Ghetto Economy. Sfruttare è un modo di produzione

  Da Nord a Sud si moltiplicano i distretti dello sfruttamento. Zone ricche e povere, commercianti mafiosi e grandi multinazionali, grande distribuzione e piccoli produttori, braccianti africani e donne rumene. Tutti attori di un meccanismo che ha un solo obiettivo: produrre al minor costo possibile. Calpestando i diritti e contando le vittime
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Dal sud della Spagna alla Grecia, fino a Puglia, Sicilia e Calabria, tutta l’Europa mediterranea produce alla stessa maniera i prodotti agricoli per i mercati del Nord.

Noi vediamo i ghetti, le tendopoli, le baracche. Ci sembra un’emergenza umanitaria. E come tale la affrontiamo: Protezione civile, assistenza, kit sanitari.

Ma non vediamo quello che c’è dietro: un modo di produzione. Cioè un sistema che comprime al massimo i costi, sia nelle zone ricche che in quelle povere. E che produce orrori di ogni tipo.

1. Iniziamo il viaggio dal Sud della Sicilia

Siamo nell’estrema punta della Sicilia, a sud di Tunisi. Siamo nella costa conosciuta perché a pochi passi c’è la casa di Montalbano.

Questa è una realtà dai due volti. Da un lato la più grande produzione industriale in serra di ortofrutta in Italia. Dall’altro lo sfruttamento sessuale e gli aborti clandestini. Siamo al centro di un sistema che esporta in tutta Europa annullando il tempo e le stagioni. Pomodori, zucchine, melanzane. Qui matura a gennaio, sotto la plastica, quello che altrove è pronto a giugno.

Ma per anni le peggiori brutalità sono rimaste nascoste nel silenzio delle campagne. Migliaia di donne romene lavorano in questa zona. Spesso hanno con sé i figli piccoli. Nel totale isolamento possono subire ogni genere di violenza sessuale.

L’enorme estensione delle serre in provincia di Ragusa

Lo sfruttamento sessuale deriva dal ricatto del lavoro da parte dei padroni e dall’assenza di diritti. Ma in tanti hanno negato, hanno fatto finta di niente, hanno nascosto gli orrori con i sorrisi complici.

Intanto gli italiani diventano padroni della loro vita e della loro morte. Sono padroni in tutti i sensi. Le rumene hanno una “considerazione inferiorizzata” di tutti gli uomini: tunisini, rumeni, italiani. «Qualunque cosa possono farci, loro sono niente», dice Adriana.

Di fronte a certi orrori lo sfruttamento sul lavoro passa quasi in secondo piano. Anche se significa salari da dieci euro al giorno, temperature di fuoco sotto i teloni, veleno che può rovinare i polmoni, la pelle, gli occhi. Per non parlare delle “fumarole”. Quando di notte bruciano piante secche e fili di nylon, di mattina si soffoca. Così si produce in buona parte l’ortofrutta che troviamo in tutti i supermercati.

“Possono prendere il mio corpo. Possono farmi tutto. Ma l’anima no. Quella non possono toccarmela. Qualunque cosa possono farci, loro sono niente”
Una donna romena a Vittoria

2. Corigliano

Adesso siamo in Calabria. Tra Corigliano, Schiavonea e Rossano. Qui ogni inverno migliaia di donne e uomini dell’Est arrivano per la raccolta delle clementine. Guadagnano talmente poco che neanche gli africani accettano questo lavoro.

Allo sfruttamento si aggiunge una violenza senza paragoni. Ragazze uccise, bambini bruciati, cadaveri contesi.


Treno contro auto, rissa per contendersi i cadaveri dei braccianti romeni

Nessuno è risparmiato: donne rumene, ragazze italiane, braccianti agricoli. Persino un bambino di tre anni. Una situazione estrema che ricorda quella messicana. La Calabria sembra distante, infinitamente lontana. Ma è il nostro Sudamerica.

3. La rivolta

Nel gennaio del 2010 tutto il mondo parlava della rivolta di Rosarno. Gli africani si ribellavano contro la violenza mafiosa e lo sfruttamento. Dopo l’ennesima aggressione, la comunità dei migranti interrompeva l’abitudine a subire tipica degli abitanti del luogo. O, almeno, di gran parte di loro.

Gli africani, nell’immaginario dell’allora ministro dell’Interno Maroni, erano pericolosi “clandestini” senza diritti e documenti.

Nella realtà, erano cittadini del mondo globale. Che si ispiravano alla storia americana e volevano proseguire la plurisecolare lotta contro la schiavitù.

