Rosarno (RC) – Negli ultimi dieci anni ho visto tutte le tipologie di “abitazioni” usate dagli africani per la raccolta delle arance a Rosarno. A volte ho dormito lì, spesso ho mangiato con loro. Storie incredibili come quelle della rivolta contro la violenza mafiosa nata nei tubi di alluminio. Situazioni al limite della sopravvivenza. Ma sempre vissute con dignità.
Ritorno al passato
La città è cresciuta come un organismo vivente. Le tende del Ministero dell’Interno dovevano diventare una tendopoli più confortevole. Invece sono rimaste quelle vecchie. E intorno ai coni blu marchiati “Protezione civile” sono nate file disordinate di baracche. Costruite a triplo strato: plastica, metallo (o canne) e cartone. Sotto la pioggia battente sono incredibilmente resistenti.
Ma questo è uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni. Compare qualche fiocco di neve, arriva il ghiaccio. Vere bombe d’acqua si abbattono sulle casupole nei giorni dell’allerta meteo. Quella che era un’ordinata tendopoli sulla ghiaia, oggi somiglia al Ghetto di Rignano Garganico. Stesse stradine di fango, uguale concentrazione di piccoli negozi e servizi informali.
Ci sono le macellerie, gli spacci dove si compra di tutto e si ricaricano i cellulari. E i piccoli ristoranti. La maggior parte dei braccianti ha ancora un permesso di soggiorno. Ma tra ricorsi, dinieghi e richieste sempre più pressanti delle Questure, c’è il rischio che si crei una nuova sacca di irregolari senza possibilità di emersione. Esattamente come era tanti anni fa.
La cartiera. Dove tutto ebbe inizio
La memoria ritorna al 2007. Scesi dal treno e vidi un enorme parallelepipedo. Si avvicinò Marcus e mi disse: “Quella è la fabbrica”. La cartiera era uno dei gioielli della zona industriale. Doveva produrre carta per stampanti ad aghi, vecchi moduli con i fori ai lati. Ma una ditta romagnola prese i soldi della legge 488 e andò via. Come tutte le altre. Ancora oggi i capannoni sono in mezzo al nulla, un ambiente lunare con vialetti abbandonati ed erbacce.
C’erano più di mille africani nella cartiera. C’era il tetto sfondato e i residui di amianto. Le casette di cartone all’interno, due bagni in condizioni disastrate. Si cucinava dentro. Per mantenere i polmoni sani occorreva evitare il fumo acre dei rametti umidi. Inizio a tossire e non smetto più. Vedo alcuni macellare una gallina malata per un pasto d’emergenza. Coffie mi invitò a pranzo. Un pugno di riso, cipolle soffritte e il sugo dei pelati che bolle lentamente. I suoi amici preferivano la pasta low cost del discount MD.
Un giorno venne un assessore in perlustrazione. «Questa è una vergogna per l’umanità», disse un ivoriano accorato. Il politico conteggiò mentalmente i voti che un suo intervento poteva procurargli. Concluse che non ne valeva la pena. Promise qualcosa di generico. Salì rapidamente sulla berlina con cui era venuto.
Di quella città africana nel cuore della Calabria, ricorderò sempre un particolare. I fasci di luce. Tutto era in ombra anche di giorno. Solo dai finestroni entravano pochi raggi di sole. Come se un direttore della fotografia avesse voluto creare un effetto drammatico. Uomini sempre in ombra e qualche particolare illuminato: un pentolone nero, un materasso sfondato.
Nello spiazzo c’era la cucina dei sudanesi. Tutti rifugiati col permesso di soggiorno. Venivano da Palermo. Una tenda che sarebbe stata buona pure per affrontare il deserto, pecore pronte per la macellazione halal e un coltellaccio che Bashir (lo chiameremo così) maneggiava con maestria.
Era il periodo più nero. Nessuno ancora associava Rosarno ai migranti. Attentati, rapine e aggressioni erano quotidiani. Gli africani non erano solo il carburante per l’economia della zona, ma anche il divertimento per i criminaloidi del paese che amavano picchiarli senza motivo. Il gioco della “Nazionale” consisteva in una corsa col motorino sulla strada principale, un colpo secco contro quelli che camminavano a piedi (i neri) e via tra le risate.
