Il lavoratore egiziano ucciso durante uno sciopero alla GLS di Piacenza, ha fatto una proposta per tutti noi. Lottare non solo per sé stessi, ma in solidarietà con gli altri. Non essere più soli. Non farci dividere con finte patrie e finti confini. Siamo in grado di accogliere la sua idea?
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Tratto dalla bacheca Facebook di Maria Elena Scandaliato
Non mi serve una lapide, ma
se a voi ne serve una per me
vorrei che sopra stesse scritto:
Ha fatto delle proposte. Noi
le abbiamo accolte.
Una simile scritta farebbe
onore a noi tutti. (B. Brecht)
Il primo picchetto che ho visto in vita mia era fatto da stranieri. Egiziani, peruviani, marocchini. Tutti facchini. Erano davanti ai cancelli dell’Esselunga, un magazzino enorme subito fuori Milano, a Pioltello. Uno di quei posti dove ogni tanto, tra le casse di banane pronte per i supermercati, spuntano panetti di cocaina.
Era l’alba, faceva un freddo cane e mi sa che stava pure piovendo. I facchini bloccavano l’ingresso e l’uscita dei camion, mentre da dietro i caschi gli agenti in tenuta antisommossa controllavano la situazione, in attesa che il capo ordinasse di liberare l’ingresso a colpi di manganello.
All’improvviso arrivò a tutta velocità una Mercedes con i vetri oscurati
All’improvviso – lo ricordo bene – arrivò un’auto di grossa cilindrata, una Mercedes con i vetri oscurati. Si lanciò sul picchetto a tutta velocità, con l’intento di travolgerlo. I facchini si spostarono di un soffio, e l’auto inchiodò per evitare di sfasciarsi contro il cancello. I facchini la circondarono, battendo sul cofano con le mani.
Fu un attimo, e un energumeno di due metri per centoventi chili, con l’accento napoletano, saltò fuori dall’abitacolo con le braccia alzate, lanciando sberle a mano aperta contro chiunque fosse a tiro. Beccò un uomo, più anziano dunque più lento, e un agente della Digos, per il quale venne chiamata un’ambulanza.
I facchini gli si lanciarono addosso, ma fece in tempo a chiudersi nell’auto e scappare via.
Episodi come questo, in seguito, ne ho visti altri. Come ho visto lavoratori “sindacalizzati” con le gambe spezzate, aspettati sotto casa da gruppi di spranghe vigliacche. O dirigenti sindacali lasciati agonizzanti sull’asfalto, invitati a un incontro per essere picchiati selvaggiamente. E poi gomme di auto squarciate, minacce, licenziamenti selettivi. A qualcuno che aveva parlato troppo è stata perfino “fatta trovare” in macchina della cocaina, cui è seguito l’arresto, il carcere e l’espulsione dall’Italia.
Ecco: questa è la cornice.
Il quadro, invece, è quello di lavoratori immigrati – ricattabili, ovvero: “ti licenzio, se fai casino ti arresto, perdi il permesso di soggiorno e torni in Africa” – che fanno cose che i lavoratori, qui in Italia, hanno dimenticato almeno dagli anni Settanta: lottare per quei basici, ormai miserrimi diritti che ci restano. A tutti noi.
Lottare non come fanno i lavoratori italiani, che prima di perdere il lavoro e il portafogli chiedono il “permesso” alle grandi organizzazioni sindacali. A quei politburo pachidermici annichiliti da vent’anni di concertazione a perdere, ridotti ormai a società di servizi, enti bilaterali che si occupano di dichiarazioni dei redditi o del recupero di qualche mensilità in caso di licenziamento illegittimo.
Ho visto sindacalisti picchiati selvaggiamente, lasciati agonizzanti sull’asfalto, minacciati.
Questi qui, questi “alieni” sbarcati dieci o vent’anni fa senza scarpe né documenti, alzano la testa. Non solo per se stessi, ma in solidarietà con i loro colleghi. Anche quando non vengono colpiti in prima persona. Che non significa essere rivoluzionari, anticapitalisti, ecc. ma più semplicemente avere chiaro in testa il concetto di dignità. Che davvero non ha prezzo, non si vende né si compra. Mentre noi, ormai, siamo abituati a svenderla per un anno in più di cassa integrazione; perché “io però devo pagare il mutuo e c’ho due figli”; perché, in fin dei conti, ci sentiamo soli. Sempre in cerca di soluzioni individuali. A problemi che però sono collettivi. E che senza una soluzione collettiva non lasciano scampo.
Ieri Abd Elsalam è stato ammazzato. E mica voleva morire: non è un eroe. Faceva una cosa normale, che in questo Paese è diventata straordinaria. E quindi gli ha fatto fare una fine “straordinaria”, che verrà chiamata “omicidio stradale”, o “incidente”, o chissà, l’ipocrisia sa fare acrobazie che ancora non conosciamo.
Però, da quello che ho letto, Abd Elsalam – che aveva già un contratto a tempo indeterminato, e stava lavorando – era lì per il reintegro di alcuni operai, licenziati perché iscritti al sindacato. E per la stabilizzazione di altri tredici colleghi. Un tipo di solidarietà concreta – una solidarietà di azione – che ho visto tante volte tra i facchini – immigrati – della logistica.
