Il ghetto di Rosarno sembra un effetto del caporalato, ma è uno dei luoghi dell'economia globale. I migranti africani senza documenti sembrano portare il peso di una colpa ancestrale, ma sono il frutto di precise scelte del Ministero dell'Interno. Becky Moses è morta carbonizzata a gennaio. Un orrore come questo è il prezzo da pagare al sistema del basso costo
Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su whatsapp
Condividi su email
Condividi su print
Nel rapporto “I dannati della terra” di Medu c’è una foto scattata con il drone. In primo piano si vede il ghetto di San Ferdinando, sullo sfondo le enormi gru del porto di Gioia Tauro.
Quest’immagine è molto significativa. Ci fa comprendere che non stiamo parlando del solito Sud povero, di un’economia arretrata, di africani che non trovano lavoro e che in qualche modo si portano addosso la povertà dei loro paesi. No, stiamo parlando di qualcosa di diverso, cioè di economia globale.
Sul territorio, infatti, abbiamo tutti gli elementi della globalizzazione: succo congelato che arriva al porto dal Brasile; manodopera dall’Africa e dall’Est Europa; export del prodotto in vari paesi del mondo.
Nonostante la retorica che accompagna le arance di Rosarno (“Sono pagate così poco che è meglio lasciarle sugli alberi”), da trent’anni c’è qualcuno che viene a raccoglierle. Di conseguenza ci sarà qualcuno che le vende e qualcun altro che le compra.
Il mercato
Questo qualcuno non è il mercato locale: nei bar del paese è difficile trovare una spremuta di prodotto della zona. Le arance potete però trovarle negli Emirati Arabi, in Russia, in Germania e – sicuramente in passato – nelle lattine di Fanta. Si trovano nei succhi della grande distribuzione, ormai un oligopolio. Inutile indicare i nomi perché sono tutti coinvolti. O meglio, nessuno può dirsi fuori. Nessuno può garantire una provenienza etica dell’arancia da succo.
Il mercato globale schiaccia quello locale, ormai inesistente
Se non vengono dalla Calabria, gli agrumi sono raccolti in Sicilia dove le condizioni di lavoro sono altrettanto drammatiche (lavoro minorile di bulgari e rumeni nella zona del catanese; lavoro dei richiedenti asilo del centro di Mineo).
Il problema sono i produttori schiacciati da pochi soggetti della grande distribuzione, che a loro volta si rifanno su migranti senza documenti o con documenti precari.
Le istituzioni
Spesso si dice che le istituzioni non fanno nulla per risolvere questi problemi. In realtà dovrebbero fare meno. Con l’attuale politica di “accoglienza”, infatti, si creano i ghetti negando i documenti. Quale altra prospettiva rimane a chi è arrivato in Italia e viene “diniegato”? Cosa vogliamo fare di queste persone? Realisticamente non saranno espulse; non possono andare in un altro paese europeo, come magari desiderano, perché appena arrivano a Ventimiglia vengono respinti.
Così il Cara di Foggia o i ghetti di Borgo Mezzanone, Rosarno, Castel Volturno sono popolati da persone che hanno ricevuto un rifiuto: alcuni sono impegnati da 5 anni in ricorsi e procedimenti giudiziari per ottenere i documenti. Cinque anni della vita di una persona ingabbiata dalla burocrazia.
In questo modo si creano serbatoi di manodopera a costo zero per le imprese. E non parliamo delle imprese siciliane o calabresi ma di quelle del Chianti.
Grazie al Ministero dell’Interno, i centri sono diventati un serbatoio di manodopera
Di fronte a questa disponibilità cosa fanno? Vanno nei centri e si riforniscono, magari attraverso un mediatore. Prendono braccia gratuite che lo Stato consegna, lo stesso Stato che poi fa la legge anti-caporalato e si impegna contro la “nuova schiavitù”. C’è un ministero che crea il problema e c’è un ministero che prova a risolverlo. È una situazione schizofrenica, sembra il film di Chaplin in cui il bambino rompe la finestra e Charlot arriva col vetro nuovo.
