza. Tutto ciò che riguarda il parto è impuro; la madre e il bimbo sono intoccabili: nessun uomo, nemmeno il padre, può accostarli. Secondo la tradizione, dalla nascita alla morte la donna è schiava del Rom. Da bambina obbedisce a suo padre, da donna a suo marito, da vecchia ai suoi figli. Ma con il passar del tempo e la nascita dei figli, il suo prestigio aumenta quando, a sua volta, può contare sulle nuore.
L’importanza delle donne nell’economia è grande, è la donna che veglia sull’educazione del figlio fino ai suoi 10 anni, e all’educazione della figlia, e quindi al suo onore.
Il ruolo della donna.
Fin da piccola, la donna riceve una educazione diversa da quella dell’uomo. Le bambine, dall’età di 6/7 anni, sono impegnate ad accudire i fratellini o altri bambini a cui sono legate da rapporti di parentela e svolgono altre attività domestiche, come lavare gli indumenti della famiglia, tener pulita la roulotte o la baracca, preparare il pranzo.
Quando non è impegnata in queste attività, comincia ad andare con le donne a fare il ‘manghel’. Fin da piccola deve servire l’uomo, sa che da adulta il suo ruolo sarà uguale a quello delle altre donne e non potrà intervenire in nessuna decisione importante senza il parere del marito. E’ considerato impuro tutto ciò che riguarda le funzioni genitali femminili: cicli mestruali, gravidanza, parto, puerperio. Durante i cicli mestruali è fatto divieto all’uomo di avvicinare la donna e avere rapporti sessuali con lei e lo stesso avviene per un periodo più o meno lungo durante la gravidanza.
Quando la donna è incinta, entra in uno stato considerato particolare, si dice che la donna è ‘naseli’ (malata), perciò cerca di nascondere la propria condizione e continua a condurre una vita normale, senza risparmiarsi le fatiche.
Solo le donne possono avvicinarla ed aiutarla. Tutto ciò che riguarda il parto è considerato impuro; la donna non può partorire nel proprio luogo di abitazione. Uno Zingaro che aiutasse una donna a partorire sarebbe soggetto a divenire impuro. L’impurità della madre si trasmette al bambino appena nato che, prima del battesimo, viene considerato ‘non un essere umano’, non può essere toccato nemmeno dal padre, il suo nome non può essere pronunciato, i suoi indumenti devono essere lavati a parte.
Questi tabù hanno un duplice obiettivo: sia quello di prevenire il contatto con un essere considerato impuro, sia quello di proteggere il bambino dalle forze superiori malvagie. E’ evidente, quindi, perché il rito cristiano del battesimo sia stato accolto dagli Zingari, in quanto è visto come rito che purifica. La nascita del figlio determina per la donna il punto di partenza di una quarantena. In questo periodo avviene una netta separazione dagli uomini: la Romni vive appartata usando oggetti personali, che alla fine di questo periodo verranno distrutti, deve mangiare da sola, non può toccare oggetti destinati al marito; altre donne preparano i pasti per il marito. Terminato il periodo di quarantena, la madre può riprendere la normale vita di gruppo. La donna anziana, per il fatto di aver superato (grazie alla menopausa) molti stati d’impurità, non contamina più gli uomini e per questo gode di maggiore libertà.
2.5. Il viaggio, lo spazio, il tempo
La concezione spazio-temporale.
Spazio e tempo sono i punti di riferimento attraverso i quali riconosciamo persone ed oggetti, oppure attribuiamo senso alle cose: se intervengono variazioni nel tempo, nello spazio o in entrambi, accade facilmente che la capacità di comprendere il mondo, gli oggetti e le persone venga meno, perché è stato alterato lo sfondo che ne permetteva la conoscibilità, sulla base di abitudini consolidate.
Questa definizione di spazio e di tempo è fondamentale per poter parlare del significato che queste due variabili hanno per i Rom e delle conseguenze che la loro concezione spazio-temporale ha avuto ed ha nella loro vita.
La concezione dello spazio corrisponde alla concezione dell’abitare: in questo senso i Rom sono e rimangono, almeno per vocazione, nomadi. Abitare vuol dire disporre di un doppio spazio: uno spazio esterno infinito, che offre luoghi aperti che i Rom utilizzano per un periodo limitato ed uno spazio interno, mobile, di dimensioni adatte per contenere il necessario alla vita quotidiana, che si può usare il giorno e la notte, e che offre un riparo in caso di maltempo.
“Che differenza c’è tra un Rom ed un gagè ? La stessa che corre tra l’orologio ed il tempo: il primo segna le ore, i minuti, i secondi, e tu non sai che dopo le sei vengono le sette; il secondo è il sole la pioggia, il vento e la neve e tu non sai mai quello che sarà” (A. R. Calabrò, 1992).
Nella loro vita nomade, i Rom hanno una concezione ed una organizzazione del tempo estranee al tempo dell’orologio. I loro ritmi di vita seguono i ritmi naturali delle stagioni e la loro economia è fondata sugli spostamenti da un luogo all’altro. Una concezione simile a quella dei Rom era tipica delle società preindustriali all’interno dell’economia contadina, una concezione arcaica, estranea alla moderna società, ove i ritmi dell’orologio sono imposti dalle esigenze della produzione.
Un Rom, non essendo vincolato ad alcun lavoro dipendente, non ha bisogno dell’orologio. Bastano il giorno e la notte a fissare i ritmi quotidiani, così come le stagioni stabiliscono il calendario delle attività economiche e degli spostamenti geografici.
Su questa concezione spazio-temporale si fondava l’organizzazione so- ciale dei Rom, prima dell’avvento della sedentarizzazione forzata.
Il nomadismo implica modi di vita, valori, orientamenti totalmente diversi da quelli dei paesi occidentali capitalisti, tanto che ne risultano due linguaggi tra loro incompatibili. Ciò non ha impedito la sopravvivenza dei Rom in termini di identità culturale, almeno finché sono stati nomadi e quindi solo parzialmente dipendenti dalle regole sociali proprie dei paesi attraversati, ma che comporta ben altre conseguenze quando l’interazione assume caratteri stabili.
Non più nomadi.
Fino a pochi decenni fa, l’economia capitalista in via di sviluppo consentiva ai Rom una propria autonoma sopravvivenza economica. L’at- tuale organizzazione ha invece chiuso tali fonti, modificando radical- mente la qualità e i metodi d’interazione tra la cultura Rom e quella dominante.
Con il boom economico, l’economia contadina viene spazzata via ed i nomadi sono costretti a raggiungere la periferia delle grandi città per cercarvi nuove risorse per sopravvivere. In breve tempo, i Rom si trasformano in rottamai e raccoglitori di rifiuti da riciclare e ciò, se da un lato consente loro di vivere, dall’altro li costringe alla parziale sedentarizzazione modificando del tutto i tratti della cultura nomade.
Le limitazioni imposte dalle autorità, inoltre, hanno accelerato tale processo che coincide con la nascita, nelle periferie delle grandi città, di campi stabili e (talvolta) autorizzati, anche se poco attrezzati, nei quali i Rom organizzano la vita di ogni giorno cercando di riprodurre le antiche abitudini e, insieme, costretti anche ad apprendere e rispettare una serie di norme imposte dall’esterno.
