Aymen Arfaoui, diciottenne tunisino, è a Parigi da un mese. Dorme in macchina. Ha bisogno di soldi e non ha documenti. Un rider gli ha subaffittato il suo account perché considera troppo bassa la paga di Uber Eats: 3,5 euro a consegna più bonus per il chilometraggio.
Così il ragazzo affronta il traffico di Place de la République con i documenti di un altro. In quattro ore di lavoro ha guadagnato 17 euro. Ma metà circa dei soldi andrà al collega che gli ha ceduto il suo account.
Arfaoui a settembre era in Libia. È salito su una barca con centinaia di altre persone. Arrivato in Italia, si è nascosto su un treno diretto in Francia. “Ho incontrato un ragazzo che mi ha affittato il suo account Uber Eats per 100 euro a settimana”, dice. Lavorando fino a 13 ore al giorno, in un mese ha ottenuto circa 800 euro. Il suo sogno è fare il pescivendolo. “È un lavoro meno pericoloso di questo, in cui devi consegnare e correre al posto successivo”, dice. Ma ciò richiede i documenti. “Come rider è più facile”, aggiunge. “Nessuno controlla la tua identità e puoi trovare un account molto rapidamente.”
Tanti migranti sottopagati e senza documenti cercano account in affitto. Così riescono a guadagnare qualcosa. In attesa della risposta alla richiesta d’asilo
La denuncia del New York Times risale al giugno 2019. Non si tratta di un caso isolato. Youssef El Farissi, un altro diciottenne che vive ad Avignone, ha dichiarato di aver contattato decine di altri migranti per subappaltare il suo account. Sei suoi amici hanno fatto lo stesso su varie piattaforme. Se fossimo pagati meglio lavoreremmo con il nostro account e basta, dicono. Sempre meglio che rubare, aggiungono. Subaffittare è un modo per guadagnare di più.
In Francia, il grosso delle vittime è formato da richiedenti asilo, la cui posizione è in attesa di essere esaminata. Nel frattempo, però, hanno bisogno di un lavoro immediato. L’ispettorato del lavoro di Nantes ha aperto una prima inchiesta. Deliveroo ha subito intavolato una trattativa col governo francese per prevenire gli abusi. Glovo parla di un fenomeno – quello dei migranti senza documenti – che riguarda il 5% dei suoi corrieri. Casi simili sono stati segnalati in Gran Bretagna e Spagna.
Pochi giorni più tardi anche la procura di Milano apre un’inchiesta. Si parte con le indagini sulla sicurezza sul lavoro e si arriva alla presenza di tre rider senza documenti. È l’inizio dell’indagine che porterà a uno sviluppo imprevedibile. Il 29 maggio 2020, infatti, la Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano dispone l’amministrazione giudiziaria di Uber Italy srl, filiale italiana della multinazionale Usa. Si tratta di una tipologia di provvedimento che di solito si applica alle imprese mafiose. Nel marzo 2021 il Tribunale considera risolto il problema revocando il provvedimento di amministrazione giudiziaria.
Puzzano, dovette disconnetterli
“Controlli quelli che bivaccano, che fanno queste cose qua fuori dai coglioni, non c’è neanche discussione: bloccato l’account, finito di lavorare, istantaneamente proprio… istantaneamente. Non lo so vedi tu, fate in modo di fare delle foto, di vederli… quelli che bivaccano, che puzzano, che fanno cazzate, fuori dai coglioni all’istante…”
Il titolare di un fast food protesta con un manager di Uber che a sua volta riporta a Flash Road City, la società che controlla i rider. Nelle centinaia di chat prodotte nell’inchiesta, emergono problemi di ogni tipo: dal “bivacco” di fronte ai ristoranti a chi non sa usare il cellulare, da chi preferisce la compagnia a basso costo Lyca Mobile fino a chi è malato o si connette nelle fasce meno scomode.
Ma la soluzione è sempre identica: la minaccia di “disconnettere”, chiudere l’account, impedire di lavorare con un semplice click. Del resto, per i manager i corrieri erano soltanto “puntini rossi che accendevano e spegnevano come volevano”.
