Soldi, non immagine: perciò Coca-Cola lascia Rosarno

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Pubblicato su “Linkiesta

ROSARNO (Rc) – Adesso Mohamed sarà veramente meravigliato. Per vent’anni ai raccoglitori di arance africani è toccato vivere nei casolari di campagna col tetto sfondato. Oggi la prima multinazionale al mondo dice che si farà carico delle loro condizioni. «Siamo pronti a discutere quel che può fare un cliente importante come Coca Cola, magari insieme ai tanti altri clienti del settore, per migliorare la situazione di accoglienza dei migranti», dice a Linkiesta. L’impegno arriva però solo in seguito allo scandalo internazionale seguito al reportage della testata inglese Ecologist. Che associava l’azienda di Atlanta alle bestiali condizioni di sfruttamento della Piana di Gioia Tauro.

Andiamo via, Rosarno costa troppo
L’articolo è stato pubblicato da qualche ora e subito si sparge tra le vie del paese la voce che l’azienda statunitense ha deciso di andare via. Non è una ritorsione, spiega Coca Cola: “Quel contratto stagionale non è stato rinnovato a seguito di una normale gara tra i nostri fornitori certificati”.

La vera ragione ce la rivela il sindaco di Rosarno, Elisabetta Tripodi. “Ho parlato al telefono con Branca, il fornitore della Coca Cola. Effettivamente il contratto non era stato rinnovato qualche giorno prima dell’articolo, uscito il 24 febbraio. L’azienda locale aveva chiesto un aumento sul prezzo del succo concentrato. Era anche disposta a contrattare ma loro sono stati irremovibili”.

«Mi danno sette centesimi al chilo per le arance da succo», dice un piccolo produttore all’Ecologist. «Quindici centesimi sarebbe un prezzo equo», secondo Coldiretti. Nel frattempo tutti si mostrano eccessivamente riservati. Per qualche giorno il nome del fornitore calabrese della Coca Cola è una specie di segreto di Stato. «Non possiamo dirlo, non vogliamo fare la sua fine», ci dice l’impiegato di una piccola industria di trasformazione del luogo. «La nostra policy ci impedisce di rivelare i nomi dei fornitori», spiega Coca Cola. Una dipendente di Branca nega l’evidenza: «Non rilasciamo nessun commento».

Una filiera complessa
«La nostra azienda compra succo di frutta concentrato da produttori locali che a loro volta si approvvigionano presso consorzi e coltivatori individuali della zona. È una filiera abbastanza complessa e suggeriamo che per dettagli vi rivolgiate alle autorità locali», ci dice Coca Cola.

Nel corso degli anni sono emersi diversi elementi preoccupanti sul sistema economico locale. Per esempio il circuito mafioso delle imprese legate al clan Pesce. Nell’ambito dell’operazione “All Clean”, lo scorso autunno la Dda di Reggio Calabria ha sequestrato una cooperativa per la raccolta e la commercializzazione di agrumi, numerose ditte di trasporto su gomma, due di imballaggio in plastica e in cartone.

Come fa una grande multinazionale a controllare che nella filiera non ci sia mafia o sfruttamento? “Tutti i nostri fornitori diretti sono oggetto di audit regolari. Certo non possiamo sistematicamente controllare ogni singolo consorzio e coltivatore indipendente lungo la filiera ma i nostri fornitori di succo hanno dichiarazioni da un ampio numero dei consorzi che li riforniscono che attestano la loro conformità alle leggi e alle nostre linee-guida”. L’ultima verifica nella Piana risale allo scorso maggio. E aveva dato risultati positivi.

Il bracciante di Accra, capitale del Ghana, e il ragazzino che beve la Fanta non si conosceranno mai. Ma sono il primo e l’ultimo anello della catena globale del succo d’arancia. Si inizia in autunno, quando matura il biondo da industria, un agrume inadatto al bancone del supermercato ma buono per la spremitura. I piccoli produttori (qui la proprietà è molto frazionata) vendono il “frutto pendente” ai commercianti, solitamente per 6-7 centesimi al chilo. I commercianti vendono alle industrie che a loro volta producono il concentrato e lo rivendono a multinazionali come Coca Cola. Oppure a grossisti che hanno rapporti con i grandi produttori di soft drinks.