Queste persone, dopo tutto quello che hanno passato in Libia o in mezzo al mare, non hanno alcuna possibilità. Non conoscono la lingua, e non è detto che nei centri qualcuno gliela insegni; magari vivono i traumi delle torture subite; in più devono trascorrere anni dentro una burocrazia assolutamente incomprensibile, incomprensibile anche per noi.
C’è chi brucia cinque anni della sua vita in una burocrazia incomprensibile
Che senso ha? Devi raccontare una storia commovente, se non ti credono diventi irregolare. Devi fare un primo e poi un secondo ricorso. Un avvocato truffatore ti convince che se lo paghi risolve tutto. Intanto perdi il diritto all’accoglienza e finisci nel ghetto, dove un connazionale ti ha detto che c’è la possibilità di trovare lavoro, in attesa ovviamente dei documenti.
Magari intanto l’avvocato sta a Sassari, il Tribunale a Cagliari e tu a Rosarno. Gli atti giudiziari viaggiano e non ti trovano. Tu non capisci nulla di quello che accade, se non che c’è sempre da pagare.
Così si moltiplicano le difficoltà di persone già vulnerabili, altro che l’accoglienza di cui tutti parlano, questa è la realtà.
Gli africani
Alla fine, osservando i ghetti sempre identici, rimane la sensazione – rafforzata dai pregiudizi che tutti abbiamo – che niente cambia perché in fondo gli africani sono così, al loro paese vivevano così e noi abbiamo già tanti problemi. Come al solito siamo innocenti.
Invece gli africani sono completamente diversi tra loro, è un’ovvietà ma bisogna ripeterlo ogni giorno. A Rosarno in dieci anni ho visto gente del tutto differente, per esempio operai neri con l’accento veneto perché lavorano da anni lì, lavoratori che con la crisi hanno perso il lavoro. Ma erano sindacalizzati, inseriti nella nostra società. Per loro le campagne del Sud erano uno shock, una retrocessione incredibile rispetto alla situazione precedente.
I ghetti sono lo specchio della nostra società, non della povertà dell’Africa
Non hanno accettato violenza e sopraffazione e sono stati l’anima della rivolta del 2010.
Gente ovviamente diversa da chi è appena arrivato dalla Libia, non conosce la lingua e si trova ingabbiato in una burocrazia che non comprende.
Sono tipologie completamente differenti: persone che vedono nell’Italia il paese dove hanno provato a costruire un’esistenza e altri che non vedono l’ora di andare via ma non possono.
Oggi siamo in una condizione “libica”, siamo una gabbia, un tappo: una frontiera Sud dell’Europa che deve chiudere i passaggi (Ventimiglia, Como, Brennero) e blindare gli accessi in Francia, Svizzera, Austria e poi in Germania e Scandinavia.
Nel gennaio 2018 c’è stato un grande incendio nella baraccopoli di San Ferdinando, Becky Moses è morta, questa è la prova di quello che dico. In due mesi è passata dall’accoglienza a Riace a una fine terribile, bruciata viva in un ghetto. In mezzo ci sono stati il diniego della commissione asilo e la conseguente deriva verso il ghetto più vicino, quello di Rosarno.
Perché una commissione asilo nega protezione a una ragazza nigeriana?
Quale commissione asilo può decidere di negare i documenti – quindi protezione – a una ragazza nigeriana appena sbarcata? Questa è gente che decide il destino delle persone, non lo sa che si tratta proprio del caso più evidente e più emblematico di un soggetto vulnerabile da proteggere?
Perché hanno preso una decisione così disumana, cosa è cambiato? La risposta è facile, è cambiato il clima politico: la politica dice “questi vengono a prenderci in giro, raccontano solo frottole”. In questo modo anche il poliziotto membro della commissione asilo, che avrebbe tutt’altro ruolo, si sente “frontiera interna”, il baluardo contro “loro”, si sente lo Stato che chiude le porte.
E questo perché l’asilo non è più una questione tecnico-giuridica ma è sempre più una questione orientata dalla politica che invoca dinieghi senza però indicare uno sbocco realistico. Un 60% di dinieghi, infatti, significa soltanto ghetti sempre più grandi.