Poi scattò la scintilla della prima rivolta. Un balordo, al culmine di una assurda rapina, sparò alle gambe di due ivoriani. Era il dicembre del 2008. Gli africani si presentarono in massa dai carabinieri di Gioia Tauro. I militari non credevano ai propri occhi. Il colpevole fu arrestato in poche ore. Era il killer della ‘ndrina Pesce, specializzato in spedizioni punitive a Milano. Voleva derubare braccianti poverissimi. Alcuni di loro, in pieno inverno, portavano ciabatte di plastica.
Nel centro di Rosarno c’era la Rognetta. Un vero rudere sfondato, senza nemmeno il tetto. Ci stavano soprattutto gli arabi. In origine era una fabbrica che produceva succo d’arancia per la Fanta. Dopo la rivolta fu immediatamente sgomberata e rasa al suolo. Quando le ruspe buttarono giù tutto, c’era ancora il tè sul fornello e una scacchiera con le pedine in posizione.
Claustrofobia
Invece è ancora in piedi il rudere dell’Opera Sila. Un impianto destinato a produrre olio, rapidamente abbandonato. Gli africani lo occuparono dal 2010. Lì c’era la più assurda delle abitazioni che ho visto. I silos per l’olio, tubi di metallo alti diversi metri.
Djibril sorrise e disse: «Vieni a vedere la mia casa». Aprì un oblò e vidi le coperte buttate dentro. Era una specie di enorme lavatrice, che però si estendeva enormemente in altezza. Per sconfiggere il freddo era necessario chiudere. Ricordo il tonfo sordo dell’oblò. La parola “claustrofobia” non rende l’idea. Stare chiusi là dentro era come provare la propria tomba.
Gli altri, più fortunati, riuscirono a portare delle tende da campeggio dentro un palazzo fatiscente. Da lì poi partì la rivolta del 2010. Sul muro di quell’orrendo edificio scrissero: «Avoid shooting blacks». Perché nonostante tutto l’abitudine non era sparita. Per gioco o per noia, c’era chi continuava a usare i braccianti africani per il tiro al bersaglio. Quando in massa andarono in centro spaccando auto e vetrine, allora finalmente gli italiani capirono che era il caso di smettere.
Vietato sparare ai neri
«We will be remembered», aggiunsero sui muri. I ghanesi erano filoamericani. Conoscevano bene la storia degli Usa. Steven mi disse che stavano continuando la lotta. «Quale?», chiesi. Quella contro la schiavitù. «I nostri figli saranno liberi».
Dai campi di cotone dell’Alabama agli aranceti di Rosarno. Sembrava una esagerazione. Ma quando apparvero le prime squadre cambiai idea. Non avevano cappucci e torce ma maglie nere, taniche e bastoni. Li cercavano dappertutto. Provarono a incendiare i casolari coi neri dentro. La polizia sgomberò in poche ore chiunque non avesse la pelle bianca. Qualcuno fuggì nelle gallerie del treno. A piedi. Di quei giorni da incubo è rimasta scarsa memoria.
Poi l’anno dopo, per rimediare, il governo attrezzò un campo. I container erano quelli che usa la Protezione civile dopo un terremoto. Qua serviva per la raccolta delle arance. Distante dal paese, ospitava all’ingresso un regolamento da collegio. Non si esce di notte, i “velocipedi” si parcheggiano negli appositi spazi. E soprattutto non si fa “propaganda politica”. Ma i pochi che riuscirono ad accedere erano contenti. Almeno avevano un bagno vero.
Vivo in Africa, morto in Europa
Il campo container era palesemente insufficiente. E così dal 2012 arrivò la tendopoli. Anche qui la Protezione civile, tende blu da disastro umanitario. A pochi passi i grandi capannoni dei commercianti di agrumi. In mezzo i caporali. Grazie allo Stato i negrieri avevano a disposizione la manodopera a portata di mano. Arrivavano la mattina e sceglievano. Queste storie sono agli atti dell’inchiesta “Men at work” della Procura di Palmi.
Tornai anche l’anno successivo. Lungo la strada vidi un signore anziano. Era il gennaio del 2014. «Serve un passaggio?», chiese. Stava per piovere e montai su senza pensarci. Riconobbi il sindaco di San Ferdinando. Era spesso in tv per denunciare le condizioni della tendopoli. Intorno era nata una baraccopoli con casette a tre strati, come nel ghetto di Foggia. Il primo di cartone, il secondo di lamiera e il terzo di plastica, per fermare la pioggia. Nessuno, dallo Stato agli enti locali, poteva pagare la bolletta. Così le tende erano fredde, non c’era modo di usare le stufe elettriche. Meglio quindi costruirsi una casetta “coibentata” alla meno peggio. L’inverno era piovoso. Nel 2013, per mesi, si videro tende vuote e casupole piene.
