Era l’11 settembre. “Ci hanno chiesto di sintonizzarci sulla frequenza del canale interno di Sigonella, ed abbiamo visto su uno schermo in bianco e nero le Torri Gemelle che prendevano fuoco.
All’inizio si è pensato ad un incidente. Abbiamo poi capito che non si trattava di un incidente quando è arrivato il secondo aereo, poi il terzo. La reazione degli americani ? In una parola: smarrimento. Si sono trovati letteralmente smarriti di fronte ad un attacco interno con mezzi americani, con vittime esclusivamente o quasi americane, in territorio americano.
Abbiamo avuto una quarantina di minuti per seguire quanto stava accadendo, dopo di che per tutti i lavoratori civili è arrivato l’ordine di lasciare immediatamente lo scalo. Nella fretta, molti hanno lasciato i computer accesi ed il lavoro interrotto, molti altri hanno dimenticato di timbrare il cartellino. Ci hanno detto di andare via, di tornare a casa a tempo indeterminato e che sarebbero passate due o tre settimane prima del rientro. C’era una colonna di oltre 300 macchine in uscita, e nessuna automobile poteva entrare. In quei momenti scattava a Catania, così come qualche ora prima ad Aviano, il piano “Delta”, il livello più alto di allarme prima dello stato di guerra.
Uscendo abbiamo visto i militari schierati davanti ai cancelli in equipaggiamento da battaglia, con caschi e visiere, ed armi da fuoco. Dopo due giorni c’è stato un passaparola tra i colleghi, si poteva rientrare e seguire normalmente i turni di lavoro”. È il racconto sintetico ed essenziale della reazione alla notizia degli attacchi contro New York, in una delle principali basi Usa nel Mediterrano: Sigonella, nominalmente in territorio siciliano.
Se Aviano, in Friuli, è la “portaerei” sui Balcani, la base siciliana è da sempre l’avamposto per il Medio Oriente. Con la crisi in corso, la guarnigione, forte di circa 5000 militari, potrebbe aumentare come del resto sono cresciuti gli investimenti (solo negli ultimi anni, 65 milioni di dollari) assieme all’interesse della Nato per il “fianco sud”. Alcuni lavori di ampliamento, il cosiddetto piano Mega II, sono stati un affare da 180 miliardi, aggiudicati alla cooperativa “rossa” Cmc di Ravenna.
Durante la guerra del Golfo la base di Sigonella ha ospitato i caccia Tomcat F14 e A6 Intruder e gli aerei radar Awacs. Nel 1997, è stata la retrovia logistica per le principali operazioni militari nel Mediterraneo ed in Medio Oriente. Nel febbraio del 1998, quando si è sfiorata una nuova guerra del Golfo e i missili americani hanno di nuovo colpito Baghdad, Sigonella è tornata in prima linea. Come lo è stata durante il conflitto Nato-Serbia, quando sulle sue piste sono arrivati gli aerei spia “U2” ed i quadrimotori EP-3, come quello catturato dalla Cina.
Ma Sigonella è anche una storia di privatizzazione selvaggia e di licenziamenti ingiusti, di appalti “stranamente” convenienti per gli americani e per la mafia locale. E anche una storia di resistenza, quella di Salvatore Ventimiglia, uno del “Popolo dei cancelli”.
Per undici anni segretario della Cgil trasporti di Catania, per sedici anni operaio all’aeroporto militare di Sigonella, per più di 40 mesi “non riassunto” nel suo posto di lavoro, la più grande installazione navale Usa nel Mediterraneo, e da 8 settimane in attesa dell’esecuzione della sentenza del Tribunale che obbliga il consorzio a reintegrarlo ed a pagargli quanto gli spetta. Sono questi in estrema sintesi i numeri della storia di Salvatore Ventimiglia, dal ‘81 al ‘97 uno delle centinaia di operai italiani che lavorano nella base. Quindi il cambio di appalto nei servizi aeroportuali e l’arrivo della multinazionale Usa Pae, che toglie il posto alla napoletana Alisud con un ribasso all’asta del 40 per cento, che, curiosamente, corrisponde al taglio dei salari, e infine un nuovo elenco di 256 assunti in cui Ventimiglia e altri 13 lavoratori non compaiono.