La sedentarizzazione è l’opposto del nomadismo: vuol dire adottare stili di vita contrari a quelli nomadi, costringe a modificare valori ed abitudini e ridefinire la propria organizzazione sociale ridisegnando i legami di reciproca solidarietà. Un processo così radicale di trasformazione comporta squilibri e contraddizioni.
Gli Zingari erano ritenuti tali perché non avevano casa, lavoro, né li chiedevano, vivevano di espedienti, erano socialmente pericolosi, si vestivano in modo strano e parlavano una lingua incomprensibile e soprattutto mostravano di non volere assolutamente rinunciare a queste loro caratteristiche.
Ma lo Zingaro era anche il ‘figlio del vento’, poeta, filosofo, ribelle a ogni tipo di regola, passionale, libero.
Attività lavorative, relazioni sociali, occupazioni familiari si sovrapponevano tra loro o si alternavano in base alle necessità con- tingenti. L’unità di misura del cambiamento, il tempo astratto, legava questo popolo indissolubilmente alla natura, ai suoi ritmi.
Questa concezione temporale è rispecchiata dall’importanza attribuita dai Rom al presente e dal loro disinteresse per il futuro, a cui è inutile pensare quando non si è artefici del proprio destino e la realtà dell’esistenza sembra ripetersi sempre uguale a sé stessa.
Il tempo è tempo presente, ciò che è accaduto in passato tornerà a ripetersi, è l’alternarsi del tempo sacro e del tempo profano, del tempo del lavoro e di quello della festa ed il calendario garantisce la periodicità, la ritualità dell’evento sacro che si ripete ciclicamente come elemento strutturante della stessa vita sociale.
Tempo dell’orologio.
Per i Rom, organizzare le proprie attività in base ad una rigida scansione temporale è stato un passo davvero molto difficile.
Le loro occupazioni, infatti, variavano a seconda delle circostanze, delle stagioni, dei luoghi dove il gruppo decideva di fermarsi: chiacchiere, ozio, lavori domestici, attività lavorative, potevano svolgersi contemporaneamente e avere una durata ogni volta diversa.
I Rom non hanno mai voluto subordinarsi ad esigenze di produttività e di efficienza, per loro il tempo non è mai stato scarso, ciò che contava era ciò che veniva fatto e non il tempo utilizzato per farlo, l’oggi, la sicurezza della ripetitività degli eventi, la certezza delle abitudini quotidiane.
Il processo di sedentarizzazione, parziale o totale, ha costretto dunque questo popolo ad una ‘disciplina temporale’. Il rapporto con le istituzioni comporta infatti la conoscenza e l’osservanza del calendario proprio a ciascuna istituzione, vivere in una città costringe ad imparare velocemente l’organizzazione dello spazio e del tempo proprio della cultura ospitante.
Tuttavia, questi rapporti non sono abbastanza stabili e continuativi da modificare il modo Rom di rappresentare e organizzare il tempo anche se lo sono abbastanza da creare loro problemi di adattamento difficili da superare.
I bambini faticano ad assoggettarsi agli orari scolastici, gli adulti sono riluttanti a svolgere lavori continuativi e non sanno progettare il futuro, rispetto al quale manifestano fatalismo; l’insofferenza verso le regole e la disciplina, la tendenza a non separare i tempi ed il luoghi della vita, sono esempi di incongruenze spazio-temporali.
Lo spazio chiuso.
Perché si dice che lo Zingaro è sporco, ladro, rifiuta il lavoro, non rispetta la legge ? Perché tali caratteri sono la volgarizzazione di alcuni aspetti che appartengono ad una cultura che fino a poco tempo fa è stata nomade.
Un popolo nomade non è abituato a pulire lo spazio che attraversa, sia perché non gli appartiene ma gli serve per prendere l’acqua, accendere il fuoco, trovare riparo; sia perché la stessa natura provvedeva a ripulire ciò che i nomadi lasciavano al loro passaggio.
I nomadi non pensavano al lavoro, così come è concepito oggi: avevano mestieri saltuari e non erano abituati a vendere per denaro la loro forza lavoro.
L’economia Rom era povera, fondata sul baratto; il piccolo furto e l’imbroglio erano spesso dettati dalla necessità e giustificati dal valore irrisorio attribuito in passato alla proprietà. La famiglia era l’unica istituzione sociale esistente e dava il senso stesso all’esistenza di ogni uomo.
La sedentarizzazione ha fatto perdere identità e funzionalità ad una organizzazione sociale di questo tipo: infatti, mentre i cambiamenti di tipo strutturale hanno avuto tempi di evoluzione accelerati, quelli culturali hanno tempo di sviluppo molto più lunghi ed i Rom, costretti ad abbandonare il nomadismo, non altrettanto rapidamente hanno cambiato quei caratteri della propria identità culturale che definiscono i modi di usare ed organizzare il tempo e lo spazio.
La struttura e la cultura di queste società non assolvono, dunque, il compito di reciproca corrispondenza e funzionalità e tale squilibrio favorisce fenomeni di disordine e disagio sociale, amplificati dalla scarsa disponibilità delle società ospitanti a favorire il processo di adattamento.
Il prezzo che i Rom hanno pagato è stato altissimo: “rimangono infatti doppiamente stranieri, sia nei confronti delle cultura di appartenenza, sia rispetto alla cultura dei paesi ospitanti, come l’Italia. Hanno perso la loro identità, senza avere le risorse necessarie per acquisirne un’altra, espulsi da una parte, emarginati dall’altra, con la loro organizzazione del tempo e dello spazio difficilmente negoziabili” (A.R. Calabrò, 1992).
2.6. L’organizzazione socio-economica
Premessa.
Le mutate condizioni socio-economiche hanno costretto i Rom a rinunciare ad uno dei caratteri che ne ha sempre definito l’identità, il nomadismo, adattandosi di malavoglia ad una condizione più o meno forzata di parziale o totale sedentarizzazione.
Questa nuova condizione li ha posti di fronte ad un confronto continuo con la cultura dominante, caratterizzata dal consumismo di una società a capitalismo avanzato; da questo scontro, in un certo senso la cultura Rom non può che uscirne sconfitta, o valutata negativamente, dato che i loro modelli culturali non sono più atti a fornire soluzioni valide per confrontarsi con le attuali esigenze della vita.
I Rom rimangono così relegati nell’ambito della marginalità, in un equilibrio instabile tra le due culture. E’ chiaro che l’organizzazione socio-economica si struttura intorno al concetto di viaggio (v. in precedenza), che è il tratto culturale dominante; ed in riferimento a ciò, possiamo affermare che la struttura sociale è fondata più sui legami familiari che sui ruoli sociali, fondati sul gruppo parentale.
La comunità.
Lo studio dell’organizzazione sociale Rom deve far riferimento alla ‘comunità intera’, non nel senso territoriale poiché non si fonda sul criterio dello spazio; ciò che è importante è il luogo in cui si collocano l’individuo e la sua famiglia, in un insieme che può essere: il gruppo, il sottogruppo, la Nacija e la Vica.
Il concetto di comunità avrà quindi tanti livelli quanti sono i sentimenti di appartenenza di un individuo alla comunità.
Il sentimento di appartenenza si colloca a livello dell’insieme dei Rom in opposizione ai non-Rom; al livello del gruppo (es.: i Rom) in opposizione ad altri gruppi (Kalè, Manus); al livello del sottogruppo (es.: Rom Kalderasa) in opposizione agli altri (Lovara, Churara), ed ancora a livello di Nacija e di Vica.