Dominic è morto. È sfuggito alla guerra in Liberia per lasciare la pelle in Europa. Morto di freddo a 31 anni sotto lo stemma della Repubblica italiana. Il sindaco ha paura che succeda ancora. Dentro una tenda c’è un ghanese che delira per la febbre. Solo la telefonata dell’autorità permette a un’ambulanza di arrivare in tempo. L’uomo si prodiga, tutti lo conoscono. «San Ferdinando è un piccolissimo comune», dice. E allarga le braccia. «Non abbiamo mezzi». Né soldi né uomini: appena un vigile urbano in pianta organica. Neanche nove mesi e finirà ai domiciliari per concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe favorito la ‘ndrina dei Bellocco-Cimato. Le accuse, ovviamente, sono tutte da provare e il procedimento giudiziario non è concluso.
Veneti africani
Tre anni fa, invece, mi hanno ospitato nella più strana delle abitazioni degli africani di Rosarno. Un appartamento vicino la stazione. Sembrava un sogno vedere un contesto “normale” dopo decine di capannoni sfondati, casupole diroccate in aperta campagna, pentoloni per riscaldare l’acqua bruciando rametti.
Sono in otto. Dormo in una stanza con tre letti. Ibrahim ruba al sonno ancora qualche minuto. Sta facendo un Powerpoint con le foto di tutti i posti in cui ha lavorato. Dal Piemonte – dove dormiva accampato in una tenda – alla Calabria. Alle cinque suonano le sveglie dei cellulari. Escono ordinatamente e in silenzio, dopo un tè veloce. Il bagno è lavato con regolarità, molti sono musulmani. Qual è la differenza tra loro e gli altri? Un salario regolare. Lavorano nel progetto equo “Sos Rosarno”.
Per tanti africani la vita in appartamento era la norma. Capita spesso di ascoltare neri in Calabria che parlano con l’accento veneto. Ibrahim stesso lavorava a Treviso. Licenziati dalle fabbriche del Nord, sono costretti a retrocedere in massa nelle campagne del Sud. «Loro vivono così al loro paese», dicono spesso gli italiani guardando le baracche. È la peggiore delle offese.
“Voi dovere pulire”
Siamo al 2015. Seguo i ragazzi di Emergency dal capannone alla tendopoli. Entriamo. Anche in dieci in una tenda. Ma almeno quest’anno c’è la corrente elettrica. E, di giorno, ci sono i volontari italiani. «Voi dovere pulire», dice uno. Parla all’infinito a gente che, mediamente, conosce tre lingue. L’italiano, poi francese o inglese, e chiaramente wolof o altra lingua africana.
Come al solito ci si capisce poco. Il dialogo è scarno. Gli africani sono al massimo un’emergenza umanitaria. Boubakar viene da Dakar. O, meglio, da Livorno. Faceva l’ambulante e viveva in un normale appartamento. Lo aspettano gli amici. È vittima di una truffa, quella della sanatoria come colf fittizio. Ma era l’unico modo di avere un permesso di soggiorno. Lo Stato gli sottrae 100 euro al mese per un pezzo di carta. Indica l’edificio scassato. Le scale sono senza ringhiera. Decine di bombole a gas accese. Basta una fiammella e cento tende possono diventare torce. Coperte, cartoni, stivali e valigie andrebbero a fuoco in un istante. Da una fontanella prendono l’acqua, ma sicuramente non è potabile.
Il capannone nella zona industriale (2014)
Sauro è appena stato in Sudan. È un operatore bolognese di Emergency. Appena scesi dall’auto mi indica il capannone. Un cubo di cemento senza finestre, senza proprietario – nessuno sa indicarcelo – senza corrente elettrica. Teli di plastica nera impediscono al freddo di entrare. È la casa di oltre seicento africani. Vengono da Ghana, Senegal, Gambia. Ancora una “fabbrica”.
«Ici c’est boutique», hanno scritto all’ingresso del negozietto che vende di tutto. Se non è con la fede, sopravvivi con l’ironia. In fondo sono solo pochi mesi. La primavera prima o poi arriva.