Dietro Torre Maura, il gioco dell’oca degli sgomberi

  La questione rom nella capitale risale agli anno '90 ed è stata affrontata in un solo modo: reclusione etnica. La giunta Raggi non sembra discostarsi da quel modello e deve affrontare le conseguenze degli sgomberi voluti da Salvini. La concentrazione dei rom genera razzismo e paure, moltiplicati dalla strumentalizzazione neofascista
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“Legalità e ordine prima di tutto”, disse Matteo Salvini. “Un capolavoro da applausi”, spiegò Beppe Grillo. Si riferivano rispettivamente allo sgombero del Camping River – un campeggio diventato campo rom a Prima Porta, periferia nord di Roma – e al piano di Virginia Raggi che avrebbe impedito la creazione di nuovi insediamenti. Era il luglio del 2018. “La fine della mangiatoia”, l’uso esclusivo di fondi europei e una “terza via” che univa legalità e umanitarismo erano gli slogan di una propaganda che sul momento assicurò consensi alla coppia Salvini-Raggi. Ma che a breve avrebbe mostrato tutte le sue crepe.

Cosa crea il razzismo? Il rom o il campo rom?

Si arriva così all’inizio di aprile 2019, quando il trasferimento di pochi rom in un centro di accoglienza a Torre Maura scatena una protesta neofascista culminata con la scena fortemente simbolica dei panini calpestati.

A questo punto – come un copione prestabilito – inizia il solito spettacolo. I media parlano come al solito di “guerra tra poveri” (ignorando che i rom sono semplicemente vittime), dei disagi del quartiere, riscoprono le periferie porgendo il microfono ai pochi che scendono in strada per lamentarsi di tutto. Infine riprendono la consueta narrazione ossessiva (“Siete razzisti?” “Non siamo razzisti ma…”).

Il 6 aprile, infine, un corteo necessario e partecipato, con oltre 500 persone, ribadisce l’importanza dell’antifascismo ma non va oltre lo slogan del momento (“Non mi sta bene che no”) e sostanzialmente rimane ancorato sulla difesa dell’accoglienza. Cioè la causa del problema.

Due eventi

La questione, negli ultimi anni, è legata a due grandi eventi. Il primo fu la guerra nella ex Jugoslavia, che causò la partenza di un grande numero di rom, soprattutto bosniaci e poi kossovari. Il secondo, l’apertura della frontiere dell’Unione europea con l’ingresso di Romania e Bulgaria. In questi paesi i rom vivono in condizioni di segregazione e discriminazione ancora peggiori di quelle italiane. Per molti sembrò una buona scelta quella di spostarsi verso occidente.

Gli obiettivi erano concentrare e allontanare

A queste “emergenze” (una rientrata con la fine della guerra, l’altra ormai stabile da anni) il comune di Roma rispose con i “villaggi della solidarietà”, quando c’erano le giunte di sinistra e con i “campi attrezzati” con quelle di destra. La sostanza tra Veltroni e Alemanno non cambiava, soltanto sfumature “solidaristiche o securitarie”. Gli obiettivi erano identici. Recintare, concentrare e allontanare dalla vista i rom della capitale.

Il modello del campo etnico è stato criticato da tutti: dall’Unione Europea, dai difensori dei diritti dell’uomo, dalle associazioni. Divenne un caso unico in Europa. Le conseguenze sono state drammatiche: la segregazione portava all’emarginazione, quindi ai reati, quindi a maggiori pregiudizi. Alimentando il circolo vizioso tra nuova segregazione e nuova emarginazione.

Mangiatoia

In più, i costi sempre crescenti portarono all’equazione tra accoglienza, intervento sociale e “mangiatoia”. Nel 2014, si arrivò a una spesa di 24 milioni per recintare 8mila rom. Con “Mafia capitale” l’equazione divenne un dogma. L’accoglienza non era stata gestita male, divenne un male in sé.