La Vica.
La Nacija è un gruppo ampio costituito da un certo numero di Vica rimaste sotto lo stesso nome, è una suddivisione dei sottogruppi etnici. Invece, la Vica è una unità sociale formata da un gruppo parentale, ma le diverse famiglie non vivono necessariamente insieme: non si fonda cioè sulla residenza comune, ma manifesta la propria identità o presenza in circostanze particolari, quali il matrimonio, le nascite, la morte, la vendetta,…
Possiamo quindi affermare che non esiste una organizzazione centrale, poiché i Rom hanno scelto la Vica solo come punto di riferimento del- l’individuo e dell’intera società.
Di conseguenza, l’unità sociale fondamentale elementare non è la fa- miglia ristretta ai genitori e figli ma la famiglia estesa: la Vica, appunto, che è il perno dell’organizzazione sociale: tra le famiglie allargate c’è una continua simbiosi, al loro interno si sviluppano i giochi di influenza, opposizione e cooperazione.
All’interno dell’organizzazione c’è un certo tipo di strutturazione, che si manifesta quando arrivano nuovi gruppi in un Paese in cui i Rom sono già presenti. Infatti, esiste tra loro il diritto del primo occupante. I nuovi arrivati si trovano in posizione di subordinazione e devono sottostare alle condizioni impostagli dai primi arrivati (divisione della città in zone di lavoro, versamento di una somma compensatrice, una sorta di locazione del territorio).
La Kumpania.
Un’altra unità sociale dell’organizzazione Rom è la Kumpania, che opera nella vita quotidiana e risponde ad esigenze economiche. La sua formazione è legata a motivi di ordine economico di un dato ambiente so- ciale, prevalentemente urbano, dove le singole famiglie convivono per lo svolgimento delle proprie attività, caratterizzate da una forte solidarietà tra i diversi nuclei familiari, che si manifesta concretamente con la condivisione, in caso di necessità, di guadagni ed eventuali perdite o danni.
All’interno della Kumpania non esistono gerarchie; i suoi membri, per la loro rappresentanza all’esterno, eleggono uno di loro, che viene scelto per alcune qualità personali, quali la saggezza, l’esperienza, l’abilità a trattare con i gagè, l’equilibrio.
Questa carica, essendo fondata sulle qualità dell’eletto, non è ereditaria, e il ‘rappresentante’ può essere rimosso dall’incarico qualora si ritenga che non sia più in grado di svolgere tale compito.
Inoltre, si è sempre sentito parlare di re e regine tra i Rom, ma è solo una leggenda, un espediente per ingannare o per attrarre l’attenzione dei gagè qualora ve ne fosse la necessità.
La Kris.
La Kris è una sorta di tribunale composto da un certo numero di anziani, quasi esclusivamente uomini, che in virtù della saggezza acquisita con l’esperienza, assolvono il compito di amministrare la giustizia. La Kris viene convocata ogni qual volta sorgono dei contrasti all’interno della comunità, per risolvere ed emettere delle vere e proprie sentenze su specifici contrasti insorti, secondo un codice normativo che non ha alcun tipo di formalizzazione se non quello dato dalla tradizione. Ed è in essa che emerge in modo netto l’aspetto politico, che è unito all’organizzazione sociale.
L’attività economica.
Per chiarezza d’esposizione e per facilitare la comprensione abbiamo pensato di suddividere l’analisi dell’attività economica in due periodi diversi tra loro, poiché le mutate condizioni sociali, politiche ed economiche hanno del tutto stravolto e differenziato l’economia e l’organizzazione Rom.
Il primo periodo arriva fino alla fine degli anni ’50: è caratterizzato da una evoluzione e da una trasformazione molto lenta delle attività dei Rom, che sviluppano abilità e forniscono prodotti che trovano una collocazione economica in una società rurale.
Gli antichi mestieri sono: giostrai, venditori ambulanti, maniscalchi, arrotini, stagnini, allevatori di animali da tiro, questua e chiromanzia. Contemporaneamente, i Rom svolgono una funzione di collegamento tra i paesi che attraversano, portando notizie e quindi svolgendo servizi importanti in una società contadina e prevalentemente analfabeta.
Il lavoro è strettamente legato a precisi impegni o ricorrenze quali le fiere, i mercati, l’inizio dei lavori agricoli, le feste. In questo contesto, i rapporti con la società gagè sono buoni, fino alla realizzazione, in alcuni casi, di processi di simbiosi, cioè un normale scambio di beni e servizi. Molti dei nomi dei sottogruppi Rom si riferiscono a mestieri ben precisi (es.: Kalderasa: calderai; Lovara: allevatori di cavalli). Solitamente, ogni gruppo Rom è specializzato in un certo tipo di lavoro, ma il singolo Rom è dotato di una certa polivalenza nelle attività, secondo il luogo, il momento, le occasioni.
Per quello che riguarda il secondo periodo, che va dagli anni ’60 ad oggi, possiamo affermare che l’industrializzazione ha provocato profondi mutamenti strutturali nel contesto socio-economico, mettendo in crisi l’economia Rom, a cui ha chiuso quasi tutti gli sbocchi.
Negli anni del boom economico, i Rom sono costretti ad abbandonare il nomadismo, quindi alla sedentarizzazione: si stanziano nelle periferie urbane, in difficili condizioni economiche e sociali: si improvvisano rottamai, raccoglitori di carta, ecc.: gli antichi mestieri non garantiscono più la sopravvivenza.
I Rom, in quanto nomadi, abituati ad un uso dello spazio abitativo e ad una organizzazione del tempo di lavoro molto diversi dalla società in cui si trovano, non riescono o non vogliono adattarsi o trovare alternative valide. Nella nuova condizione di sedentari, “non possono essere più nomadi, [ma] continuano a vivere come se lo fossero, continuano cioè ad avere un patrimonio culturale ed un’organizzazione sociale che poco o nulla hanno a che fare con la nuova condizione di sedentari. Continuano ad avere una concezione del tempo e dello spazio che non è più funzionale alle nuove condizioni di vita e che in futuro lo sarà sempre meno” (A. R. Calabrò, 1992).
Per il Rom, il lavoro è qualsiasi attività lecita che permette di ottenere dei guadagni. Il lavoro non è mai un fine e deve sempre permettere al Rom di mantenere le relazioni sociali, deve cioè lasciare l’uomo libero di gestire il suo tempo. Di conseguenza, è un fenomeno solo recente e raro il rapporto di lavoro dipendente o l’esistenza di società tra i Rom stessi.
Oggi, il lavoro dei Rom è costituito dal piccolo artigianato, che permette loro una certa flessibilità, cioè la possibilità di abbandonare e riprendere l’attività, secondo le opportunità.
La produzione in serie, le norme, le tasse non consentono loro attività convenienti. Da qui il fallimento economico, che ha creato la dipendenza dall’assistenza sociale e lo stravolgimento dei ruoli all’interno del nucleo familiare, dove la donna ed i bambini hanno spesso il compito di mantenere la famiglia con la questua, mentre l’uomo perde la sua dignità e il suo ruolo dominante; e spesso finisce per passare i suoi giorni al campo ad oziare ed a bere.
