"Nuovi schiavi" o "vittime dei caporali". Politica e media hanno subito narrato la vicenda di Satman Singh col consueto sguardo coloniale. Così si nascondono le responsabilità di un sistema economico strutturalmente basato sullo sfruttamento. E sugli orrori quotidiani
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Giugno 2024, Borgo Santa Maria (Latina). Satnam Singh, un lavoratore agricolo di 34 anni, rimane intrappolato in un macchinario agricolo mentre si occupa delle serre. La forte pressione gli causa la mutilazione del braccio e la frattura delle gambe.
Il padrone ha lasciato il braccio amputato in una cassetta della frutta
Il padrone definisce l’accaduto come “una leggerezza che ci ha rovinato tutti”. Non parla però del fatto che lui e la moglie del bracciante fossero impiegati da tre anni in nero, né che suo figlio ha abbandonato il corpo di Singh davanti al cancello del rustico dove alloggiava la coppia, avendo cura di lasciare in una cassetta della frutta il braccio amputato.
Questo particolare horror ha scandalizzato politici e media, che hanno parlato di “nuovi schiavi”.
Agricoltura o film dell’orrore?
La vicenda, tuttavia, non presenta grandi caratteri novità, neppure negli aspetti più cruenti.
Nel 2015, Ioan Puscasu, un bracciante rumeno impegnato nelle campagne a due passi di Torino, perde la vita mentre lavora – in nero – nelle serre dei peperoni. Emigrato dalla Romania, era arrivato in Piemonte per guadagnare di più. I padroni lo hanno spogliato, lavato, rivestito e spostato il cadavere per dimostrare che non lavoravada loro.
Nessun caporale in questa vicenda, anzi. Brave persone all’apparenza: una vecchina di oltre 80 anni, il figlio e il proprietario della masseria, tutti grandi lavoratori. Questo non ha impedito loro di trascinare un cadavere gonfio, togliergli gli abiti di lavoro, lavarlo con la pompa, inscenare un ritrovamento fortuito e dire al 118 che “il rumeno” non lavorava da loro.
Un cadavere spogliato, lavato e rivestito da una famiglia di bravi agricoltori piemontesi
Nell’estate del 2008, un caso simile nelle campagne di Mantova. L’indiano Vijay Kumar, 44 anni, viene lasciato morire nelle campagne di Viadana. Probabilmente la prima causa è l’insolazione. Ma nessuno soccorre l’uomo che muore lentamente, sotto il sole, a ridosso di un canale. L’imputato è un produttore ortofrutticolo. Secondo l’accusa, avrebbeimpiegato lavoratori senza documenti.
Nell’estate del 2019, infine, Anton Petrica sta lavorando nelle campagne di Giugliano, provincia di Napoli. Ogni giorno si alza alle quattro partendo da Parete, provincia di Caserta, cinque chilometri di distanza. Proprio lì lo riportano i caporali. Prendono il corpo, ancora in vita, e lo abbandono nei pressi dell’abitazione. La padrona di casa si accorge di lui, allerta i soccorsi, che lo trovano boccheggiante. Muore infine all’ospedale di Aversa.
Se lo avessero portato subito al pronto soccorso, probabilmente sarebbe ancora in vita. E i figli in Romania avrebbero ancora un padre. Ma in ospedale certamente avrebbero fatto domande, presentato moduli da compilare. Meglio nascondere la realtà fatta di lavoro nero e sfruttamento. Meglio prendere un corpo e lasciarlo in strada come fosse un sacco della spazzatura. Parete è a pochi chilometri da Villa Literno, nelle campagne dove trenta anni prima era stato ucciso Jerry Masslo.
Mangia italiano, muori (per mano di un) italiano
Negli ultimi anni, il marketing e la politica sottolineano senza interruzione il valore del “comprare e mangiare italiano”. Il cibo “Made in Italy” è diventato sinonimo di qualità e salute. Purtroppo, invece, chi conosce la realtà delle campagne italiane ha familiarità con questi racconti dell’orrore, così come con la totale assenza di mezzi di soccorso sui luoghi di lavoro.
Le aziende agricole sono in genere una giungla senza regole. I famosi “piccoli agricoltori” sono perlopiù anziani signori con cultura imprenditoriale molto limitata, che sopravvivono in realtà economiche minime e che puntellano le loro ditte a conduzione familiare con il lavoro sfruttato di braccianti ricattabili.
Secondo “Open“, l’azienda agricola Lovato riforniva i mercati generali e non i supermercati, contraddicendo il luogo comune secondo cui gli imprenditori della terra sarebbero “costretti a sfruttare” dai bassi prezzi imposti dalla grande distribuzione organizzata.
“Metà capitalismo rampante e metà economia di sussistenza”, mi disse un attivista che aveva ricostruito le ultime ore di Puscasu, descrivendo un tessuto economico che non si trova nel Sud profondo ma nella ricca Carmagnola, nel cuore del Piemonte.