In realtà si tratta di un sistema dove pochi lucrano sfruttando appunto l’emergenza, secondo lo schema della shock economy. E pagano in troppi: per primi i beneficiari, che rimangono senza una vera prospettiva di inclusione; e gli operatori, spesso precari e con condizioni di lavoro scadenti.

La Barbuta, Gordiani, Salone, Candoni e Camping River disegnarono una geografia paradossale. Campi rom, ma di stato. Fonti di disagio ed emarginazione, ma con i soldi pubblici. Queste politiche non hanno avuto successo in termini di inserimento abitativo e lavorativo, o di scolarizzazione. La maggior parte delle spese riguardava i costi di gestione e sicurezza.
Allora superare i campi divenne la parola d’ordine che metteva tutti d’accordo.

Applausi

Si arriva così alla giunta Raggi e a quel “piano da applausi” salutato da Beppe Grillo in persona. Si sarebbe finalmente superato lo scoglio contro cui avevano sbattuto tutti i sindaci di Roma dagli anni ’90? A un certo punto interviene l’uomo della ruspa. Al ministero dell’Interno si insedia Matteo Salvini, intensificando gli sgomberi (che non iniziano certo con lui), come da campagna elettorale.
Partiva così il gioco dell’oca che avrebbe portato ai fatti di Torre Maura.

Il Camping River era appunto inizialmente un campo prima gestito dal comune con un ente gestore e poi divenuto un insediamento di fatto. Era pieno di persone a loro volta provenienti dallo sgombero del campo informale Casilino 900. Lo sgombero del Camping River – salutato da Salvini come il trionfo della legge – innesca il meccanismo che vediamo in tutti i casi del genere: Piazza Indipendenza, via Curtatone, Via Scorticabove, ex Penicillina.

Alcuni sgomberati finiscono semplicemente in strada, altri – ritenuti “vulnerabili” – vengono inseriti nel circuito dell’accoglienza comunale. Separando spesso le famiglie. E nel sistema dell’accoglienza, nonostante la promessa di usare soltanto fondi europei, si intravedono ancora i vecchi sistemi del passato. “La sindaca di Roma Virginia Raggi sta proponendo la soluzione dei campi o dei centri monoetnici che sono già stati sperimentati a Roma dal sindaco Gianni Alemanno”, afferma Carlo Stasolla. “I costi di questo tipo di modello sono altissimi, si parla di 450 euro a persona al mese, senza alcuna reale possibilità di inclusione”, continua il presidente dell’Associazione 21 luglio.

La causa del razzismo

Si arriva così a Torre Maura, perché appunto alcuni sgomberati del Camping River stavano per essere “accolti” nella struttura di via Codirossi, un palazzone dipinto di celeste circondato da grate.

Dopo le proteste, tutti parlano dei rom senza preoccuparsi minimamente di sentire la loro voce. L’associazione 21 luglio, una delle poche realtà che si occupa di loro, pone una domanda cruciale: “Cosa crea il razzismo? Il rom o il campo rom?” Ed ecco la risposta: “Su tutto il quadrante est della Capitale, dove insiste anche Torre Maura, il tasso di residenti stranieri è molto alto e altrettanto elevato è quello delle famiglie rom che da decenni vivono, in una convivenza pacifica, in case private o in alloggi dell’edilizia residenziale pubblica”.
Dunque sono i luoghi di concentrazione etnica a suscitare le proteste. Campi e centri dove l’assistenzialismo genera assuefazione quando va bene, emarginazione e reati quando va male. E si allontana la possibilità di un inserimento.

In questa mappa, la situazione surreale del 6 aprile. Pochi partecipanti al presidio di CasaPound di fronte alle telecamere per ore, mentre il centro di accoglienza è chiuso e circondato dalla polizia

A questo si aggiunge una sorta di Truman Show mediatico che crea sempre più spazio per i movimenti neofascisti. Il 6 aprile, mentre centinaia di persone sfilavano in nome di valori democratici, tutti le telecamere erano a favore di un delirio contro “gli zingari”. I quali, per l’ennesima volta, rimanevano senza volto e voce.

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