Al furto ed alla questua viene data una spiegazione ed interpretazione storico-culturale dall’etnologo belga Luc de Heusch, secondo cui “i Rom non hanno mai dimenticato la tecnica paleolitica della raccolta. (…) L’ambito della raccolta, prima limitata ai prodotti agricoli, si è ampliato, comprendendo anche i prodotti dell’attività della industriale della società ospitante, sia beni naturali che beni culturali. L’ampliamento dei beni di raccolta è costituito soprattutto dal furto e dal manghel (questua), là dove la società ospitata è considerata come selvaggina che viene cacciata nella foresta.” (L. De Heusch, 1965)
Il manghel.
E’ un’attività di raccolta (oggi, di denaro) tipicamente femminile e infantile, basato sul rapporto pena-commiserazione. I Rom, specie le donne, imparano fin da piccoli a cogliere la psicologia del passante e, contrariamente a quanto si possa pensare, questa attività richiede capacità, intelligenza, intuizione. Infatti, il manghel è un’attività che viene esercitata mediante il rapporto diretto. Essa si tramanda dalla madre alla figlia.
Molti Rom giustificano la questua con la tradizione, sostenendo che fa parte della propria cultura. Inoltre, rende più dei lavori potenzialmente accessibili ai Rom. Gli uomini, non praticano tale attività, se non da bambini, e si limitano ad accompagnare le loro mogli ed i figli sul luogo di lavoro.
Il furto.
Alcuni studiosi ne danno una spiegazione di ordine religioso. Il furto viene giustificato in quanto volontà di Dio. Altri danno interpretazioni di ordine psicologico: il furto nei confronti dei gagè è un elemento di prestigio di fronte agli altri Rom, è una sfida al mondo dei gagè. Altri ancora sostengono che i Rom rubano per necessità. Dobbiamo innanzitutto precisare che non tutti i Rom rubano e non possiamo conoscere la percentuale di coloro che sono dediti al furto. Ma il problema va affrontato in un’ottica diversa, che ci consenta di capire perché un numero consistente (soprattutto di giovani) è attratto dalle attività illegali, con conseguente adesione a subculture devianti. “Laddove vecchia e nuova cultura non sono in grado di offrire, soprattutto ai più giovani, modelli di comportamento praticabili, si crea un terreno fertile a subculture che premiano il modello deviante piuttosto che quello conformista. I Rom vivono in quelle zone sociali della città, i campi situati in zone degradate, dove c’è disorganizzazione normativa, dove la commistione tra la cultura di appartenenza e quella di riferimento (e cioè una certa cultura del consumismo) crea disorien- tamento e indebolisce il ruolo socializzante della famiglia. I Rom sono esposti, attraverso i mass media, ad una cultura del consumo che è nuova rispetto alla propria tradizione culturale. La discrepanza tra mezzi e fini è lacerante ed evidente.
Non solo i mezzi consentiti, nello specifico il denaro ottenuto con il lavoro sono di difficile accesso ma occorre anche tenere conto della resistenza di chi non è stato socializzato all’etica del lavoro. Anche i fini ne risultano distorti. Alcuni Rom, soprattutto i più giovani, non considerano il lavoro un mezzo per ottenere in primo luogo identità e prestigio sociale, piuttosto un mezzo per ottenere denaro e poter accedere a beni di consumo che sono quelli, sì, che danno identità e prestigio.” (A.R. Calabrò, 1992).
2.6. I valori.
Il Paciv.
Ogni popolo è caratterizzato da valori, credenze, costumi, tradizioni, attraverso cui il soggetto si forma, si educa ed orienta la sua esistenza. Lo studio delle tradizioni degli Zingari appare ricco di suggestioni, per cui è possibile comprendere abitudini e valori che li separano dall’esterno e alimentano all’interno l’identità collettiva.
I Rom chiamano Paciv il rispetto: è un dono ed è il massimo valore in cui credono. Etimologicamente, Paciv deriva da Patsha, che contem- poraneamente significa rispetto e dono. Rappresenta l’occasione in cui i valori e i principi zigani trovano una denominazione comune. L’atmosfera è piena di gioia che si esplica nella comunicazione, che esprime una forte coesione del gruppo.
‘Paciv tuke’: onore a te, è la formula rituale con cui inizia il Paciv. “Ora bevo anche ad onore di tutti i Rom che sono qui”: tale formula rituale viene espressa quando un Rom desidera manifestare un sentimento di stima per un altro Rom o vuole ringraziarlo per un aiuto ricevuto. Il senso di gioia e comunione trovano la più alta espressione anche nelle feste ricorrenti: Natale, Capodanno, la festa del Santo patrono. Per i Rom, il Natale coincide con l’Epifania cattolica ed è chiamato Busicci, mentre Novagodina corrisponde al Capodanno. Il Giugervdan è invece la festa del Santo patrono. Si svolge con danze e canti: i banchetti sono ricchi di vino e fiori: dura due o tre giorni e si svolge a partire dal 5 maggio. Ogni famiglia porta un agnello ed all’ingresso delle porte vengono appesi dei rametti fioriti.
La sera che precede la festa, ogni famiglia mette in comune l’agnello cotto, al collo del quale vengono messe monete d’oro appartenenti al capo famiglia. Due candele sono fissate ed accese sul capo dell’agnello che, circondato da fumo d’incenso, viene colpito con un sacco contenente denaro. Poi le candele vengono spente ed il capo famiglia dice alcune preghiere. Sacrificato l’agnello, il sangue viene versato in acqua corrente con l’invocazione: “possa il denaro colare come l’oro”.
Riti funebri.
Dopo un decesso, le donne manifestano il loro strazio con grandi pianti e mettono al defunto i suoi vestiti migliori. Il funerale è molto fastoso. Nella tomba vengono posti gli oggetti più cari e più usati dal defunto. La tomba viene ricoperta di fiori.
Presso i Rom, la veglia funebre è illuminata da un gran numero di candele; i Sinti, invece, accendono un falò che dura una notte intera.
Alla veglia funebre partecipano tutti gli uomini, bevendo, fumano, raccontando vecchie storie. I Sinti, dopo il funerale, bruciano il car- rozzone o le tende in cui era vissuto il defunto, e distruggono anche gli oggetti avuti in dono dal morto. Il luogo dove è avvenuto il decesso viene evitato: nessuno della famiglia vi si accamperà più. Questo è anche uno dei motivi per cui gli Zingari hanno difficoltà ad abitare nelle case.
Il lutto consiste in una serie di privazioni e manifestazioni di astensione da cibi ed attività ricreative. Nei primi giorni non ci si lava e gli uomini non si radono, mentre le donne non portano i gioielli consueti. Evitano di ripetere il nome del morto; in alcuni gruppi, cambiano nome ai familiari che portano lo stesso nome del defunto.
Il culto dei morti.
Gli Zingari frequentano con molta pietà il cimitero. Il giorno dei morti è un giorno di pellegrinaggio alle tombe dei propri cari. La notte precedente, i Sinti ed i Gitani usano accendere tanti ceri quanti sono i defunti da commemorare.