Le soluzioni
Allora quali sono le soluzioni contro i ghetti? Ne sono state individuate alcune su cui sono tutti d’accordo tranne quelli che prendono le decisioni. Le soluzioni ci sono ma non c’è la volontà di applicarle. Sulla questione della casa, si parla da anni di mediazione abitativa, di di censire il patrimonio abbandonato, del modello Drosi, una piccola frazione della provincia di Reggio Calabria. Invece si fanno tendopoli sempre nuove, recintate e videosorvegliate.
Tutti sono d’accordo sulle soluzione, tranne quelli che devono applicarle
Sulla questione del lavoro, gli indici di congruità sono uno strumento per verificare la correttezza delle imprese. Si dirà che molte aziende anche volendo non possono pagare quando dovuto ai lavoratori. Ma se è così – e in molti casi non è così – allora le imprese dovrebbero aprire delle vertenze col livello superiore, con i commercianti, oppure chiudere. La soluzione di sfruttare a sangue soggetti ricattabili non dovrebbe neppure essere presa in considerazione. Altrimenti siamo al cannibalismo economico. Il piccolo produttore sopravvive a stento per colpa del supermercato, ma oggi anche la grande distribuzione è in forte difficoltà per colpa dell’e-commerce.
Se puntiamo alla competizione sul basso costo, prima o poi perderemo
Con la legge del pesce grande che mangia quello piccolo non si va da nessuna parte, Rosarno non può competere col succo brasiliano o Vittoria con i prodotti del Nord Africa, per non parlare di quelli cinesi.
Quindi quando ci parlano di economia globale non pensiamo a vincere col basso costo, prima o poi si chiude e si perde tutti. E non ci consoliamo pensando che il problema riguarda gli africani, perché è evidente che non è così.
In più abbiamo braccianti italiani che prendono la disoccupazione lavorando giornate fittizie e migranti che dormono in strada lavorando giornate vere.
Sono questioni che non riguardano in sé la migrazione, l’accoglienza e tutte queste cose ma il modo di organizzare la nostra società.
Dicotomie
Ci sono tre dicotomie sbagliate che ci portiamo appresso da anni. La prima è che si tratta di un problema di migrazione. Invece è un tema di lavoro che si affronta con gli strumenti delle questioni di lavoro. Mi piacerebbe che agli incontri sul “caporalato” ci fossero meno Ong e giornalisti e più sindacalisti e imprenditori che si mettono intorno a un tavolo e si chiedono: che facciamo? Continuiamo cosi? Vendere un’arancia a basso costo vale la vita di Becky Moses?
Questa è la domanda da fare. Se la risposta è sì, chiudiamo questo baraccone sul caporalato. Altrimenti, costruiamo un altro modello.
Migrazione contro lavoro. Italiani contro stranieri. Lavoratori contro consumatori
La seconda dicotomia è italiani/stranieri, ormai ce la portiamo dentro. Se prendiamo i morti in agricoltura, la situazione più drammatica non è quella dei ghetti ma di agricoltori italiani, a volte anziani, che muoiono in incidenti col trattore. È un’agricoltura invisibile di cui non si parla mai. Spesso si tratta di lavoratori – sia italiani che stranieri – senza formazione che precipitano su terreni scoscesi, schiacciati da veicoli che si ribaltano. Poi diventano una pratica Inail, nessuno ne parla e finisce lì.
Questo significa che non è un problema di italiani, africani, europei. È un tema di lavoratori, è chiaro che quelli più ricattabili subiscono di più, ma la questione non si esaurisce con l’etnia.
Infine, l’ultima dicotomia è quella tra lavoratori e consumatori. Siamo contenti quando troviamo sul bancone del supermercato un’aranciata a 60 centesimi o un barattolo di pelati a 30. Magari la materia prima ha fatto il giro del mondo, può arrivare dal Brasile o dalla Cina. Oppure può essere frutto di uno sfruttamento selvaggio. Ma siamo contenti dell’offerta e non ci facciamo domande. Invece c’è qualcosa che non va.
