Entra. Sguardo a terra. «Devo fare… una denuncia». «Attenda lì», gli dico. Si siede, sfoglia «Polizia Moderna». Venti minuti di attesa. «Può entrare». «Un’estorsione», dice. «Ho subito un’estorsione». Alto, giubbotto di pelle, vestito di nero. Orologio d’oro. Non si toglie gli occhiali da sole nemmeno sotto i neon della nostra squallida stanzetta. «Un’estorsione?» È sempre più in imbarazzo. Ecco, racconta. Stavo cercando un panino, ero su via Eulalia. Come mai così in periferia, dove abita?, gli chiedo. Nomina una zona centrale, affitti alle stelle e vip come condomini. E cosa ci faceva lì?, domando. Mi risponde – gliel’ho detto prima, avevo finito di lavorare e avevo fame. Poi mi sono, ecco, mi sono perso. Ho chiesto indicazioni, sono sceso dalla macchina e mi hanno aggredito. Era circa l’una. Ma li ha visti in volto?, gli chiedo. E come potevo vederli in volto? Era buio pesto.
Questa storia puzza. Banfi non la conta giusta. Banfi è il bestione che ieri ha parcheggiato la sua enorme Audi fuori dall’ufficio, in doppia fila, è entrato con molto imbarazzo e ha raccontato di essere stato rapinato su via Eulalia all’una di notte mentre cercava un panino. Oggi è tornato, lo ha interrogato il Galletto. È uno pesante, il Galletto, di quelli che non hanno tempo da perdere. E così Banfi è crollato. Era andato a trans, del resto solo io in tutto l’ufficio non sapevo che via Eulalia è famosa per quello. Se ha consumato o no un rapporto, non ce lo dirà mai. «Questa è l’unica cosa che non saprete mai», dice. Nemmeno sotto tortura. Ok, dice il Galletto. Forse non è importante. Racconta però tutto il resto.
«Sono sceso dall’auto e Marcelo mi ha aggredito. Sì, è brasiliano, brasiliana, insomma, avete capito. E’ molto alto. Mi ha sbattuto contro la portiera, ma io faccio arti marziali bendato, è il mio hobby, sono molto forte, sapete…». Sì, ok, continua, dico a Banfi. Quanto mi fai schifo, penso. Quanto sudi. «Con un colpo al rene ho immobilizzato Marcello, ma a quel punto da dietro un cespuglio è saltato fuori una specie di animale». Animale? Che animale? Sei sicuro, Banfi? «Certo che sono sicuro. Parlava marocchino».
Prendiamo le foto. Dieci foto di trans di nazionalità brasiliana di corporatura robusta già segnalati per reati vari. Dieci foto di marocchini segnalati come papponi. Naso schiacciato, rasato, altezza media. La selezione prosegue, Banfi appare incerto. Nessun marocchino corrisponde alla descrizione. Uno che ha gli stessi tratti non ha mai fatto il pappone. Il Galletto ha un colpo di genio. Yuri. Yuri è un noto pappone, parla arabo, ma ha un nome slavo, una madre di Casablanca, un padre bosniaco e per incasinare gli uffici anagrafe d’Europa è nato a Salisburgo. Naturalmente è apolide. «Banfi, guarda la foto di Yuri». È lui.
Andiamo a prenderli. Yuri si difende. Lui e Marcelo sono una coppia famosa. Hanno sulle spalle diverse denunce per rapina. Amano ripulire i clienti di carte del bancomat, cellulari e – quando ci riescono – dell’autovettura. Sembra tutto chiaro. Yuri è proprio nei guai. E il suo problema più grosso è quella faccia inespressiva. Lombroso ci avrebbe fatto uno studio. Ma c’è qualcosa che non quadra. È quella strana serenità interiore. Sembra uno che già conosce il suo destino.
Yuri è fottuto, mi dice il Galletto. Banfi lo ha riconosciuto. Gli è saltato addosso con una bottiglia rotta. Banfi ha provato a difendersi. L’araboslavo lo ha colpito alla tempia e gli ha fatto un taglio allo zigomo. Intanto Marcelo gli chiedeva cento euro per lasciarlo andare. Ha provato a prendere le chiavi della macchina, voleva rubargli anche l’Audi. Poi dice che si è infilato nell’auto ed è riuscito a scappare. Rapina, estorsione e tentato omicidio.