Presso i Rom, c’è un’altra serie di pratiche rituali. Alla conclusione delle sesta settimana, la famiglia offre il the ed una fanciulla, sopra un asse, mette una brocca d’acqua, un bicchiere ed una candela accesa. A tale uso è collegata la credenza secondo cui l’anima del morto continua a permanere nei pressi del proprio corpo per sei settimane, per cui tale rito lo libera dai legami con la terra. Ma il rito più solenne si ha un anno dopo la morte: è un banchetto sacro, la Pomana (ricordo). La prima Pomana avviene al ritorno del funerale: a capotavola viene lasciato un piatto vuoto e nel piatto viene messo ciò che piaceva al defunto. La grande Pomana è l’ultimo banchetto funebre: il morto dovrà essere dimenticato e non potrà essere più pronunciato il suo nome, per evitare il suo ritorno sotto forma di “Mulo” (spirito che molesta i vivi).
Durante il banchetto funebre, una persona della stessa età del defunto prende il posto del morto; sul tavolo vengono accese tante candele, quanti erano gli anni del defunto. Si crede che tutto ciò che viene mangiato e bevuto andrà a vantaggio del morto: in tale occasione, vengono ricordati episodi riguardanti la vita del defunto.
Gli Zigani pregano i morti, chiedendo loro protezione ed aiuto.
La vita ultraterrena.
I Rom vedono l’al di là come un luogo in cui i defunti possono accamparsi in pace e in serenità, in cui ritrovano i parenti e gli amici, dove usano gli oggetti cari, quelli che sono stati messi nella loro tomba o bruciati al momento del loro funerale.
Gli Zingari credono alla vicinanza degli spiriti dei defunti, per cui cercano di accattivarsi la loro benevolenza con riti propiziatori e temono di offenderli, provocando la loro vendetta.
Gli spiriti dei morti, denominati Mulè, possono essere benevoli o malevoli. I primi vengono implorati per ottenere protezione, gli altri invece sono visti come ‘vampiri’ che ritornano ogni notte a molestare i viventi.
In alcune leggende zigane, il vampiro non è un morto, bensì un essere umano, più propriamente un bimbo che si trasforma in un essere mostruoso e divora gli uomini. Per i Sinti, il Mulo è invisibile e talvolta si rivela in forma sensibile: un bambino, un cane. Per liberarsene, occorre fare il segno della croce e recitare una preghiera. Se l’incontro con il Mulo avviene per strada e non si riesce a liberarsi da questa presenza, bisogna togliersi la giacca ed infilarla alla rovescia.
Spesso, gli Zingari sono fatalisti: c’è una forza ineluttabile che governa dall’esterno e che guida la condotta umana.
c a p i t o l o 3. Conclusioni
In questo ultimo capitolo riassumiamo le impressioni, i problemi-chiave, i confronti che la nostra esperienza ci ha suggerito.
La sfiducia.
‘Con i gagè non si è mai risolto niente concretamente. Anche i preti che sono venuti, hanno preso i bambini per portarli a scuola solo per farli disprezzare dagli altri. Per fortuna i miei figli a scuola vengono trattati bene, altrimenti farei la guerra, perché non è giusto che un bambino Sinto venga messo in un angolo e deriso da tutti. Cosa hanno meno degli altri bambini ? Il gagio si sente superiore, ma io, quando mi trovo di fronte ad uno che si da delle arie, me ne dò di più. Una volta sono entrata in un negozio, chissà che cosa mi credevo di essere – quando ci penso mi viene da ridere pure a me – però sono entrata a testa alta. Se tu ti senti come una poveretta chiedendo le cose per pietà, lamentandoti e dicendo “per piacere, per piacere, ho tanti figli” e così via, nessuno ti considera; se invece vai con coraggio, facendo vedere che non hai paura di niente, ti staranno a sentire’ (cit. in M. Karpati, 1983).
La testimonianza di una donna Sinta (residente a Roma) offre uno spac- cato dei rapporti tra Zigani e gagè: è una ennesima conferma del- l’elemento che caratterizza i rapporti tra Zingari e gagè: la quasi assoluta mancanza di fiducia.
I motivi sono noti: per i gagè, gli Zingari sono misteriosi, vestono in maniera strana, conducono una vita particolare, chiedono l’elemosina e hanno la fama di ladri: sono tutti elementi ritenuti deteriori dalla società contemporanea.
Gli Zingari hanno vissuto secoli di persecuzioni; sono stati vittime dell’Olocausto; agli inizi degli anni ’90 sono tornati ad essere bersaglio dei movimenti neonazisti europei (in Germania, Austria, Italia); vengono comunemente disprezzati e suscitano repulsione, che essi avvertono chiaramente; i mass media li criminalizzano sistematicamente. E’ certo che, se si mettono da un lato le motivazioni degli Zigani (persecuzioni, disprezzo, stermini) e dall’altro quelle dei gagè (diffidenza, piccoli furti subìti), sono le prime ad apparire più fondate. Tuttavia, occorre necessariamente creare un clima di fiducia se si vuole il superamento delle diffidenze reciproche: la fiducia si costruisce, con fatti e comportamenti concreti. Sono oggi tanti gli esempi (volontariato, associazioni) di strutture in cui Rom e gagè si sono incontrati e si sono fidati gli uni degli altri. Anche la nostra stessa esperienza, acquisita durante la realizzazione del video, ci ha mostrato chiaramente l’importanza di un rapporto di fiducia (non strumentale), precondizione per un qualsiasi interscambio tra persone più vicine di quanto comunemente si creda.
La catastrofe della sedentarizzazione.
Nelle scienze sociali, la catastrofe è un evento che comporta il passaggio improvviso da uno stadio ad un altro. Per i popoli nomadi, la sedentarizzazione è stato, in questo senso, un evento catastrofico: ha comportato infatti il passaggio da un modo di vivere ad uno com- pletamente diverso.
Un evento catastrofico mette una società di fronte ad una situazione difficile: trovare le risorse per adeguarsi alla nuova situazione oppure scomparire (in varie forme: essere inglobati nella società dominante, assimilazione alle fasce marginalizzate della popolazione, o semplice scomparsa fisica).
Si può definire il nomadismo la caratteristica essenziale degli Zingari, che altrimenti potrebbero essere associati ad una delle tante minoranze etniche presenti nel mondo. Ma gli Zingari sono sempre stati qualcosa di diverso da una minoranza etnica, appunto perché nomadi. Il nomadismo si può praticare a vari livelli (brevi ma continui spostamenti in un’area delimitata, oppure viaggio perpetuo senza una particolare meta).
Col passare del tempo gli Zingari sono diventati sempre meno nomadi: a partire dal Seicento si rafforzano gli Stati nazionali, che esigono il controllo sui circolanti nel territorio: nascono le ‘Workhouses’, le ‘Zuchthauser’, le ‘Maison de force’, dove vagabondi, poveri, ‘pazzi’, orfani vengono rinchiusi ed obbligati al lavoro forzato.
Lo Stato, assecondando tendenze socio-economiche in atto, iniziava a costruire l’omologazione ed un più rigido controllo sociale. Si arriva così alla situazione attuale, fatta di passaporti, carte d’identità, frontiere, permessi di soggiorno. Raramente gli Zingari si trovano in una situazione di piena regolarità. E gli organi politici sembrano voler dare assistenza agli Zingari in cambio del loro controllo: spesso, si chiede agli Zingari, ospitati nei campi attrezzati dagli Enti locali, di non cambiare residenza, pena il decadimento dei diritti appena acquisiti. Gli Zingari (ed in genere coloro che si spostano da un luogo all’altro senza controllo) sono, per una vasta serie di ragioni, visti come una grave minaccia, come un potenziale
pericolo.