Come lavoratori vogliamo giustamente il contratto a tempo indeterminato, ma così diventa un circolo vizioso. Le imprese cercando di vendere prodotti a basso costo a lavoratori impoveriti o disoccupati, che provano a migliorare la propria condizione senza riuscirci.
Così non se ne esce. Invece dobbiamo smettere di ragionare da consumatori, di contrapporre la nostra vita quando facciamo la spesa da quella sul posto di lavoro. E rivendicare dignità per tutti, non scorciatoie.
Vendere a basso costo vale la vita dei migranti?
Nel rapporto “I dannati della terra” di Medu c’è una foto scattata con il drone. In primo piano si vede il ghetto di San Ferdinando, sullo sfondo le enormi gru del porto di Gioia Tauro.
Quest’immagine è molto significativa. Ci fa comprendere che non stiamo parlando del solito Sud povero, di un’economia arretrata, di africani che non trovano lavoro e che in qualche modo si portano addosso la povertà dei loro paesi. No, stiamo parlando di qualcosa di diverso, cioè di economia globale.
Sul territorio, infatti, abbiamo tutti gli elementi della globalizzazione: succo congelato che arriva al porto dal Brasile; manodopera dall’Africa e dall’Est Europa; export del prodotto in vari paesi del mondo.
Nonostante la retorica che accompagna le arance di Rosarno (“Sono pagate così poco che è meglio lasciarle sugli alberi”), da trent’anni c’è qualcuno che viene a raccoglierle. Di conseguenza ci sarà qualcuno che le vende e qualcun altro che le compra.
Il mercato
Questo qualcuno non è il mercato locale: nei bar del paese è difficile trovare una spremuta di prodotto della zona. Le arance potete però trovarle negli Emirati Arabi, in Russia, in Germania e – sicuramente in passato – nelle lattine di Fanta. Si trovano nei succhi della grande distribuzione, ormai un oligopolio. Inutile indicare i nomi perché sono tutti coinvolti. O meglio, nessuno può dirsi fuori. Nessuno può garantire una provenienza etica dell’arancia da succo.
Se non vengono dalla Calabria, gli agrumi sono raccolti in Sicilia dove le condizioni di lavoro sono altrettanto drammatiche (lavoro minorile di bulgari e rumeni nella zona del catanese; lavoro dei richiedenti asilo del centro di Mineo).
Il problema sono i produttori schiacciati da pochi soggetti della grande distribuzione, che a loro volta si rifanno su migranti senza documenti o con documenti precari.
Le istituzioni
Spesso si dice che le istituzioni non fanno nulla per risolvere questi problemi. In realtà dovrebbero fare meno. Con l’attuale politica di “accoglienza”, infatti, si creano i ghetti negando i documenti. Quale altra prospettiva rimane a chi è arrivato in Italia e viene “diniegato”? Cosa vogliamo fare di queste persone? Realisticamente non saranno espulse; non possono andare in un altro paese europeo, come magari desiderano, perché appena arrivano a Ventimiglia vengono respinti.
Così il Cara di Foggia o i ghetti di Borgo Mezzanone, Rosarno, Castel Volturno sono popolati da persone che hanno ricevuto un rifiuto: alcuni sono impegnati da 5 anni in ricorsi e procedimenti giudiziari per ottenere i documenti. Cinque anni della vita di una persona ingabbiata dalla burocrazia.
In questo modo si creano serbatoi di manodopera a costo zero per le imprese. E non parliamo delle imprese siciliane o calabresi ma di quelle del Chianti.
Di fronte a questa disponibilità cosa fanno? Vanno nei centri e si riforniscono, magari attraverso un mediatore. Prendono braccia gratuite che lo Stato consegna, lo stesso Stato che poi fa la legge anti-caporalato e si impegna contro la “nuova schiavitù”. C’è un ministero che crea il problema e c’è un ministero che prova a risolverlo. È una situazione schizofrenica, sembra il film di Chaplin in cui il bambino rompe la finestra e Charlot arriva col vetro nuovo.