Il nodo della questione è qui: chi è che disconnette? Uber Eats si è dichiarata estranea a ogni forma di caporalato. Quindi nei fatti scarica tutto sulle società che gestivano i fattorini. Noi non potevamo disconnetterli, la piattaforma è gestita da Uber, replicano questi ultimi. “Uber ci imponeva con vere minacce di toglierci clienti o città e di rispettare il loro forecast che ci veniva indicato settimanalmente”.
La minaccia è sempre identica: disconnettere, cioè licenziare
Ecco quindi un’altro elemento della schiavitù moderna: gli obiettivi. I manager dovevano raggiungere risultati prefissati, come ad esempio le 30mila consegne a settimana.
Rispetto al fine, ogni mezzo diventa quindi lecito. Si comincia con la sottrazione delle mance. Poi le minacce, tra cui quella onnipresente della “disconnessione”. La paga fissa a 3 euro a consegna, indipendentemente da orario e chilometri percorsi.
Per non parlare dei contratti, come denunciato su Affari Italiani da Francesco Floris: un foglio di carta scritto a penna e spacciato per contratto di lavoro, dove si legge: “Accordo di collaborazione occasionale: € 3 netti X consegna. Ricevo borsa di lavoro in caso di perdita o rottura verranno addebitati € 80.00 (valore materiale)”. Data e firma.
E ancora gli abusi su persone in stato di bisogno come i richiedenti asilo. La società che lavorava per conto di Uber Italy, infatti, procacciava lavoratori quasi tutti provenienti da “zone conflittuali del pianeta (Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea, Pakistan, Bangladesh e altri) e la cui vulnerabilità è segnata da anni di guerre e povertà alimentare”.
I magistrati hanno quindi valutato essenzialmente due elementi: lo sfruttamento lavorativo e l’approfittamento dello stato di bisogno, che ne costituisce il presupposto.
La struttura
Se togliamo i nomi, sembra una delle consuete storie di caporalato al Sud. Migranti minacciati, sfruttatori brutali, pagamenti in ritardo. Se cambiamo lo sfondo, dobbiamo sostituire i campi di pomodoro bruciati dal sole con gli incroci urbani di Roma, Milano, Parigi.
Ma se completiamo il quadro con i nomi ai vertici della filiera, scopriamo quelli di Uber e McDonald’s. La prima è una multinazionale di fama recente, odiata dai tassisti per l’aggressiva azione che vuole trasformare ogni possessore di automobile in un potenziale autista. La controllata UberEats è quotata in Borsa da maggio scorso e con una capitalizzazione di 72,9 miliardi di dollari al 23 luglio 2019.
Dopo un accordo strategico, McDonald’s è diventato il principale cliente di Uber. Rappresenterebbe il 70 per cento del suo fatturato. “Per poter effettuare consegne per tale azienda fummo ancora una volta costretti a sottoscrivere una polizza assicurativa con massimali da 5 milioni per cautelarsi verso eventuali attentati terroristici causati dai riders della nostra flotta e da 2 milioni sulla responsabilità civile”, racconta uno dei manager delle società in subappalto.
La filiera è complessa: Uber subappalta a società di logistica, che gestiscono i fattorini. I quali a loro volta spesso affittano gli account. Ognuno cerca di rifarsi sul livello inferiore
I passaggi di filiera sono numerosi. Uber Eats paga le società di logistica che pagano i fattorini, collaboratori occasionali oppure partite Ive, dunque formalmente “imprese” autonome. A volte alcuni rider subappaltano a migranti senza documenti il proprio account. Ma le società intermediarie sono vittime della multinazionale o carnefici che sfruttano lavoratori in stato di bisogno?
Le varie dichiarazioni degli indagati si possono raggruppare in tre categorie:
- le responsabilità di filiera;
- il paternalismo;
- il darwinismo.
Uno degli indagati dice al Fatto che bisogna “considerare il contesto”. “Non c’è regolamentazione, contratto di lavoro, associazioni di categoria… Uber ci pagava a consegna e dovevamo fare lo stesso con i ragazzi. Venivano da noi perché lavorando direttamente per Uber, anche se con tariffe maggiori, si facevano solo 3 o 4 consegne al giorno”.
