Se i muri potessero parlare, si dice a volte. I muri non parlano, e neanche i poveri. Quelli che fanno i lavori più faticosi, patiscono la fame e vengono inviati a morire in guerra. I poveri non possono parlare, perché non conoscono la grammatica e gli editori non pubblicano i loro libri. Eppure avrebbero tante cose da raccontare.
C’è una eccezione, ed è merito di Einaudi, che ha adattato e pubblicato il diario di Vincenzo Rabito, bracciante di Chiaramonte Gulfi (la Sicilia del ragusano), nato nel 1899 e protagonista di una vita avventurosa, conclusa degnamente: chiudendosi a chiave nella sua stanza per sei anni. E ogni giorno, dal 1968 al 1975, senza dare spiegazioni a nessuno, ha ingaggiato una estrema lotta contro il proprio semi-analfabetismo.
Con una vecchia Olivetti ha scritto una dopo l’altra un’infinità di pagine fitte, senza spazi e punteggiatura. Un flusso ininterrotto di storie, commenti amari e vicende raccontate in una lingua nuova e ostica. Che non è italiano, che non è dialetto e che nessuna opera di editing poteva trasformare. L’hanno lasciata così com’era.
Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato in via Corsica a Chiaramonte Qulfe… Mille pagine a interlinea zero e senza margini per raccontare le trincee della Prima guerra mondiale (uno straordinario diario della vita di soldato), poi le bombe della Seconda e l’esperienza senza misericordie del Ventennio, la scelta di andare a fare il minatore in Germania e poi nell’Africa coloniale per sfuggire alla fame, pure il flagello di una suocera terribile, la fame atavica del Sud contadino sostituita dall’improvviso benessere della «bella ebica» del boom economico.
E infine una privatissima ed estrema battaglia per consegnare ai posteri “Terra matta”. “Epopea dei diseredati”, l’ha definita l’editore. Il punto di vista delle classi senza ricchezza e cultura codificata, diremmo meglio. Spesso uno sguardo persino ironico. Tragicomico, come la lotta per la sopravvivenza contro la povertà estrema del mondo contadino di inizio Novecento e le scelte dei potenti che usano le masse come carne da macello.
E poi il boom, che per Rabito significa ottenere appalti nelle strade cantoniere, con un senso della legalità inversamente proporzionale – come è ovvio che sia – all’istinto di sopravvivenza che ha segnato tutta la sua esistenza e quella delle masse povere. Quindi gli sforzi per far studiare i figli, sistemarli, elevarli di ceto come avvocati o ingegneri. E infine la lingua.
Non scoraggiatevi subito. Sicuramente la mescolanza di italiano e siciliano è difficile da leggere, ma è l’unico registro in grado di restituire questa estrema e vitale lotta per la sopravvivenza, contro la fame, la povertà, gli eserciti, i regimi, i climi tropicali, le parentele sbagliate e infine il destino infame di chi è nato per “non vivere”.