“Toxic Nostalgia, From Putin to Trump to the Trucker Convoys”. Pubblicato su The Intercept – Traduzione di Antonello Mangano
La nostalgia per l’impero guida Vladimir Putin. Insieme al desiderio di superare la vergogna della terapia d’urto economica punitiva imposta alla Russia dopo la fine della guerra fredda.
La nostalgia per la “grandezza” americana guida il movimento di Donald Trump. Insieme al conflitto per affermare la supremazia bianca che ha plasmato la fondazione degli Stati Uniti e la forgia ancora.
La nostalgia anima anche i camionisti canadesi che hanno occupato Ottawa per quasi un mese, brandendo le loro bandiere bianche e rosse come un esercito conquistatore, evocando un tempo più semplice, quando le loro coscienze non erano disturbate dal pensiero dei corpi dei bambini indigeni, i cui resti vengono ancora scoperti nei terreni di istituzioni genocide che un tempo osavano chiamarsi “scuole”.
Non parliamo della nostalgia calda, confusa e confortevole dell’infanzia. Stiamo parlando di una nostalgia furiosa e distruttiva che, contro ogni evidenza, si aggrappa ai falsi ricordi di glorie passate.
Il cambiamento climatico è la Terra che ci dice che niente è gratis; che l’era del “dominio” umano (bianco e maschile) è finita; che non esiste una relazione a senso unico composta solo dal prendere; che tutte le azioni hanno conseguenze.
Può sembrare che questi personaggi non abbiano nulla in comune. Invece condividono la nostalgia di un tempo in cui i combustibili fossili potevano essere estratti dalla terra senza il rischio inquietante dell’estinzione. O di ragazzini in piazza che reclamano il loro diritto a un futuro. O di rapporti del Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico, che diventa, nelle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, “un atlante della sofferenza umana”.
Putin, naturalmente, è a capo di uno stato petrolifero, che si è rifiutato ostinatamente di diversificare la sua dipendenza economica dal petrolio e dal gas, nonostante l’effetto devastante – come montagne russe – del prezzo delle materie prime sulla sua gente e nonostante la realtà del cambiamento climatico.
Trump è ossessionato dal denaro facile che offrono i combustibili fossili e come presidente ha fatto della negazione del cambiamento climatico un tratto distintivo.
I camionisti canadesi, da parte loro, non solo hanno scelto le taniche di contrabbando come simbolo della protesta, ma la leadership del movimento è anche profondamente radicata col petrolio delle sabbie bituminose dell’Alberta.
Prima che si chiamasse “convoglio della libertà”, molti di questi leader hanno messo in scena la prova generale nota come United We Roll, un convoglio del 2019 che combinava una zelante difesa degli oleodotti, l’opposizione al carbon pricing, la xenofobia anti-immigrati e la nostalgia esplicita di un Canada bianco e cristiano.
“Il petrolio è la cartina di tornasole di una visione del mondo più ampia”
Una visione che classifica la vita umana e non umana in una rigida gerarchia, con gli uomini bianchi cristiani in cima. Il petrolio, in questo contesto, è il simbolo della mentalità estrattiva: non solo un “diritto divino” di estrarre i combustibili fossili, ma anche il diritto di prendere tutto ciò che si vuole, lasciare nel terreno veleni e non guardare mai indietro.
Questo è il motivo per cui la crisi climatica rappresenta non solo una minaccia economica per chi vive dei settori estrattivi, ma anche una minaccia cosmologica per è nata con questa visione del mondo.
Il cambiamento climatico è la Terra che ci dice che niente è gratis; che l’era del “dominio” umano (bianco e maschile) è finita; che non esiste una relazione a senso unico composta solo dal prendere; che tutte le azioni hanno conseguenze.
Secoli di scavi e traforazioni stanno scatenando forze che rendono vulnerabili e fragili anche le strutture più robuste create dalle società industriali: città costiere, autostrade, piattaforme petrolifere. All’interno della mentalità estrattivista, questo è impossibile da accettare.
Date le loro comuni visioni del mondo, non dovrebbe sorprendere che Putin, Trump e i “convogli della libertà” si stiano sommando l’un l’altro attraverso geografie disparate e circostanze completamente diverse.
Così Trump loda il “movimento pacifico di camionisti patriottici, lavoratori e famiglie che protestano per i loro diritti e libertà più elementari” del Canada; Tucker Carlson e Steve Bannon fanno il tifo per Putin mentre i camionisti sfoggiano i loro cappelli MAGA (Make America Great Again, lo slogan di Trump, ndt); Randy Hillier, un politico dell’Ontario sostenitore del convoglio, dichiara su Twitter che “molte più persone moriranno per [i vaccini Covid] che nella guerra Russia/Ucraina”.