Il rifiuto di pagare un prezzo maggiore potrebbe creare un effetto a catena. È pratica abituale scaricare il disagio sul livello inferiore. Il bracciante africano che lavora per 20 euro al giorno è l’ultimo anello di questa politica commerciale. In più, tre inchieste della magistratura hanno messo in evidenza il ruolo del caporalato. In tutte le campagne del Sud capita spesso che un commerciante organizzi una squadra da 20 persone per velocizzare la raccolta. Il “capo” può essere un migrante che vive da tempo in Italia e fa valere la sua rete di relazioni. Oppure un negriero capace di decurtare i salari o “ridurre in schiavitù” i connazionali, come accadeva nel 2009 quando tre importanti imprenditori furono arrestati per aver assoldato due caporali bulgari. I “capi” reclutavano manodopera a basso costo, sequestravano i passaporti, percuotevano i lavoratori (dell’Est e maghrebini), trattenevano una parte della misera paga di 23 euro.

La prima indagine del genere risale al 2008. Il proprietario si rivolge a una organizzazione per valutare la quantità di “frutto pendente”. Un “misuratore a occhio” stima la quantità presente e offre una cifra. Una società – sulla base di un regolare contratto – si impegna a procurare il personale per la raccolta. Al primo livello tutto è legale, nel gradino successivo un caporale italiano e un maghrebino procurano manodopera irregolare a basso costo. Subito dopo la rivolta del gennaio 2010, l’indagine “Migrantes” evidenziava ancora una volta l’uso di caporali per la raccolta da parte di una ventina di aziende agricole della zona.

Il terzo mondo in casa nostra
Nel 1996 il settimanale Life pubblicò la foto dei bambini pakistani impegnati a cucire un pallone col marchio Nike. Da allora si sono moltiplicati i casi di grandi marchi sorpresi a rifornirsi in territori dove i diritti umani sono violati. Pensavamo che fossero problemi lontani, ora li ritroviamo a casa nostra. Ma nel frattempo cosa hanno fatto le multinazionali? Sostanzialmente promuovono “linee guida” che vengono sottoscritte dai loro partner. Chi vende a Coca Cola si impegna a non usare lavoro minorile, a proteggere l’ambiente, rispettare i diritti sindacali, mantenere un ambiente di lavoro salubre e non discriminare i dipendenti. Infine a pagare un “applicable wage”. Le linee guida di Coop sono simili. L’azienda “predilige i fornitori i cui stipendi garantiscono almeno la soddisfazione dei bisogni di base”.

Qual è la differenza tra Coca Cola e Coop? Ci risponde Franco Ciappelli, responsabile della social compliance di Coop Italia. «Il nostro obiettivo non è quello di rescindere un contratto che ha “sporcato” l’immagine sociale del nostro prodotto. Potrei dire: questo lo butto fuori e siamo tutti a posto, così come hanno fatto nel tempo alcune multinazionali del tessile sportivo. Così farei moltissimo danno ai lavoratori. Dobbiamo mantenere il confine sottile tra il nostro potere contrattuale – fare la voce grossa – e il mantenimento del presidio a favore delle figure più deboli della filiera. Dobbiamo esercitare l’autorevolezza, non l’autorità».

«Non prendiamo le clementine da tutti», spiega ancora Ciappelli. «La responsabilità sociale è parte integrante del contratto. Facciamo anche verifiche su retribuzione e sicurezza. La piaga è il salario decurtato anche del 40%. Noi pretendiamo la presenza di buste paga e intervistiamo i lavoratori senza la presenza dei titolari. Coop Italia, da qualche anno, ha spostato le produzioni calabresi verso la Piana di Sibari. Non siamo in Svizzera, ma le situazioni sono più semplici da gestire rispetto a Rosarno».

«Condizioni di lavoro africane, prezzi sudamericani», si lamenta un produttore calabrese. «Ma siamo in Europa o no? I nostri lavoratori – italiani e stranieri – sono in regola. Vendiamo tramite un grossista che prende dal 12 al 16% di ricarico. Poi loro rivendono a Coop. Firmiamo un accordo di fornitura con cui ci impegniamo a dare la paga minima. Ogni anno abbiamo la visita di un funzionario che si occupa del sistema di qualità Coop. Le clementine, in media, sono pagate 50-60 centesimi. Il costo di produzione è intorno ai 25 centesimi (raccolta, imballaggi, consegna in magazzino). Il guadagno è zero. Sono prezzi da fame. Le arance tarocco sono pagate ancora meno».