Una rete di feroci criminali. Al potere
E qui veniamo a un altro punto: Singh e tutti gli altri non sono finiti “dalle mani degli scafisti a quelle dei caporali”, come dichiarano politici e media, perché una rete di feroci criminali ha deciso di lucrare sulla disperazione.
Sono invece il prodotto finale di leggi e prassi che hanno il preciso scopo di fornire braccia a basso costo a un sistema economico che soltanto così riesce ad essere competitivo o semplicemente a stare in piedi. Un sistema che non è fatto solo di braccianti ma dell’intera filiera del cibo: dalla cucine della ristorazione ai magazzini, dal trasporto ai cassieri costretti a lavorare di domenica.
Le due modalità con cui la legge Bossi-Fini crea lavoratori sfruttati: attraverso la richiesta d’asilo oppure con i flussi
La politica ha fatto di tutto per peggiorare le cose. “Riducendo gli spazi di riconoscimento dei permessi di soggiorno – come ad esempio è avvenuto con l’eliminazione della protezione speciale da parte del DL Cutro – si continuano ad alimentare enormi bacini di manodopera invisibile, perché priva di documenti e dunque di tutele e diritti”, commenta l’associazione Baobab.
Non è facile cambiare rotta rimanendo all’interno dell’attuale narrazione, un vero racconto coloniale.
Per prima cosa, il problema è etnicizzato. Significa cioè separarlo dal contesto generale, ovvero il sistema economico e legislativo di questo paese, e puntare l’obiettivo su argomenti specifici dell’immigrazione: l'”integrazione” anziché il giusto salario, l'”accoglienza” anziché il diritto alla casa. Etnicizzare serve soprattutto a separare le vittime: come se fossero problemi che non riguardano lavoratori e lavoratrici italiani. È appena il caso di ricordare la storia di Paola Clemente per avere una pronta smentita.
Lo sguardo coloniale implica infine il tono paternalista e “miserabilista” con cui si raccontano questi temi. I “poveri” braccianti, il tono di pietà, quella sensazione che, tutto sommato, “loro” non sono come “noi”.
I migranti però non sono il problema, sono semplicemente la fascia più debole e ricattabile del mercato del lavoro; se domani sparissero, non sparirebbe certo lo sfruttamento in Italia. Lo prova la serie di comunicati di Coldiretti, iniziati in piena pandemia, quando non c’erano migranti a disposizione, che chiedevano l’uso nei campi di “pensionati, carcerati e percettori di sussidi”. Sì, esattamente gli italiani deboli e ricattabili.
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne. Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti. Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.
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Il braccio amputato di Satnam Singh: l’orrore quotidiano del “Made in Italy”
Giugno 2024, Borgo Santa Maria (Latina). Satnam Singh, un lavoratore agricolo di 34 anni, rimane intrappolato in un macchinario agricolo mentre si occupa delle serre. La forte pressione gli causa la mutilazione del braccio e la frattura delle gambe.
Il padrone definisce l’accaduto come “una leggerezza che ci ha rovinato tutti”. Non parla però del fatto che lui e la moglie del bracciante fossero impiegati da tre anni in nero, né che suo figlio ha abbandonato il corpo di Singh davanti al cancello del rustico dove alloggiava la coppia, avendo cura di lasciare in una cassetta della frutta il braccio amputato.
Questo particolare horror ha scandalizzato politici e media, che hanno parlato di “nuovi schiavi”.
Agricoltura o film dell’orrore?
La vicenda, tuttavia, non presenta grandi caratteri novità, neppure negli aspetti più cruenti.
Nel 2015, Ioan Puscasu, un bracciante rumeno impegnato nelle campagne a due passi di Torino, perde la vita mentre lavora – in nero – nelle serre dei peperoni. Emigrato dalla Romania, era arrivato in Piemonte per guadagnare di più. I padroni lo hanno spogliato, lavato, rivestito e spostato il cadavere per dimostrare che non lavorava da loro.
Nessun caporale in questa vicenda, anzi. Brave persone all’apparenza: una vecchina di oltre 80 anni, il figlio e il proprietario della masseria, tutti grandi lavoratori. Questo non ha impedito loro di trascinare un cadavere gonfio, togliergli gli abiti di lavoro, lavarlo con la pompa, inscenare un ritrovamento fortuito e dire al 118 che “il rumeno” non lavorava da loro.
Nell’estate del 2008, un caso simile nelle campagne di Mantova. L’indiano Vijay Kumar, 44 anni, viene lasciato morire nelle campagne di Viadana. Probabilmente la prima causa è l’insolazione. Ma nessuno soccorre l’uomo che muore lentamente, sotto il sole, a ridosso di un canale. L’imputato è un produttore ortofrutticolo. Secondo l’accusa, avrebbe impiegato lavoratori senza documenti.