«Non è vero», signor commissario, dice Yuri. E col suo tono inespressivo racconta che Banfi si è appartato in macchina con Marcelo. Sono tornati, urlavano. Banfi diceva 50, Marcelo gridava 100, siamo rimasti per 100, italiano ricco pezzo di merda. Dammi 100. Sono scesi dall’auto e hanno iniziato a picchiarsi. Allora io sono uscito dal cespuglio dicendo pezzo di merda, dai 100 e vai via. È vero, avevo una bottiglia rotta, ma lui picchiava come un matto. Mi ha spinto e ha provato a infilarsi nell’auto per andare via senza pagare. Marcelo si è infilato nell’Audi e ha provato a prendere le chiavi della macchina, senza riuscirci. Banfi nel frattempo ha preso il cric dal retro. Siamo scappati. Prima Marcelo gli ha preso cento euro dal portafogli. Questa è rapina? La rapina voleva farla lui non pagando Marcelo. Questo è tentato omicidio? Ma se ci ammazzava, per poco. Se non scappavamo.
«Signor Presidente della Corte, ma come sono diventate le nostre città, invase da cotanti criminali stranieri? Che fine ha fatto la nostra bella Italia?», dice l’avvocato di Banfi. Le versioni sono due; e sono inconciliabili. Da un lato un italiano ricco, di destra, imprenditore. Si occupa di prestiti e prodotti di alta finanza. Ha un ottimo avvocato e la sua storia non presenta crepe particolari. Dall’altro lato due stranieri, un trans e un balordo. Sono noti per rapinare i clienti. Hanno molti precedenti. Anche la loro storia, tuttavia, è perfettamente credibile. Non ci vuole un genio del diritto per capire che i due stranieri sono fottuti.
«Perché ha fatto denuncia?», chiedo al Galletto. «Secondo me ha raccontato una palla solo per recuperare i 100 euro». «Non ha senso», ribatte lui. «Per recuperare 100 euro? Uno che ne guadagna tremila al mese? E per una banconota da 100 uno si sputtana col mondo? Uno che lavora con la gente, ed è la gente che gli deve firmare i contratti. E le brave famiglie italiane non affidano i loro soldini a uno che va a trans».
Poi arriva la sentenza. La campanella come a scuola, in piedi come a messa. Entra la corte, Yuri è impassibile. Il mondo si ferma. L’ultima e poi sarà pausa pranzo. Per la corte è la decima sentenza, oggi. Una routine che trasforma le parole contorte in vite devastate. Una sfumatura aggiunge o toglie mesi e anni. Il mondo si ferma nell’attimo che precede la sentenza. Voi che pensate che tutto si risolva chiudendo la porta di una cella e buttando la chiave. Voi che chiedete «l’inasprimento della pena». Voi dovreste provare quei cinque secondi prima, quando il respiro si interrompe. E quei cinque secondi dopo, quando la terra sprofonda e tu con lei.
Incontro Rodolfo in birreria. Compagni di scuola, vite separate. Io in Polizia, lui sostanzialmente intellettuale nullafacente. Ogni tanto ci vediamo. Ho il sospetto che voglia estorcermi storie utili ai suoi racconti autoprodotti. A me piace raccontare, dunque nessun problema. Non mi ascoltano in molti. Gli parlo di Yuri. Il sottoproletariato, esordisce. È caduto in bassa fortuna. Sono innumerevoli i filoni letterari che lo esaltano. Le canzoni di Brel e Brassens, riprese da De André. Assassini senza pentimento e prostitute dei moli. «Se non sono gigli / son pur sempre figli / vittime di questo mondo». Rom e vagabondi. Marinai e papponi. E poi i pirati e tutti i fuorilegge. Per gli anarchici sono un riferimento. Per i comunisti ortodossi no, tutta l’attenzione è per le classi produttive. Anche per le destre conservatrici sono importanti. Aumentano la paura della brava borghesia e portano voti. I bassifondi di Parigi e il ventre di Londra. Tagliagole e mendicanti. Nella società dei due terzi, quella dominata dalla classe media, vince il giustizialismo. Celle, cancelli, manette, certezza della pena. Per i cattolici sono essenziali. Devono essere salvati. Balordi e puttane, rapinatori e marginali. Il margine illumina il centro. «Molto interessante», penso. «Intanto Yuri è in una cella lurida. Condannato senza attenuanti».