«Qualche volta recepisco queste lamentele», ribatte Ciappelli. «Posso rispondere che l’entità del contratto è sempre rilevante e che si tratta di progetti di lunga durata. E aggiungo che quando Coop firma un contratto altri produttori si aggiungono. Attenzione, magari prendete una lira in meno però acquisite altri contratti. Perché dove arriva Coop arrivano i distributori internazionali».

Da due anni l’associazione Equosud sta provando a costruire un’alternativa tramite i Gas (Gruppi di acquisto solidale). Il loro punto di vista è differente. Secondo gli attivisti “la Grande Distribuzione Organizzata governa questo come gli altri gironi infernali dell’agricoltura italiana”.

Mentre parliamo al telefono con Elisabetta Tripodi, “il pirata” viene condannato a cinque anni. Lo scorso agosto, Rocco Pesce aveva inviato dal carcere milanese di Opera una lettera a metà tra le minacce e le insinuazioni. “Non ho inquinato l’aria che respirate”, scriveva. “Mi disturba che l’amministrazione comunale ha tra le sue priorità il benessere dei extracomunitari clandestini, anziché i problemi dei miei familiari sofferenti”. La giunta ha acquisito al patrimonio comunale la casa del boss, occupata dalla mamma ma abusiva.

Dopo quell’episodio Tripodi è stata messa sotto scorta. Il primo marzo arriva la condanna per “minacce nei confronti di un corpo amministrativo per impedirne o per turbarne l’attività”. Con l’aggravante dalle modalità mafiose.

La tensione a Rosarno è comprensibilmente alta. C’è chi accusa il primo cittadino di “proteggere i neri”, quelli che nel dicembre 2008 andarono dai carabinieri per descrivere l’uomo che aveva sparato contro due di loro. E che successivamente risulterà uno dei killer dei Pesce. Lunedì 5 marzo è una giornata storica per la cittadina. Ritorna il “Premio Valarioti”, il riconoscimento intitolato al martire dell’antimafia ucciso nel 1980. Da sette anni non si teneva più. Una targa è per Giuseppe Lavorato, ex sindaco, compagno di partito di Valarioti, pioniere delle costituzioni di parte civile e dell’uso dei beni confiscati.

L’africano e la multinazionale
“Come azienda radicata nel territorio e attiva in questo settore siamo ovviamente interessati a mantenere la sostenibilità e la competitività della produzione locale di agrumi e siamo pertanto pronti a sederci con i fornitori e le autorità locali, tra cui il sindaco di Rosarno”, dice Coca Cola. Immagina un “futuro di business reciprocamente vantaggioso”.

“Coca-Cola Company” è il produttore di bevande più importante del pianeta. Soltanto i marchi valgono oltre 15 miliardi di dollari. Le bibite del gruppo sono servite al ritmo di 1.7 miliardi di consumazioni al giorno in tutto il mondo. “Localmente impieghiamo 4000 persone e, indirettamente, si stima che 46600 persone lavorino nella nostra catena di approvvigionamento”.

Ibrahim Diabate è nato in Costa d’Avorio. “Arrivo in Italia dopo aver attraversato il Sahara dal Mali verso la Libia, poi salgo su un’imbarcazione di fortuna verso l’Italia”, racconta. “Devo cercare un lavoro e decido di andare a Rosarno. Qui scopro una realtà che nemmeno immaginavo. Invano cerco un alloggio da prendere in affitto, come si fa nei paesi civili e non razzisti. Ma non ho alternative: devo andare a vivere in un ghetto. Sì, un ghetto. Mi metto nelle mani di Dio e tiro avanti. Un gruppo di case abbandonate fuori paese, a una decina di chilometri, dove non c’è acqua corrente e nemmeno elettricità, dove non ci sono le condizioni minime per vivere. Nel ghetto ci sono centinaia di persone che hanno perduto ogni speranza. Costrette in condizioni di vita inaccettabili per qualunque cittadino europeo. E, quindi, inaccettabili da qualunque essere umano”.

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