Una “non riassunzione” senza motivazioni credibili, che tutti hanno interpretato come una palese ritorsione contro un dirigente sindacale che si era rifiutato di firmare l’accordo che decurtava i salari. “La Pae sosteneva una tesi incredibile, e cioè che io non lavorassi a Sigonella”, racconta Ventimiglia. “E tutto questo nonostante prove di ogni tipo, dai pass d’ingresso ai permessi speciali ad operare nell’area aeroporto fino ai cartellini regolarmente timbrati”. Da allora la storia del sindacalista procede parallela con quella del “popolo dei Cancelli”, il gruppo di lavoratori che a partire dal 31 maggio 1997 ha avviato un presidio continuo davanti agli ingressi della base, ha pagato sulla propria pelle il prezzo di 4000 ore di sciopero, ha subito due interventi della polizia in assetto antisommossa contro picchetti pacifici, ha sopportato centinaia di sanzioni disciplinari ed ha affrontato 34 licenziamenti poi rientrati.
Il 5 Luglio 2001, alle 15,25, la riassunzione, sancita con la sentenza della Corte d’Appello Sezione Lavoro del Tribunale di Catania. Il tribunale “dichiara che fra il Consorzio Pae-Am e Ventimiglia Salvatore è in corso, a decorrere dall’1.6.97 un rapporto di lavoro subordinato avente gli stessi parametri contrattuali di quello già in precedenza esistente fra il Ventimiglia e la società Alisud; condanna il Consorzio Pae-Am al pagamento, in favore del Ventimiglia di una somma pari a tutte le retribuzioni dovute in base a tale rapporto di lavoro dall’1.6.1997 sino ad oggi, oltre rivalutazione monetaria secondo dati Istat ed interessi legali sulle somme via via rivalutate ed oltre la rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio”.
“Una sentenza” commenta il diretto interessato, “che contrariamente al costume italiano appare chiara, limpida, netta. Da un lato si afferma il mio diritto al lavoro, dall’altro si riconoscono le ragioni della vertenza”. La sentenza è anche una rivincita per i tanti momenti di difficoltà e solitudine, per le amarezze, come i 12 mesi di pretestuosa sospensione dalla Cgil.
Inizialmente, l’idea di rinunciare a parte del salario ed ai diritti sindacali in cambio del mantenimento del posto di lavoro era stata rigettata dalla pronta reazione di un gruppo organizzato di lavoratori, nonostante le crescenti difficoltà. “Un’azienda che si presenta ad un appalto deve sapere che non può operare ribassi sconsiderati, rifacendosi poi sul costo del personale”, dice Ventimiglia. “Salvo un breve periodo, un assegno mensile per decisione cautelativa del pretore di Giarre, non ho percepito alcuna retribuzione”. Nemmeno una lira negli ultimi anni, insomma.
Alla fine di settembre, scatterà la nuova gara d’appalto, che si concluderà a febbraio. Quindi da 5 a 7 mesi di face in – face out, fase di transizione e passaggio delle consegne tra vecchio e nuovo gestore. Se dovesse vincere ancora la Pae, che tra l’altro ancora non ha reso esecutiva le sentenza Ventimiglia, non lo ha reintegrato e non gli ha versato una lira, si preannunciano tempi ancora più difficili per i lavoratori.
Per un centinaio di famiglie catanesi gli ultimi anni sono stati scanditi da cariche della polizia, promesse non mantenute, tensioni interpersonali, solidarietà internazionali per quella che è stata la più intensa e difficile vertenza sindacale degli ultimi anni. Anni di lotta segnati da alleanze temporanee e voltafaccia, ma anche da solidarietà profonde come quelle dei colleghi napoletani di Capodichino o dei portuali di Liverpool.
Il primo giugno del 1998, in uno spiazzo ricavato nei pressi della base, il regista Ken Loach era l’ospite d’onore che celebrava la coraggiosa lotta dei lavoratori siciliani per il diritto alla dignità. “The Flickering Flame” era il titolo del documentario di Loach dedicato ai dockers inglesi. “Si tratta di una fiammella tremolante contro i venti del neoliberismo”, hanno detto i rappresentanti dei lavoratori. “Ma noi ci auguriamo che presto diventi una fiamma”.
Nello stesso anno la procura di Catania avviava l’operazione Saigon, una impressionante ricostruzione del sistema degli appalti interni alla base, a partire da fine anni ’80.
Dalla pulizia degli alloggi degli ufficiali alla cura dei giardini, dalla costruzione dell’ospedale fino alle opere di manutenzione, appalti per svariati miliardi arricchivano la galassia di imprese del clan Santapaola. E mentre noti mafiosi esibivano il “nulla osta sicurezza” della Nato, i lavoratori “rossi” venivano sottoposti alla stretta sorveglianza dalla security.