Insomma, nonostante il potenziamento dei mezzi di comunicazione, oggi è impossibile condurre una vita nomade. Restano pochissimi spazi resi- duali, caratterizzati da enormi difficoltà: i Sinti giostrai piemontesi, per esempio, continuano a spostarsi conducendo la loro attività, ma sono bloccati da asfissianti pratiche burocratiche (permessi, licenze…). C’è un grande processo storico plurisecolare dietro la fine del nomadismo: e c’è, appunto, un evento catastrofico per la società Rom.
‘Reverse scenery’.
Per capire la portata di questo evento è estremamente utile ribaltare i termini della questione: proviamo ad immaginare cosa succederebbe alla nostra società se un processo storico la costringesse al nomadismo:
- dovremmo cambiare i nostri concetti di spazio e di tempo: non piùlo spazio abitativo, fermo, con l’abitazione come punto di riferimento fisso ed il viaggio come “andare al di fuori” dallo spazio fisso, con la prospettiva del ritorno. Ed il tempo, non più come scansione degli orari della città ma determinato in base ai tempi di percorrenza ed alle esigenze della vita nomade: dal tempo dell’orologio al tempo con limiti evanescenti ed elastici.
- dovremmo trovare nuove risorse peradattarci alla nuova situazione: risorse culturali, per pensare in modo adeguato alla nuova situazione; risorse economiche, per sopravvivere ad una realtà che ha reso inservibile la nostra vecchia organizzazione economica; quasi tutti i modi occupazionali (uffici, fabbriche, negozi) che erano possibili con la sedentarizzazione, sono diventati incompatibili col nomadismo: solo poche forme economiche (che prima erano marginali) sono ancora possibili, occorre trovarne altre, per l’acquisizione dei beni indispensabili per la sopravvivenza.
In queste condizioni, è facile immaginare quale profonda crisi ci colpirebbe; saremmo capaci di adattarci, magari nel biasimo generale di chi ci vede come diversi, pericolosi, misteriosi ? Di chi considera i nostri modi di vivere, di vestire, di parlare, di procurarci da vivere come deteriori ? E’ estremamente probabile una risposta negativa: per cui, se la nostra società fosse condannata al nomadismo come la società Zingara è stata condannata alla sedentarizzazione, noi ci troveremmo in una situazione simile a quella dei Rom: sconfitti dalla storia, esponenti di una società in piena crisi.
Si può osservare (rispetto a questo tipo di analisi) che un evento catastrofico, per essere tale, deve essere improvviso, mentre i processi di sedentarizzazione risalgono a molto tempo fa. Questo è vero, ma occorre dire che solo oggi si ha una sedentarizzazione pressoché totale, per le difficoltà legislative sempre più numerose. Oggi si è arrivati alla paradossale situazione di una Europa fortezza del benessere, difesa dagli eserciti, i cui cittadini possono circolare liberamente. Per gli altri, gli “extra-comunitari”, la libera circolazione è impossibile. Per gli Zingari la situazione è ugualmente difficile, per cui essi stessi tendono a sedentarizzarsi.
In alcune realtà, si progettano campi-ghetto dove far risiedere i Rom: per tornare all’esempio precedente, sarebbe come se costringessero noi al nomadismo perenne, senza possibilità di soste. La sedentarizzazione è stato un processo costante e graduale, proveniente dall’esterno rispetto alla società zingara, con esiti catastrofici. Il fatto che il processo sia stato graduale e diluito nel tempo ha permesso la sopravvivenza della società Rom.
Il fatto che i Rom slavi siano sedentarizzati anche in Jugoslavia, non cambia i termini del discorso: la sedentarizzazione-catastrofe era già in atto, perché quella società era in profonda crisi anche nei Balcani.
‘Culture clash’.
Una televisione in ogni roulotte. Circa quattro ore quotidiane di visione: quattro ore di assorbimento di modelli antitetici alla cultura di origine, la proposizione-imposizione di modelli diversi da sé ed irraggiungibili.
Le strutture socio-economiche della società gagì e di quella zingara sono incompatibili: l’economia zingara è stata espulsa dal sistema (v. par. 2.7), la sedentarizzazione ha messo contemporaneamente in crisi le stesse coordinate spazio-temporali della società Rom.
In più, c’è la televisione: nell’ambito dello scontro tra i due sistemi, si colloca anche lo scontro culturale: in questo, la cultura zingara appare perdente anche agli stessi Rom, sottoposti alla proposizione televisiva di modelli occidentali, altri rispetto ai propri.
Ecco quindi profilarsi uno scontro tra i giovani (desiderosi di vestirsi come i ragazzi della tv, attratti dal calcio e dalle sue stelle, vogliosi di consumi troppo spesso irraggiungibili) ed adulti, divisi tra ciò che hanno imparato dai genitori ed i modelli televisivi di cui essi stessi subiscono il fascino.
Girando per il campo, è possibile vedere ragazzi che si vestono, parlano e si atteggiano come i ragazzi messinesi, i quali a loro volta somigliano a quelli di tante altre città. Un ragazzo Rom, il giorno del Giugervdan, indossava occhiali a specchio e scarpe dal tennis fosforescenti, come un giovane di New York. In quel giorno di festa, i Rom indossano il loro abito migliore: è significativo che gli abiti indossati fossero quasi tutti di foggia occidentale.
Tra l’altro, tra le donne occidentali vanno attualmente di moda abiti di foggia zigana: è curioso vedere due culture che si affascinano e si disprezzano a vicenda.
I ragazzi (e non solo loro) seguono le vicende del calcio, alcuni giocano all’oratorio Savio, conoscono i nomi dei campioni (strapagati) delle squadre italiane e si stupiscono se tu non tifi per nessuna squadra.
I programmi più visti sono quelli generalmente considerati peggiori: programmi “d’intrattenimento”, telefilm, telenovelas: in pratica il peggio che la tv-spazzatura sforna.
La pressione televisiva porterà sempre più Rom a vestirsi come gli occidentali, a pensare come i personaggi della tv, a desiderare la macchina e tutti i prodotti della società dei consumi, senza che abbiano a disposizione le risorse adeguate per ottenerli.
Il che potrebbe spingere molti nelle attività illegali, per ottenere i beni di consumo che, più che ‘l’essere Rom’, si avviano a diventare elementi costitutivi di una nuova identità.
Nelle roulotte è possibile vedere, oltre che ritratti di carattere religioso, le nuove icone del consumismo: gli adesivi con i marchi di alcune note aziende.
La televisione può rivelarsi, alla fine, più pericolosa della stessa sedentarizzazione, cancellando le basi di una identità un tempo forte e definita: potrebbe riuscire dove le ‘heidenjiachten’, i nazisti e gli altri sterminatori hanno fallito: la distruzione dell’identità Rom.
