Il 9 ottobre 2016 un comunicato dei deputati europei del gruppo “Cinque Stelle” attaccava il presidente del Consiglio Renzi: “Da quando è in carica, gli sbarchi sono triplicati”. Si tratta della tipica polemica di stampo leghista che gioca sulle paure. Ma c’è un passaggio piuttosto interessante.
Secondo i politici, una volta giunti in Europa migranti africani e asiatici “vengono sfruttati come moderni schiavi. In Italia la piaga dello sfruttamento della manodopera e del lavoro in nero degli immigrati è molto diffusa, soprattutto nel Sud Italia per la raccolta di arance e pomodori”.
Si tratta di un ragionamento molto subdolo, da “razzisti democratici”: se si chiudono le frontiere, si impedisce anche ai “poveretti” di essere sfruttati da mafie e caporalato.
È un argomento falso e pericoloso.
Per prima cosa, anche le arance e i pomodori fanno parte di un sistema economico moderno e globalizzato con diversi passaggi nella filiera. Il raccoglitore migrante è l’ultimo anello della catena, reso ricattabile da leggi che sembrano pensate proprio per creare manodopera a basso costo. Lo Stato che vuole cercare rimedio al fenomeno è lo stesso che ne ha creato le condizioni.
Ma in Italia i caporali e il grave sfruttamento non colpiscono solo i migranti. Sono soltanto la parte più visibile del processo, quella sotto i riflettori. Già oggi accade che accanto al migrante siano sfruttati gli italiani più deboli. Donne e giovani del Sud, ma non solo.
L’imprenditoria italiana – e meridionale in particolare – punta al basso costo del lavoro. In mancanza di migranti, andrebbe comunque a sfruttare gli italiani.
Allora la soluzione è fermare gli sfruttatori, rafforzare gli sfruttati. Non certo togliere una parte del bacino di braccia da sfruttare in nome della chiusura delle frontiere. Tra l’altro sono stati i migranti – da Rosarno a Nardò – a guidare le rivolte e gli scioperi in contesti dove prevaleva l’assuefazione degli italiani.