Dopo il 2010 abbiamo visto tende, baracche, capannoni abbandonati.
Una emergenza umanitaria che nasconde un sistema economico iniquo. Dove alcuni guadagnano e altri sono sfruttati.
Non tutti sopravvivono. Un liberiano è morto di freddo (in Europa) dopo essere sfuggito alla guerra (in Africa). È solo uno dei tanti.

4. Gli invisibili

I giornalisti si riferiscono spesso ai migranti come “invisibili delle campagne”. Eppure li abbiamo fotografati, ripresi, raccontati per almeno vent’anni.

I veri invisibili sono invece multinazionali, commercianti, intermediari mafiosi. Di loro non sappiamo molto. Anche se spesso sono quelli che guadagnano dalla filiera dell’arancia.

Il pomodoro è il simbolo della dieta mediterranea. Ma è anche una filiera che inizia coi caporali e finisce con le multinazionali. Qui a Foggia convivono schiavismo e grandi aziende giapponesi. Società finanziarie londinesi e camionisti campani. Ricchissimi e poverissimi.

Non esiste la povertà, solo la ricchezza distribuita male

Rifugiati e cittadini europei

Chi sono gli sfruttati nei campi? Per la maggior parte, sono coloro che si muovono nell’ambito dell’asilo politico. Oppure cittadini europei.

I primi dovrebbero essere protetti, invece rischiano la vita nei campi di pomodoro. Spesso sono rifugiati africani incastrati nei nostri confini da leggi europee surreali.

Insieme a loro ci sono bulgari e romeni. Cittadini europei.

Missionario nella sua nazione

Oggi Arcangelo è tornato in Svizzera. Qui, da bambino era un emigrato siciliano. Si nascondeva nell’armadio quando qualcuno bussava, per paura dei controlli.
“A Basilea sono cresciuto col timore della polizia, con la paura che ci cacciassero via”, racconta. “Ero un clandestino“. Le leggi di quel paese prevedevano, per gli emigrati italiani, una stanza per ogni figlio. Altrimenti la casa non era abitabile e scattava lo sgombero. “Quando qualcuno bussava correvo a nascondermi”.

Ghetto Economy
Volontari nel ghetto di Foggia

Sa cosa significa non avere documenti, subire ricatti. Per questo, per molti anni, ha lavorato come missionario nel Ghetto di Rignano. Missionario nella sua stessa nazione. Tra i braccianti di mezza Africa e le donne nigeriane, insegnava italiano, riparava le bici, promuoveva vertenze sindacali.

In mezzo a mille lavoratori al limite della sopravvivenza. Migliaia di braccia a disposizione dei caporali. Un bacino perfetto per le aziende. Manodopera flessibile e a basso costo, pronta a raccogliere il pomodoro che verrà esportato in tutti i continenti. Persino in molti paesi dell’Africa, dove il doppio concentrato italiano è un prodotto comune.

Per molti anni è stata emergenza umanitaria. Per la raccolta della frutta, esattamente come al Sud. Con  i container della Coldiretti, le tende blu del Ministero dell’Interno. E recinzioni ovunque, immondizia maleodorante, abiti stesi sotto la pioggia, carcasse di biciclette, fuochi accesi.

Così il distretto agricolo più ricco d’Italia ha trattato i suoi lavoratori.

Stessa cosa a Canelli. Da un lato bottiglie di Moscato da cento euro, dall’altro una doccia fredda per i vendemmiatori bulgari. Secondo un sindaco le dure condizioni li avrebbero convinti ad andarsene. In provincia di Asti le contraddizioni sono evidenti. E ci dicono che lo sfruttamento non dipende da quanto è ricco il padrone.

Il viaggio di un pelato

Nella foto vedete un barattolo comprato nel centro di Roma. Riporta la scritta “Importe d’Italie”. Perché?

“È verosimile che sia stato venduto a un grossista inglese”, dice la ditta che li ha confezionati. Dall’estero sarebbe tornato in Italia. Le merci sono libere di viaggiare, gli esseri umani no.

Si può ascendere in virtù di una forza discendente
– Cccp

Nell’abisso la speranza

Dalla rivolta di Rosarno allo sciopero di Nardò, i braccianti africani impegnati nelle raccolte hanno dimostrato di essere soggetti attivi. Non vittime senza volto e nome. Si sono ribellati alla camorra e alla ‘ndrangheta a Castel Volturno e Rosarno. Hanno scioperato in Puglia.

Hanno lottato anche per gli italiani. E, spesso, al posto degli italiani.

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