Il consumismo, lo ricordava Pasolini, sarà la peste di fine secolo. Pensare che le sirene televisive catturino solo i Rom è del tutto sbagliato: si tratta di un grande fenomeno mondiale di portata storica. E’ bene chiarire che il consumismo ha un grande ruolo anche nelle società a capitalismo avanzato, ma ha un diverso impatto rispetto ai Pvs (Paesi “in via di sviluppo”): intanto, le società del Nord del pianeta sono costitutivamente consumiste e si possono permettere di esserlo, almeno fino ad ora: per esempio, un tedesco bombardato ed affascinato dalla pubblicità di un’automobile può soddisfare il suo desiderio (indotto o meno che sia) in maniera più o meno facile; un’albanese (o un brasiliano o un nigeriano) non può farlo: è costretto a sognare ad oltranza, si lega all’oggetto del suo desiderio, finisce per non potervi più rinunciare, ne fa un feticcio.
Il risultato è che oggi un europeo ha più facilità ad abbandonare l’automobile (o a non guardare più la tv, o a consumare meno), mentre gli abitanti del Terzo mondo tendono a legarsi agli oggetti del consumo che riescono a raggiungere.
L’impatto del mercato mondiale con le varie realtà del pianeta è in genere traumatico: produce l’estraneazione a sé stessi degli abitanti di un qualsiasi paese povero, che vede distrutta la propria cultura senza poter aderire a quella occidentale, di cui subisce il fascino (trasmesso, appunto, via etere), ma a cui non può aderire proprio perché troppo povero. Diventa doppiamente straniero: rispetto alla cultura d’origine ripudiata, rispetto alla ‘cultura dei consumi’ che tra l’altro recepisce nelle forme peggiori: in alcuni paesi dell’America latina il feticismo delle merci è arrivato ad un livello tale per cui, specie nelle fasce più povere della popolazione, molti genitori danno ai propri figli nomi come “Toyota” o “Coca Cola”.
Questo discorso vale per quasi tutti i paesi terzomondiali, per l’Europa dell’est (con qualche eccezione) e per la società Rom.
Per capire i Rom slavi, più che alla società zingara è forse utile riferirsi all’Albania.
Si tratta di un paese poverissimo (550 dollari l’anno di reddito medio pro-capite). In quasi tutte le case c’è la televisione, molti hanno (circa la metà delle famiglie) l’antenna parabolica: nelle strade di Tirana si vedono case in condizioni disastrose ai cui balconi sono appese le parabole per la ricezione via satellite (anche questo è un fenomeno mondiale, in atto soprattutto nel mondo arabo).
Molte famiglie vedono i programmi Rai, Fininvest e Bbc. Dopo la tv, è l’automobile il sogno degli albanesi: così è nato il più grande mercato mondiale di auto rubate (solo in minima parte a beneficio degli albanesi).
La colpevolizzazione dei poveri, che ciclicamente si presenta nella storia, porterà certamente a biasimare gli albanesi: in realtà, c’è una conseguenza logica precisa: i media propongono modelli di consumo e disegnano l’occidente (nello specifico l’Italia) come un paradiso dove tutti/e sono bellissimi/e e si vincono milioni con una telefonata in diretta; le pubblicità delle automobili scorrono in continuazione: perché stupirsi se poi c’è chi cerca di soddisfare i propri desideri, indotti con tanta costanza ?
Oggi l’Albania è il caso più evidente di ‘telecolonizzazione’. A Tirana si può trovare il ‘caffè Juventus’, coi camerieri in maglia bianco-nera; il ‘bar Berlusconi’, prodotto del mito dell’arricchimento facile.
E l’Italia non è il paese innocente che guarda un paese impoveritosi per colpe proprie: basta ricordare la tessere onoraria del Psi al dittatore Hoxa, le traversine tossiche regalate agli albanesi dalle ferrovie italiane (l’ennesimo caso di mala-cooperazione), il traffico di clandestini a beneficio (tra gli altri) della Sacra corona unita pugliese.
Il terzo mondo è attualmente condannato a sognare ciò che probabilmente non avrà mai: e chi va a cercarlo nel paradiso dei consumi troverà soldati coi fucili pronti a fermarli.
L’impatto televisvo.
E’ indispensabile, per capire la trasformazione della società Rom, riferirsi a quello che è un fenomeno di dimensioni mondiali: l’impatto della rappresentazione televisiva della società dei consumi nei Pvs. E’ un impatto che provoca effetti analoghi (anche se non identici) nella società tunisina, in quella albanese ed in quella Rom.
Tra l’altro, i Khorakhanè provengono da zone vicine all’Albania ed è quindi estremamente probabile che abbiano subìto la stessa fascinazione descritta in precedenza: d’altronde, il flusso migratorio dei Rom slavi avviene da 20 anni per la ricerca di condizioni migliori, non per i tra- dizionali motivi che spingevano i nomadi al viaggio.
I Rom di oggi sono altro rispetto a quelli del passato: due volte stranieri, rispetto alla cultura di appartenenza (che ormai tende ad apparire perdente anche a loro) e rispetto a quella consumistica, da cui sono distanti sia per le remore della tradizione (refrattaria all’idea di ricchezza come accumulazione) sia per ostacoli oggettivi, come l’insufficienza delle risorse per un’adesione effettiva.
Vedere da un lato persone belle, ricche e felici (in virtù dei consumi), e dall’altro il campo nomadi caratterizzato da emarginazione, povertà, infimo livello di consumi produrrà sempre più la vittoria del modello televisivo (occidentale, capitalistico) sulla cultura Rom: il ‘culture clash’, stando così le cose, sembra avere un chiaro vincitore. Probabilmente, sentiremo sempre meno le orgogliose affermazione fatte in passato dagli Zingari (“Rom sim”, sono un Rom). Più che dalla sedentarizzazione, mille anni di storia degli Zingari stanno forse per essere cancellati da una scatoletta magica, capace di creare la realtà e di sedurre chi la guarda.
Alienazione feticismo destrutturazione.
Sono le tre parole-chiave per capire ciò che sta succedendo alla società Rom, diventata ormai altro da sé (rispetto a ciò che era in passato), attratta dal feticismo delle merci (che suscitano uno straordinario potere di fascinazione di carattere magico), infine destrutturata nei suoi caratteri peculiari.
Possiamo costruire un modello interpretativo derivato da quanto detto fino ad ora:
- Il primo elemento è la sedentarizzazione, che da parziale si avviaa diventare totale, destrutturando le coordinate spazio temporali e la stessa ‘weltanschaaung’ della società Rom, secondo le modalità ampiamente descritte (v. par. 2.5).
- Il secondo elemento, in parte conseguenza del primo, è laespulsione dal mercato delle attività tradizionali della società Rom: l’artigianato del ferro, lo spettacolo viaggiante, ecc, (v. par. 2.6) sono attività tagliate fuori dalla produzione in serie e dall’organizzazione del lavoro nata con la rivoluzione industriale, mentre la regolazione burocratica costituisce un ulteriore fattore di esclusione: la società Rom non riesce più a procurarsi risorse economiche, se non con attività che nel passato erano marginali (mendicità,…)
- Il terzo elemento è l’impatto dei modelli televisivi, che costituisce una aggravante della crisiattivata dai primi due elementi. Questo fattore accelera la destrutturazione della cultura Rom e provoca effetti collaterali (desiderio dei consumi, feticismo delle merci) dalle conseguenze imprevedibili.
Il risultato della combinazione di questi tre elementi (il cui impatto è avvenuto in tempi ed in forme diverse nelle varie società Rom) è facile a descriversi: l’implosione della società zingara.
