La piazza romana di Porta Pia è celebre per la breccia che consentì ai soldati dei Savoia di entrare nello stato del Papa. «Nulla resiste al bersagliere», si legge sulla base del monumento visibile al centro dello spiazzo.
Ai lati della scultura, sono scolpite celebri battaglie, episodi eroici come quello di Enrico Toti ma anche una enorme disfatta. Sciara Sciat, 23 ottobre 1911. Il bassorilievo mostra i soldati che puntano pistole e baionette contro uno spaventoso nemico. Alle loro spalle, si protende una palma.
La battaglia dell’oasi
La storia inizia con Giolitti che decide di sottrarre la Libia all’Impero Ottomano. Il dibattito interno è polarizzato tra chi ritiene inutile conquistare “una scatola di sabbia” e chi parla di “quarta sponda” dell’Italia.
Ma il cuore del problema sono i rapporti segreti in possesso del governo, secondo cui il dominio della “Sublime Porta” è in piena decadenza. Giolitti gongola pensando agli arabi che non vedono l’ora di consegnarsi agli italiani.
Il 4 ottobre 1911, il generale Luigi Cadorna scrive al figlio: «Credo che sarà una spedizione da ridere». Non accade nulla di simile. Gli italiani devono fronteggiare la prima di una lunghissima serie di ribellioni degli arabi e dei berberi.
È anche la prima volta che un’auto-rappresentazione sbagliata provoca tragedie. Non sarà certo l’ultima. Gli italiani si dipingono come brave persone, che saranno accolte con calore dai dominati e rimangono meravigliati quando invece di applausi e salti di gioia hanno davanti agli occhi l’esercito ottomano fiancheggiato dalla guerriglia locale.
È la prima rivolta araba. Se la conquista dei porti è relativamente semplice, l’interno è tutt’altra storia. Curiosamente, gli italiani continuano a sentirsi traditi dagli arabi, che però non li avevano mai invitati a “liberare” la Libia.
«Vi diamo la nostra sacrosanta parola che porteremo il più grande rispetto al sesso femminile. Voi siete ormai nostri figli. Avete gli stessi diritti degli italiani», si legge nel proclama del governatore generale datato 7 ottobre 1911.
Inchiodati alle piante dei datteri
Non è sicuro che la rivolta abbia avuto origine dal mancato rispetto delle donne. Quello che è certo è mentre Tripoli è bombardata dalla flotta italiana, i musulmani celebrano il periodo sacro del Ramadan.
Il focolaio della ribellione è l’oasi di Sciara Sciat, nei pressi di Tripoli. Qui le truppe ottomane e gli arabi e i berberi delle montagne. È la rivolta generalizzata, definita “tradimento”.
«I nostri morti di Sciara Sciat giacciono insepolti ovunque: molti inchiodati alle piante di datteri come Gesù Cristo. A molti hanno cucito gli occhi con lo spago, molti sono stati messi sotto terra fino al collo, si vede solo la testa, moltissimi hanno avuto i genitali tagliati», racconta Felice Piccioli, uno dei rari superstiti.
La rivolta si estende sempre più. «A Tripoli, un maresciallo dei carabinieri piomba giù sotto i miei occhi con una palla nella schiena. Un bersagliere, mentre comprava dei limoni, viene pugnalato dal limonaio stesso», scrive Aldo Chierici, giornalista inviato in Libia.
La reazione
Parte la rappresaglia italiana. Oltre 4mila arabi sono uccisi in cinque giorni. Protestano gli inviati dei giornali stranieri per la durezza degli italiani. Giolitti afferma: «Quanto ai rivoltosi arrestati li manderò alle isole Tremiti, coi domiciliati coatti. Le isole possono ricevere oltre 400 detenuti».
Invece, tra il 25 e il 30 ottobre 1911, vengono imbarcano 3425 libici destinati alle Tremiti, Ponza, Caserta, Gaeta, Favignana.
A Ustica è il numero maggiore. «Luogo infetto, luogo puzzolente, luogo antigienico. Il colera ne ha sepolti più di 500 in poche settimane», scrive Paolo Valera, unico giornalista a visitare i luoghi di detenzione.
La reazione italiana è rabbiosa, sproporzionata. Il colonialismo italiano, quello liberale, si caratterizza subito per una crudeltà sopra le righe. È vero, il ricordo di Adua ancora brucia: si tratta della sconfitta ad opera delle truppe dell’imperatore etiope Menelik nel 1896, prima disfatta nella storia da parte di un esercito africano nei confronti di uno europeo.
Gli italiani hanno deciso che non ci saranno altre sconfitte e inaugurano una nuova pratica: la deportazione.
Ribelli e persone comuni, senza troppe distinzioni vengono trascinati ai porti libici e imbarcati nelle isole-prigione dell’Italia.