Le aziende di mediazione, come accade anche nella filiera agricola, dicono di essere in mezzo alla politica del basso costo del livello superiore. Ricevendo poco dall’alto, sarebbero “costretti a sfruttare”. La responsabilità sarebbe quindi di Uber. “Nel 2019 ci siamo incontrati e lì ho capito che forse non era solo una questione di manager ma che era una politica dell’azienda”, racconta uno di loro rispetto a una richiesta di compensi più alti.
È inquietante il modo con cui si reclutavano i lavoratori. Da un lato il tradizionale passaparola, dall’altro rider che lavoravano per altre imprese di food delivery e che evidentemente non guadagnavano abbastanza. Ma non è tutto. “Avevano vitto e alloggio nei centri”, dice un manager. Quindi il bacino dei centri di accoglienza, dei richiedenti asilo in attesa di risposta, diventa ancora una volta una riserva di braccia a costo zero. Tanto hanno già un tetto e da mangiare.
I centri di accoglienza sono un passaggio chiave. Forniscono vitto e alloggio e segnalano il lavoratori
“È tempo di finirla con il perbenismo e il moralismo con cui si pensa di distruggere gli imprenditori. Questo Paese andrà a rotoli se si continua a gridare all’untore, a dire ‘poverini i rider’. Sinceramente, per me sono poverini quelli che hanno un tumore, non quelli che hanno un posto per dormire in un centro di accoglienza che paga il pubblico, più un telefono pagato sempre dal pubblico e anche un lavoro…”.
C’è un altro particolare inquietante: “All’inizio li abbiamo arruolati grazie alla collaborazione con un paio di Onlus, adesso però il passaparola funziona da solo”, spiega il general manager di un’altra società di logistica, nata nel 2014, impegnata nel food delivery dal 2017 e oggi arrivata a 15 dipendenti (rider esclusi) e 3,2 milioni di fatturato.
Ma gli imprenditori si dimostrano anche figli di una cultura spietata, un darwinismo con le biciclette dove sopravvive il migliore e gli altri soccombono: “Quelli bravi si portavano a casa 1.200 euro, quelli meno bravi 300 al mese. Dipendeva da quanta voglia avevano di lavorare”.
Uno dei soci della Flash Road dice: “La verità è che sono arrivati moltissimi italiani a fare i colloqui, però tendenzialmente questo è un mestiere per cui devi fare sacrifici: devi pedalare parecchio, sotto al sole o alla pioggia, e le lo fai per 7-8 ore al giorno ti porti a casa uno stipendio “normale”, tipo 1.000, 1.200 euro al mese”. Infine arriva la solita considerazione: “Il 99% degli italiani che hanno iniziato e ascoltato la mia proposta non si sono fermati, perché se non prendono duemila euro al mese non sono contenti”.
Gli italiani non hanno voglia di lavorare, dicono i manager
Un capitolo importante è quello del paternalismo: “Siamo molto accomodanti: se si rompe la bici o il telefono possiamo imprestargli i soldi per ricomprarli e poi glieli scaliamo un po’ alla volta nelle settimane successive”. “Questi ragazzi li ho presi a cuore, ho anticipato soldi, mi chiamavano papà”, dice un altro.
Ma dietro la facciata c’è una strategia precisa, che vuole spremere i lavoratori come limoni: “I più meritevoli li mandiamo anche a lavare le auto [con l’app WashOut per il lavaggio a domicilio]”. Il meccanismo si presta a un’infinità di occasioni “di business”: servizi come task, con lavoratori sostituibili. Richieste convogliate da app. Subappalti per evitare responsabilità. Lavoratori che – come nell’ultimo film di Ken Loach – non lavorano “per” noi ma “con” noi. Formalmente “padroni di sé stessi”, nei fatti legati mani e piedi al ricatto della “disconnessione”.
In questo quadro, l’unica anomalia, in questo momento, è la legge del 2016 contro il grave sfruttamento. La sua applicazione fa emergere numerose contraddizioni. Non riguarda solo l’agricoltura, i caporali neri, il Sud o i migranti. Prevede indici di sfruttamento che, per quanto generici, possono essere applicati in ogni situazione. Il risultato lo abbiamo visto.