L’implosione, frutto di una serie di eventi catastrofici, si presenta come rapido declino di una civiltà. Il risultato, per dirla in termini semplici, è una società ‘che si lascia andare’.
Tutto ciò è chiaramente visibile al campo nomadi: se gli uomini passano il loro tempo nelle roulotte o si lasciano prendere dall’alcolismo e delegano alle donne ed ai bambini il loro mantenimento, ciò deriva dalla loro perdita di ruolo e dignità, per la combinazione degli elementi descritti in precedenza.
La perdita dell’onore è una ulteriore conseguenza dell’implosione: è significativo che spessp gli uomini vadano a chiedere lontano dal luogo di residenza, dove non sono conosciuti, ma si rifiutano di farlo nei pressi del luogo dove risiedono.
Ghetto identità permanenze.
Il mutamento della società Rom non rimuove la ghettizzazione, che a sua volta non serve neanche a difendere l’identità Rom. Gli stessi campi (attrezzati o meno) somigliano a ‘riserve indiane’ che accrescono la separazione tra mondo Rom e gagè.
Nello stesso tempo, si assiste alla crisi di identità della società Rom: vacillano le strutture sociali (la ‘kris’ o le forme analoghe, in particolare), sono ridimensionate o sparite le forme di attività economica, le pratiche religiose tendono ad essere dimenticate (v. par. 4.4), aumenta la litigiosità: sono tutte caratteristiche tipiche di una società implosa, che tende a perdere le proprie caratteristiche sotto il peso di un’altra, senza (per vari motivi) potervi aderire.
Rimangono tuttavia delle permanenze culturali significative che legano i discendenti dei popoli zigani ai loro progenitori: il ricorso alla mendicità, il rifiuto del lavoro dipendente, la sostanziale diffidenza nei confronti dei gagè ed il rapporto strumentale con la loro società. Naturalmente, nel passato questi elementi avevano forme diverse: la mendicità era una pratica residuale, una forma di approvvigionamento di risorse marginale rispetto agli altri lavori: per cui, come la chiromanzia, era prerogativa delle donne; lo stesso furto si inseriva in una situazione completamente diversa, mentre oggi è dettato dalle condizioni complessive (il rapporto conflittuale col mondo gagè, l’istigazione ai consumi prodotta dalla tv ed anche le condizioni drammatiche che spesso pongono i Rom ai limiti della sopravvivenza).
Due culture ?
Comunemente, si continua a parlare del rapporto tra la cultura gagè e zingara. Il rischio è che si parli di fantasmi di culture, più che di culture vere e proprie.
La cultura zingara, abbiamo visto, si trova attualmente in un limbo: destrutturata nelle sue componenti fondamentali (e senza più autonomia economica) si trova oggi indifesa rispetto al “culture clash”, di cui l’impatto televisivo è solo l’aspetto più evidente.
Per quel che riguarda la “nostra” cultura, sarebbe interessante (e difficile) da definire: se ci riferisce alla cultura occidentale, ritorna alla mente solo il “pensiero unico”, cioè l’ideologia attualmente dominante, basata sull’idea di ricerca del massimo profitto come coordinata fondamentale. E chiamare questo cultura è molto difficile.
In effetti, il “pensiero unico” ha cancellato (o tende a cancellare) la pluralità di forme culturali presenti in Occidente: dalle culture locali al pensiero religioso, dalle correnti filosofiche fino alle teorie politiche. Che oggi sono ossessivamente definite come sepolte, finite, distrutte.
Rimane solo la cultura del denaro e del consumo: che sta cancellando anche la cultura zingara, la quale, comunque la si giudichi, rimane uno straordinario esempio di resistenza ad un modello fortemente omologante. Se la resistenza è terminata, se “il vento non soffia più”, allora è più corretto parlare di fantasmi di culture.
Fascinazione / repulsione.
E’ vero che dello Zingaro esistono due stereotipi: da un lato il ladro, sporco, diverso e pericoloso. Dall’altro il filosofo, musicista, figlio del vento. Due stereotipi che indicano qualcosa d’importante: il Rom suscita repulsione ma affascina.
Da un lato il gagè tende a rimuovere modelli di vita diversi dai suoi, considerandoli inferiori appunto perché diversi; dall’altro ne subisce il fascino fino ad idealizzarli, chiaro segno di una insoddisfazione di sé. Oggi, il fascino della vita ‘bohemien’ è in declino, ma fu molto forte, per esempio, alla fine del secolo scorso. Il modo di vita piccolo-borghese, dominante oggi, favorisce una falsa sicurezza, basata sul perbenismo e sulla criminalizzazione dei modi di vita diversi: è una sicurezza tanto fragile da non poter permettersi neanche la conoscenza dell’altro da sé: che ci sia dietro una paura inconscia di subire il fascino di un modo di vita altro e di rivelare l’insoddisfazione di sé ?
Dal punto di vista zingaro, la società gagè è vista anch’essa con un misto di ammirazione e senso di superiorità. Se l’ammirazione è forse un sentimento più recente, storicamente lo si vede dal patrimonio di racconti Rom) i gagi sono visti un po’ come stupidi.
La diffidenza, di certo più che motivata (vedi par. 1.3), è comunque il sentimento più forte: è anche vero, che una volta superato questo muro, i rapporti tra Rom e gagè sono umanamente straordinari. Comunque, quando persiste la diffidenza, i Rom hanno la capacità (straordinaria nei bambini) di dirti “quello che tu vuoi sentire”: conoscono i nostri pregiudizi nei loro confronti e rispondono di conseguenza.
I rapporti tra le due società sono attualmente caratterizzati dallo scambio ineguale: dal punto di vista culturale, è praticamente unidirezionale: gli zingari assorbono modelli (dalla tv e non solo) dall’esterno, vengono scolarizzati, ma vivono in uno stato di ghettizzazione.
Dal punto di vista economico, i Rom si trovano in un modello del tipo: dono senza reciprocità, cioè ricevono l’elemosina senza dare in cambio niente: è un modello che produce frustrazione, alleviata dalla difesa culturale del rapporto strumentale con la società gagè, che è un modello tipico della società (che sono state) nomadi.
Altro segnale del rapporto tra le due società è il nome che le famiglie danno ai figli: accanto ai nomi slavi, sono già numerosi i nomi italiani. E’ un significativo indicatore del livello raggiunto (vittoria/sconfitta) dalla società Rom nei confronti di quella ospitante.
Come il Sud.
Riferire situazioni che appaiono completamente diverse a sé stessi ed al proprio mondo serve molto a comprenderle meglio.
La vicenda dei Rom non è del tutto diversa da quella del meridione d’Italia.
Intanto, i meridionali condividono la sorte zingara per quel che riguarda le accuse che vengono loro rivolte: “non hanno voglia di lavorare, sono ladri (o mafiosi), sono parassiti”.
Chi vive al Sud sa bene che la realtà è infinitamente più complessa, così come chi conosce la società Rom comprende che le semplificazioni razziste non spiegano e non risolvono niente.
In più, può apparire estremamente ipocrita l’accusa agli zingari di esser ladri. Viviamo in una società dove il furto (l’accumulazione illegale di risorse) è prassi comune a vari livelli (politica, economia, ecc.), la società meridionale è basata sull’economia criminale, il cui peso non è certo da considerare marginale.
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