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«Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso». Mi piace, lo rileggo spesso. È un brano di “Cristo si è fermato a Eboli”. L’unico libro che ho letto in vita mia. Secondo me lì c’è tutto. Perché dovrei leggere altro? Ogni tanto mi fermo e ci penso. L’Italia è l’unico paese in cui raccogliere le patate diventa un’emergenza umanitaria. Per le arance in Calabria arriva la Protezione civile: con i container da dopo terremoto. Per la vendemmia ad Alcamo la Croce Rossa mette su una tendopoli. Stessa cosa a Cassibile per le patate. È emergenza anche in Basilicata e nel Salento. Arriva “Medici senza frontiere”. Intervengono i prefetti e le unità di crisi. I volontari raccolgono acqua, coperte e cibo. Stagionalmente, a volte anche da vent’anni. Per emergenza umanitaria si intende una guerra, un uragano, una pestilenza. Non certo la raccolta del ciliegino.
«Noi vogliamo solo i documenti per lavorare», mi dicono spesso. Ho provato ad assumerli in regola, ma dopo tre anni la procedura era ancora ferma in Questura. E poi i poliziotti mi hanno trattato da criminale, da imputato. Tutte quelle domande sul reddito dell’azienda. Nel frattempo i pomodori li ho fatti raccogliere ai rumeni. Da quando sono cittadini dell’Unione Europea è tutto più facile, per noi e per loro. Se non c’è lavoro prendono un furgone e tornano a casa. Alcuni dicono: questi vengono qui e rubano il nostro lavoro! Mai visto un italiano nei campi. Tra l’altro, non ne abbiamo più la forza. Adesso il nostro obiettivo è la jeep.
Senza il SUV non sei nessuno, in paese. Pensiamo al conto personale e non a quello aziendale. Cerchiamo di riempire il primo e tenere in pareggio o in perdita il secondo. Vogliamo nascondere al fisco il reddito reale. I contributi regionali, statali o europei sono una “mucca da mungere” con l’inganno. Un po’ con le truffe all’Inps, un po’ quelle all’Unione Europea. E con i tanti falsi braccianti, persone non si sono sporcate mai col fango dei campi, ma che riscuotono il contributo di disoccupazione grazie a poche giornate l’anno. Dichiarate ma mai effettuate.
Gli stranieri possiamo imbrogliarli come vogliamo. Hanno bisogno del permesso di soggiorno, altrimenti li rinchiudono e li rimandano al loro Paese. E allora devono pagare, è l’unica strada. Sì, l’ho fatto pure io. Però non sono stato caro. Quattromila euro per un falso contratto di lavoro, c’è chi chiede anche diecimila. Se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto un altro, alla fine Tareq era contento. Poi è andato a lavorare in un’altra ditta, in nero. Una parte l’ha dovuta dare ai caporali; e alla fine ha pure litigato perché gli hanno pagato solo metà del lavoro. Capita. Qui è una giungla. Anche per me è così, per esempio quando stimano il frutto pendente. Arriva un misuratore, quasi sempre è d’accordo col commerciante. Io gli vendo per esempio il frutto di dieci aranci. Lui valuta il peso. Come? Con gli occhi. Una volta erano professionisti stimati, oggi sono piccoli truffatori pure loro. I peggiori sono gli usurai, però. Ti anticipano i soldi per le sementi o per un nuovo trattore. Mio fratello per un trattore nuovo ha perso tutta la casa.
Tutto il sistema si basa sulla truffa. E non è facile distinguere vittime e carnefici. Noi produttori siamo vittime dei mafiosi, che ci impongono le loro cassette o il trasporto sui loro camion. O il conferimento ai loro magazzini. Siamo vittime dei commercianti, a cui consegniamo zucchine e pomodori. Loro vanno a venderle a Fondi o Milano, ma solo dopo mesi sappiamo se e quanto hanno venduto. Abbiamo anticipato i soldi per sementi e concimi e non sappiamo se siamo ricchi o rovinati. Ogni annata è una lotteria. L`alternativa, diciamo così, è la grande distribuzione. Quella che fa fare il giro d`Italia ai prodotti. Il pomodoro che compro al supermercato magari viene dal mio campo in Puglia, ma è stato confezionato nel Lazio, portato alla piattaforma logistica di Napoli e poi rispedito qui. Se poi parte dalla Sicilia fa ancora più strada, ma sempre sui camion dei mafiosi. E allora ci arrangiamo. Con le truffe, pagando il meno possibile i lavoratori.
Meno male che ci sono gli stranieri. Costano poco, senza di loro noi spariremmo. E con noi tutta l’agricoltura del Sud. E l’agroindustria del Nord che si rifornisce qui. Tutti sanno ma va bene così. Va bene ai commercianti, che affidano le raccolte alle squadre di caporali. Va bene ai politici che possono raccontare la favola dei clandestini. Stranamente, va bene anche alla gente che fa la spesa, che paga molti euro un prodotto che a me viene pagato pochi centesimi. E nessuno pensa a chi sta in mezzo, a guadagnare da parassita.
Eppure nessuno di noi ha dimenticato Giuseppe Di Vittorio, amatissimo sindacalista di Cerignola, vicino Foggia, figlio di braccianti. Le lotte contro l`orario di lavoro “da sole a sole”, cioè dall`alba al tramonto. Quelle contro il caporalato, con i pulmini organizzati dal sindacato per portare i braccianti nei campi. Roba vecchia, oggi gli africani per tutti noi sono un’altra storia. Alla fine ha vinto il vecchio fatalismo del Sud.
I racconti scritti per RadioTre
Questi racconti sono tratti dal libro «Voi li chiamate clandestini», di Laura Galesi e Antonello Mangano, edizioni Manifestolibri [Scheda del libro]. Sono andati in onda su RadioTre Fahreneit.