Queste persone, dopo tutto quello che hanno passato in Libia o in mezzo al mare, non hanno alcuna possibilità. Non conoscono la lingua, e non è detto che nei centri qualcuno gliela insegni; magari vivono i traumi delle torture subite; in più devono trascorrere anni dentro una burocrazia assolutamente incomprensibile, incomprensibile anche per noi.
Che senso ha? Devi raccontare una storia commovente, se non ti credono diventi irregolare. Devi fare un primo e poi un secondo ricorso. Un avvocato truffatore ti convince che se lo paghi risolve tutto. Intanto perdi il diritto all’accoglienza e finisci nel ghetto, dove un connazionale ti ha detto che c’è la possibilità di trovare lavoro, in attesa ovviamente dei documenti.
Magari intanto l’avvocato sta a Sassari, il Tribunale a Cagliari e tu a Rosarno. Gli atti giudiziari viaggiano e non ti trovano. Tu non capisci nulla di quello che accade, se non che c’è sempre da pagare.
Così si moltiplicano le difficoltà di persone già vulnerabili, altro che l’accoglienza di cui tutti parlano, questa è la realtà.
Gli africani
Alla fine, osservando i ghetti sempre identici, rimane la sensazione – rafforzata dai pregiudizi che tutti abbiamo – che niente cambia perché in fondo gli africani sono così, al loro paese vivevano così e noi abbiamo già tanti problemi. Come al solito siamo innocenti.
Invece gli africani sono completamente diversi tra loro, è un’ovvietà ma bisogna ripeterlo ogni giorno. A Rosarno in dieci anni ho visto gente del tutto differente, per esempio operai neri con l’accento veneto perché lavorano da anni lì, lavoratori che con la crisi hanno perso il lavoro. Ma erano sindacalizzati, inseriti nella nostra società. Per loro le campagne del Sud erano uno shock, una retrocessione incredibile rispetto alla situazione precedente.
Non hanno accettato violenza e sopraffazione e sono stati l’anima della rivolta del 2010.
Gente ovviamente diversa da chi è appena arrivato dalla Libia, non conosce la lingua e si trova ingabbiato in una burocrazia che non comprende.
Sono tipologie completamente differenti: persone che vedono nell’Italia il paese dove hanno provato a costruire un’esistenza e altri che non vedono l’ora di andare via ma non possono.
Oggi siamo in una condizione “libica”, siamo una gabbia, un tappo: una frontiera Sud dell’Europa che deve chiudere i passaggi (Ventimiglia, Como, Brennero) e blindare gli accessi in Francia, Svizzera, Austria e poi in Germania e Scandinavia.
Nel gennaio 2018 c’è stato un grande incendio nella baraccopoli di San Ferdinando, Becky Moses è morta, questa è la prova di quello che dico. In due mesi è passata dall’accoglienza a Riace a una fine terribile, bruciata viva in un ghetto. In mezzo ci sono stati il diniego della commissione asilo e la conseguente deriva verso il ghetto più vicino, quello di Rosarno.
Quale commissione asilo può decidere di negare i documenti – quindi protezione – a una ragazza nigeriana appena sbarcata? Questa è gente che decide il destino delle persone, non lo sa che si tratta proprio del caso più evidente e più emblematico di un soggetto vulnerabile da proteggere?
Perché hanno preso una decisione così disumana, cosa è cambiato? La risposta è facile, è cambiato il clima politico: la politica dice “questi vengono a prenderci in giro, raccontano solo frottole”. In questo modo anche il poliziotto membro della commissione asilo, che avrebbe tutt’altro ruolo, si sente “frontiera interna”, il baluardo contro “loro”, si sente lo Stato che chiude le porte.
E questo perché l’asilo non è più una questione tecnico-giuridica ma è sempre più una questione orientata dalla politica che invoca dinieghi senza però indicare uno sbocco realistico. Un 60% di dinieghi, infatti, significa soltanto ghetti sempre più grandi.
Le soluzioni
Allora quali sono le soluzioni contro i ghetti? Ne sono state individuate alcune su cui sono tutti d’accordo tranne quelli che prendono le decisioni. Le soluzioni ci sono ma non c’è la volontà di applicarle. Sulla questione della casa, si parla da anni di mediazione abitativa, di di censire il patrimonio abbandonato, del modello Drosi, una piccola frazione della provincia di Reggio Calabria. Invece si fanno tendopoli sempre nuove, recintate e videosorvegliate.
