Schiavi del ricatto. Ecco chi sono i braccianti nei campi

  I migranti non sono tutti uguali. Ma così come gli italiani sfruttati, hanno una cosa in comune: sono sotto ricatto. Dai figli a carico al permesso di soggiorno, da un visto da ripagare alla trafila per l'asilo, ecco cosa definisce la schiavitù moderna
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A marzo l’opinione pubblica chiedeva la chiusura delle frontiere e il blocco dei porti, ad aprile i produttori agricoli volevano “corridoi verdi” e migranti nei campi. A causa del coronavirus le aziende avrebbero bisogno di 300mila braccianti. I principali assenti sono lavoratori e lavoratrici dell’Est. 

Questa situazione inedita aiuta a comprendere chi sono i lavoratori che sostengono l’agricoltura italiana. E anche perché non è facile sostituirli con lavoratori italiani.

Purtroppo, come accade spesso, alla retorica razzista si affianca quella paternalista. Anziché capire chi sono e cosa vogliono, sono definiti invisibili, schiavi, ultimi. I luoghi comuni nascondono una realtà assolutamente visibile: salari da fame basati su ricatti. E la differente nazionalità è importante solo per costruire un differente ricatto.

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Cinque tipologie

È possibile dividere i braccianti migranti in cinque categorie:

  1. stagionali comunitari dell’Est Europa;
  2. migranti subsahariani passati dalla richiesta d’asilo e che spesso vivono nei ghetti o comunque in situazioni informali;
  3. richiedenti asilo dei centri d’accoglienza alle prese con la trafila dei documenti;
  4. non comunitari che arrivano con i flussi stagionali;
  5. non comunitari arrivati con i flussi o regolarizzando un contratto di lavoro, spesso asiatici.

Est Europa

Il primo segmento è dunque quello dell’Est Europa. In grandissima parte si tratta di braccianti bulgari e romeni, con una componente femminile molto forte. 

Partono con auto, furgoncini o con i pullman di linea. A volte intere famiglie si spostano per le raccolte. Restano il tempo necessario e tornano ai paesi d’origine. Sono attratti soprattutto dalla differenza di valore delle monete: un leu rumeno equivale a 0,21 centesimi di euro.

Tra i migranti dell’Est che arrivano in Italia ci sono enormi differenze. C’è chi è inserito nel tessuto lavorativo e decide di prendere la residenza anagrafica. Ma ci sono anche condizioni di estrema fragilità: analfabeti delle regioni al confine con la Moldavia; persone di origine Rom emarginate già in patria; donne con situazioni familiari difficili; famiglie in condizioni di estrema povertà che viaggiano dalla provincia di Botosani fino a zone altrettanto problematiche in Italia. 

Apparentemente sono liberi di andare e venire. Ma proprio l’estrema fragilità della loro condizione li rende ricattabili. 

Il 20 dicembre 2019 il Tribunale di Catania ha condannato per riduzione in schiavitù una banda di rumeni. Motivando la sentenza, spiegava che gli schiavisti usavano a proprio vantaggio lo stato di vulnerabilità e necessità, cioè  l’“approfittamento” della situazione di debolezza, delle condizioni di estrema povertà, della non conoscenza della lingua italiana, dell’isolamento, del basso livello di istruzione.

L'”approfittamento” non riguarda solo i trafficanti e i caporali, ma anche e soprattutto le aziende che sfruttano lo scarso potere contrattuale della forza lavoro più debole.

Tra i fattori di vulneralibilità ci può essere l’analfabetismo così come i figli a carico. È quello che emerge nelle campagne del ragusano, dove le condizioni di lavoro sono spaventose e riguardano in particolare le braccianti rumene. Si parla di segregazione e isolamento nelle serre, molestie e violenze sessuali, situazioni abitative precarie. Eppure sono condizioni preferibili a quelle del lavoro domestico: in quel caso infatti non è possibile tenere con sé i figli. In questo modo la condizione familiare determina le scelte lavorative. 

Un caso diverso ma altrettanto problematico riguarda le vendemmie piemontesi. Storicamente sono affidate a cooperative di macedoni, che a volte usano come riservisti lavoratori bulgari. Una catena venuta alla luce nel 2013 quanto nel paese di Canelli si sono visti i primi accampamenti informali. Un accostamento decisamente inconsueto per un territorio abituato a vantare l’eccellenza dei propri vini.