Quindi: Abd Elsalam ha fatto delle proposte. Chiare, limpide. Siamo in grado di accoglierle? Se non siamo in grado (io non lo sono, ad esempio), non scriviamo il suo epitaffio. Lasciamo la lapide nuda, in attesa della rabbia che scolpisce la pietra.
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Sulla morte di Abd Elsalam. Cosa significa solidarietà di azione
Tratto dalla bacheca Facebook di Maria Elena Scandaliato
Non mi serve una lapide, ma
se a voi ne serve una per me
vorrei che sopra stesse scritto:
Ha fatto delle proposte. Noi
le abbiamo accolte.
Una simile scritta farebbe
onore a noi tutti. (B. Brecht)
Il primo picchetto che ho visto in vita mia era fatto da stranieri. Egiziani, peruviani, marocchini. Tutti facchini. Erano davanti ai cancelli dell’Esselunga, un magazzino enorme subito fuori Milano, a Pioltello. Uno di quei posti dove ogni tanto, tra le casse di banane pronte per i supermercati, spuntano panetti di cocaina.
Era l’alba, faceva un freddo cane e mi sa che stava pure piovendo. I facchini bloccavano l’ingresso e l’uscita dei camion, mentre da dietro i caschi gli agenti in tenuta antisommossa controllavano la situazione, in attesa che il capo ordinasse di liberare l’ingresso a colpi di manganello.
All’improvviso – lo ricordo bene – arrivò un’auto di grossa cilindrata, una Mercedes con i vetri oscurati. Si lanciò sul picchetto a tutta velocità, con l’intento di travolgerlo. I facchini si spostarono di un soffio, e l’auto inchiodò per evitare di sfasciarsi contro il cancello. I facchini la circondarono, battendo sul cofano con le mani.
Fu un attimo, e un energumeno di due metri per centoventi chili, con l’accento napoletano, saltò fuori dall’abitacolo con le braccia alzate, lanciando sberle a mano aperta contro chiunque fosse a tiro. Beccò un uomo, più anziano dunque più lento, e un agente della Digos, per il quale venne chiamata un’ambulanza.
I facchini gli si lanciarono addosso, ma fece in tempo a chiudersi nell’auto e scappare via.
Episodi come questo, in seguito, ne ho visti altri. Come ho visto lavoratori “sindacalizzati” con le gambe spezzate, aspettati sotto casa da gruppi di spranghe vigliacche. O dirigenti sindacali lasciati agonizzanti sull’asfalto, invitati a un incontro per essere picchiati selvaggiamente. E poi gomme di auto squarciate, minacce, licenziamenti selettivi. A qualcuno che aveva parlato troppo è stata perfino “fatta trovare” in macchina della cocaina, cui è seguito l’arresto, il carcere e l’espulsione dall’Italia.
Ecco: questa è la cornice.
Il quadro, invece, è quello di lavoratori immigrati – ricattabili, ovvero: “ti licenzio, se fai casino ti arresto, perdi il permesso di soggiorno e torni in Africa” – che fanno cose che i lavoratori, qui in Italia, hanno dimenticato almeno dagli anni Settanta: lottare per quei basici, ormai miserrimi diritti che ci restano. A tutti noi.
Lottare non come fanno i lavoratori italiani, che prima di perdere il lavoro e il portafogli chiedono il “permesso” alle grandi organizzazioni sindacali. A quei politburo pachidermici annichiliti da vent’anni di concertazione a perdere, ridotti ormai a società di servizi, enti bilaterali che si occupano di dichiarazioni dei redditi o del recupero di qualche mensilità in caso di licenziamento illegittimo.
Questi qui, questi “alieni” sbarcati dieci o vent’anni fa senza scarpe né documenti, alzano la testa. Non solo per se stessi, ma in solidarietà con i loro colleghi. Anche quando non vengono colpiti in prima persona. Che non significa essere rivoluzionari, anticapitalisti, ecc. ma più semplicemente avere chiaro in testa il concetto di dignità. Che davvero non ha prezzo, non si vende né si compra. Mentre noi, ormai, siamo abituati a svenderla per un anno in più di cassa integrazione; perché “io però devo pagare il mutuo e c’ho due figli”; perché, in fin dei conti, ci sentiamo soli. Sempre in cerca di soluzioni individuali. A problemi che però sono collettivi. E che senza una soluzione collettiva non lasciano scampo.
Ieri Abd Elsalam è stato ammazzato. E mica voleva morire: non è un eroe. Faceva una cosa normale, che in questo Paese è diventata straordinaria. E quindi gli ha fatto fare una fine “straordinaria”, che verrà chiamata “omicidio stradale”, o “incidente”, o chissà, l’ipocrisia sa fare acrobazie che ancora non conosciamo.
Però, da quello che ho letto, Abd Elsalam – che aveva già un contratto a tempo indeterminato, e stava lavorando – era lì per il reintegro di alcuni operai, licenziati perché iscritti al sindacato. E per la stabilizzazione di altri tredici colleghi. Un tipo di solidarietà concreta – una solidarietà di azione – che ho visto tante volte tra i facchini – immigrati – della logistica.
Quindi: Abd Elsalam ha fatto delle proposte. Chiare, limpide. Siamo in grado di accoglierle? Se non siamo in grado (io non lo sono, ad esempio), non scriviamo il suo epitaffio. Lasciamo la lapide nuda, in attesa della rabbia che scolpisce la pietra.
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