Sulla questione del lavoro, gli indici di congruità sono uno strumento per verificare la correttezza delle imprese. Si dirà che molte aziende anche volendo non possono pagare quando dovuto ai lavoratori. Ma se è così – e in molti casi non è così – allora le imprese dovrebbero aprire delle vertenze col livello superiore, con i commercianti, oppure chiudere. La soluzione di sfruttare a sangue soggetti ricattabili non dovrebbe neppure essere presa in considerazione. Altrimenti siamo al cannibalismo economico. Il piccolo produttore sopravvive a stento per colpa del supermercato, ma oggi anche la grande distribuzione è in forte difficoltà per colpa dell’e-commerce.
Con la legge del pesce grande che mangia quello piccolo non si va da nessuna parte, Rosarno non può competere col succo brasiliano o Vittoria con i prodotti del Nord Africa, per non parlare di quelli cinesi.
Quindi quando ci parlano di economia globale non pensiamo a vincere col basso costo, prima o poi si chiude e si perde tutti. E non ci consoliamo pensando che il problema riguarda gli africani, perché è evidente che non è così.
In più abbiamo braccianti italiani che prendono la disoccupazione lavorando giornate fittizie e migranti che dormono in strada lavorando giornate vere.
Sono questioni che non riguardano in sé la migrazione, l’accoglienza e tutte queste cose ma il modo di organizzare la nostra società.
Dicotomie
Ci sono tre dicotomie sbagliate che ci portiamo appresso da anni. La prima è che si tratta di un problema di migrazione. Invece è un tema di lavoro che si affronta con gli strumenti delle questioni di lavoro. Mi piacerebbe che agli incontri sul “caporalato” ci fossero meno Ong e giornalisti e più sindacalisti e imprenditori che si mettono intorno a un tavolo e si chiedono: che facciamo? Continuiamo cosi? Vendere un’arancia a basso costo vale la vita di Becky Moses?
Questa è la domanda da fare. Se la risposta è sì, chiudiamo questo baraccone sul caporalato. Altrimenti, costruiamo un altro modello.
La seconda dicotomia è italiani/stranieri, ormai ce la portiamo dentro. Se prendiamo i morti in agricoltura, la situazione più drammatica non è quella dei ghetti ma di agricoltori italiani, a volte anziani, che muoiono in incidenti col trattore. È un’agricoltura invisibile di cui non si parla mai. Spesso si tratta di lavoratori – sia italiani che stranieri – senza formazione che precipitano su terreni scoscesi, schiacciati da veicoli che si ribaltano. Poi diventano una pratica Inail, nessuno ne parla e finisce lì.
Questo significa che non è un problema di italiani, africani, europei. È un tema di lavoratori, è chiaro che quelli più ricattabili subiscono di più, ma la questione non si esaurisce con l’etnia.
Infine, l’ultima dicotomia è quella tra lavoratori e consumatori. Siamo contenti quando troviamo sul bancone del supermercato un’aranciata a 60 centesimi o un barattolo di pelati a 30. Magari la materia prima ha fatto il giro del mondo, può arrivare dal Brasile o dalla Cina. Oppure può essere frutto di uno sfruttamento selvaggio. Ma siamo contenti dell’offerta e non ci facciamo domande. Invece c’è qualcosa che non va.
Come lavoratori vogliamo giustamente il contratto a tempo indeterminato, ma così diventa un circolo vizioso. Le imprese cercando di vendere prodotti a basso costo a lavoratori impoveriti o disoccupati, che provano a migliorare la propria condizione senza riuscirci.
Così non se ne esce. Invece dobbiamo smettere di ragionare da consumatori, di contrapporre la nostra vita quando facciamo la spesa da quella sul posto di lavoro. E rivendicare dignità per tutti, non scorciatoie.
Questa storia è stata letta 2060 volte
La Spoon River dei braccianti