Nell’estate del 2019, infine, Anton Petrica sta lavorando nelle campagne di Giugliano, provincia di Napoli. Ogni giorno si alza alle quattro partendo da Parete, provincia di Caserta, cinque chilometri di distanza. Proprio lì lo riportano i caporali. Prendono il corpo, ancora in vita, e lo abbandono nei pressi dell’abitazione. La padrona di casa si accorge di lui, allerta i soccorsi, che lo trovano boccheggiante. Muore infine all’ospedale di Aversa.
Se lo avessero portato subito al pronto soccorso, probabilmente sarebbe ancora in vita. E i figli in Romania avrebbero ancora un padre. Ma in ospedale certamente avrebbero fatto domande, presentato moduli da compilare. Meglio nascondere la realtà fatta di lavoro nero e sfruttamento. Meglio prendere un corpo e lasciarlo in strada come fosse un sacco della spazzatura. Parete è a pochi chilometri da Villa Literno, nelle campagne dove trenta anni prima era stato ucciso Jerry Masslo.
Mangia italiano, muori (per mano di un) italiano
Negli ultimi anni, il marketing e la politica sottolineano senza interruzione il valore del “comprare e mangiare italiano”. Il cibo “Made in Italy” è diventato sinonimo di qualità e salute. Purtroppo, invece, chi conosce la realtà delle campagne italiane ha familiarità con questi racconti dell’orrore, così come con la totale assenza di mezzi di soccorso sui luoghi di lavoro.
Le aziende agricole sono in genere una giungla senza regole. I famosi “piccoli agricoltori” sono perlopiù anziani signori con cultura imprenditoriale molto limitata, che sopravvivono in realtà economiche minime e che puntellano le loro ditte a conduzione familiare con il lavoro sfruttato di braccianti ricattabili.
Secondo “Open“, l’azienda agricola Lovato riforniva i mercati generali e non i supermercati, contraddicendo il luogo comune secondo cui gli imprenditori della terra sarebbero “costretti a sfruttare” dai bassi prezzi imposti dalla grande distribuzione organizzata.
“Metà capitalismo rampante e metà economia di sussistenza”, mi disse un attivista che aveva ricostruito le ultime ore di Puscasu, descrivendo un tessuto economico che non si trova nel Sud profondo ma nella ricca Carmagnola, nel cuore del Piemonte.
Una rete di feroci criminali. Al potere
E qui veniamo a un altro punto: Singh e tutti gli altri non sono finiti “dalle mani degli scafisti a quelle dei caporali”, come dichiarano politici e media, perché una rete di feroci criminali ha deciso di lucrare sulla disperazione.
Sono invece il prodotto finale di leggi e prassi che hanno il preciso scopo di fornire braccia a basso costo a un sistema economico che soltanto così riesce ad essere competitivo o semplicemente a stare in piedi. Un sistema che non è fatto solo di braccianti ma dell’intera filiera del cibo: dalla cucine della ristorazione ai magazzini, dal trasporto ai cassieri costretti a lavorare di domenica.
La politica ha fatto di tutto per peggiorare le cose. “Riducendo gli spazi di riconoscimento dei permessi di soggiorno – come ad esempio è avvenuto con l’eliminazione della protezione speciale da parte del DL Cutro – si continuano ad alimentare enormi bacini di manodopera invisibile, perché priva di documenti e dunque di tutele e diritti”, commenta l’associazione Baobab.
Non è facile cambiare rotta rimanendo all’interno dell’attuale narrazione, un vero racconto coloniale.
Per prima cosa, il problema è etnicizzato. Significa cioè separarlo dal contesto generale, ovvero il sistema economico e legislativo di questo paese, e puntare l’obiettivo su argomenti specifici dell’immigrazione: l'”integrazione” anziché il giusto salario, l'”accoglienza” anziché il diritto alla casa. Etnicizzare serve soprattutto a separare le vittime: come se fossero problemi che non riguardano lavoratori e lavoratrici italiani. È appena il caso di ricordare la storia di Paola Clemente per avere una pronta smentita.
Lo sguardo coloniale implica infine il tono paternalista e “miserabilista” con cui si raccontano questi temi. I “poveri” braccianti, il tono di pietà, quella sensazione che, tutto sommato, “loro” non sono come “noi”.
I migranti però non sono il problema, sono semplicemente la fascia più debole e ricattabile del mercato del lavoro; se domani sparissero, non sparirebbe certo lo sfruttamento in Italia. Lo prova la serie di comunicati di Coldiretti, iniziati in piena pandemia, quando non c’erano migranti a disposizione, che chiedevano l’uso nei campi di “pensionati, carcerati e percettori di sussidi”. Sì, esattamente gli italiani deboli e ricattabili.
Il libro
La Spoon River dei braccianti
Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.