Richiedenti asilo nei ghetti

Storicamente, in Italia le leggi sull’immigrazione regolano più il mercato del lavoro che gli ingressi.

Così il lungo iter dell’asilo ha creato negli anni un enorme serbatoio di manodopera a costo zero. 

È la terza tipologia di braccianti, quella maggiormente visibile, ma paradossalmente definita “invisibile”. Riguarda lavoratori generalmente subsahariani, sbarcati nel Sud Italia, ai quali è riservata la lunga trafila burocratica della richiesta asilo, di un diniego molto probabile, di una serie di ricorsi e attese. Un  limbo che dura fino a quattro anni. 

Per quelli che perdono il diritto all’accoglienza, si apre una sola prospettiva: un inesorabile scivolamento in un ghetto. I ghetti sono pieni, da tempo, di migranti a cui lo Stato rifiuta l’asilo.  Solo nel 2017, 55mila dinieghi hanno letteralmente creato un serbatoio di manodopera fortemente ricattabile da reperire negli insediamenti informali. 

Gli altri, quelli che possono stare in un centro d’accoglienza, sono solo in apparenza più fortunati.

I documenti in Questura, l’esame alla commissione asilo e il ricorso al Tribunale possono richiedere anni. Nel frattempo le famiglie in Africa pressano per ricevere soldi. 

Così trovano in Europa un incubo simile a quello che avevano lasciato. Lavoro sottopagato e condizioni disumane: grandi e piccole aziende, dalla Sicilia alla Toscana. Impiegati direttamente in nero o subappaltati a una cooperativa. Coperti da un minimo di ingaggio oppure in piena illegalità.

Del resto i costi della sopravvivenza – vitto e alloggio – sono a carico dello Stato. Così ci sono aziende che possono pagare 10 ore di lavoro con una manciata di monete.

Flussi stagionali

Un caso poco noto è quello dei flussi stagionali. Riguardano i lavoratori non comunitari e sostanzialmente sono stati ridotti, se non bloccati, negli ultimi anni.  Nel 2019 sono entrati in Italia con questo canale appena 12850 lavoratori, oltre a 18mila stagionali.

I flussi funzionavano male. Servivano per sanare la situzione dei lavoratori già presenti in Italia. O per organizzare truffe ai danni di migranti.

Una esempio è costituito dagli asiatici: indiani punjabi e bangladesi. Arrivano in genere con un contratto di lavoro in tasca, spesso fittizio. Per ripagare il “favore” di essere arrivati in aereo, sono spesso costretti a restituire il denaro pagato con anni di lavoro schiavile. Questo canale, incredibilmente, si inserisce da molti anni nel meccanismo della Bossi-Fini. Una vera trappola che prevede un contratto firmato a distanza intercontinentale, ma che alla fine sfocia nello sfruttamento più duro.

È anche vero che, in alcune zone del Nord Italia, i flussi erano un canale importante di reclutamento.

“A fronte di una richiesta di circa diecimila stagionali, il sistema dei flussi fornisce quest’anno solo 1200 lavoratori”, dichiarava il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni nel 2019. Già nel marzo di quell’anno Coldiretti chiedeva al governo con urgenza un nuovo decreto. Ma sia il presidente Conte che il ministro Salvini erano impegnati a bloccare i porti e a sostenere la blindatura delle frontiere italiane.

Si creava così il paradosso, già un anno fa, di una manodopera insufficiente in vaste aree come l’Emilia e il Veneto. A Saluzzo, nel centro del distretto agricolo di Cuneo, c’era invece una concentrazione di migranti con documenti precari, solitamente richiedenti asilo in attesa di un permesso, che si accampava nel grande spazio del Foro Boario.

Una catena che non si vede

Il concetto chiave è quello di schiavitù moderna. La “catena” dei nostri tempi è il ricatto, che coinvolge le persone più vulnerabili. Vulnerabili di per sé, per la loro situazione familiare o provenienza. Oppure perché rese vulnerabili da leggi che negano i documenti.

Sono la manodopera preferita da troppe aziende. Imprenditori che si definiscono vittime, dello Stato o di altri operatori del mercato più forti. Ma che sopravvivono o fanno profitti sui lavoratori vulnerabili.

Oggi la “catena” è una frase che richiama una finta libertà: “Se vuoi andartene quella è la porta, lì fuori c’è la fila di persone disposte a lavorare per meno”. Oppure: “Vai, perdi il lavoro e poi il permesso di soggiorno, così te ne torni al paese tuo con tutta la famiglia”.

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