E che dire del ristorante dell’Ontario che la settimana scorsa ha messo sul suo menu l’annuncio che Putin “non sta occupando l’Ucraina”, ma si sta opponendo al Grande Reset, ai satanisti e infine “combatte contro la schiavizzazione dell’umanità”.
Queste alleanze sembrano profondamente strane e improbabili. Ma guardate un po’ più da vicino diventa chiaro che sono legati insieme da un atteggiamento verso il tempo. Un atteggiamento che si aggrappa a una versione idealizzata del passato e rifiuta fermamente di affrontare le difficili verità sul futuro.
Condividono anche un piacere nell’esercizio del potere: il TIR contro il pedone, la realtà fabbricata e urlata contro il cauto rapporto scientifico, l’arsenale nucleare contro la mitragliatrice. Questa energia si sprigiona iniziando guerre, attaccando sedi di governo e scatenando proteste. Questo è l’ethos alla radice di così tante crisi democratiche, geopolitiche e climatiche: un violento aggrapparsi a un passato tossico e un rifiuto di affrontare un futuro più intrecciato e interrelazionale, un futuro delimitato dai limiti di ciò che le persone e il pianeta possono sopportare.
“Se c’è un compito politico unificante del nostro tempo, è quello di fornire una risposta complessiva alla nostalgia tossica“
È una pura espressione di ciò che la compianta Bell Hooks ha spesso descritto, con un ammiccamento, come “patriarcato capitalista imperialista bianco-suprematista” – perché a volte sono necessarie tutte le sfumature per descrivere accuratamente il nostro mondo.
Il compito politico più urgente adesso è quello di mettere pressione su Putin, in modo che veda la sua invasione criminale dell’Ucraina come un rischio troppo grande da sostenere. Ma questo è solo l’inizio.
“C’è una breve e rapida opportunità per assicurare un futuro vivibile sul pianeta”, ha detto Hans-Otto Portner, co-presidente del gruppo di lavoro del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. Se c’è un compito politico unificante del nostro tempo, è quello di fornire una risposta complessiva a questa conflagrazione di nostalgia tossica. E all’interno di un mondo moderno nato con il genocidio e con l’espropriazione, ciò richiede la visione di un futuro che non abbiamo mai visto.
I leader dei nostri Paesi, con pochissime eccezioni, non sono affatto vicini a raccogliere questa sfida. Putin e Trump sono figure arretrate e nostalgiche, e hanno molta compagnia nella destra estrema.
Jair Bolsonaro è stato eletto giocando sulla nostalgia per l’era del governo militare del Brasile.
Le Filippine sono pronte ad eleggere Ferdinand Marcos Jr. come suo prossimo presidente, figlio del defunto dittatore che ha saccheggiato e terrorizzato la sua nazione per gran parte degli anni ’70 e ’80.
Ma questa non è solo una crisi di destra. Anche molti portabandiera liberali sono figure profondamente nostalgiche. Offrono come antidoti al fascismo in ascesa nient’altro che il neoliberismo “riscaldato”, apertamente allineato con gli interessi corporativi predatori – da Big Pharma alle grandi banche – che hanno fatto a pezzi gli standard di vita della popolazione.
Joe Biden è stato eletto con la confortante promessa di un ritorno alla normalità pre-Trump, non importa che questo sia lo stesso terreno in cui è cresciuto il trumpismo. Justin Trudeau è la versione più giovane dello stesso impulso: un’eco superficiale di suo padre, il defunto primo ministro canadese Pierre Elliott Trudeau.
Nel 2015, la prima dichiarazione di Trudeau Jr. sulla scena mondiale fu “Il Canada è tornato”; quella di Biden, cinque anni dopo, fu “L’America è tornata, pronta a guidare il mondo”.
Non sconfiggeremo le forze della nostalgia tossica con deboli dosi di nostalgia un po’ meno tossica. Non basta essere “tornati”; abbiamo un disperato bisogno di nuovo.
“Dobbiamo abbandonare l’idea della crescita illimitata e investire in buoni posti di lavoro sindacalizzati, oltre che nel lavoro di cura e riparazione”
La buona notizia è che sappiamo come combattere le forze dell’aggressione imperialista, lo pseudo-populismo di destra e il collasso climatico.
La soluzione assomiglia molto a un Green New Deal: abbandonare i combustibili fossili investendo in posti di lavoro sindacalizzati che sostengono il reddito delle famiglie con attività socialmente rilevanti, come costruire case ecocompatibili a prezzi accessibili e buone scuole, iniziando prima con le comunità più abbandonate e inquinate.
Ma questo richiede l’abbandono dell’idea della crescita illimitata e invece l’investimento nel lavoro di cura e riparazione.
Il Green New Deal – o il New Deal rosso, nero e verde – è la nostra migliore speranza per costruire una robusta coalizione multirazziale della classe operaia. Dobbiamo trovare un terreno comune attraverso le divisioni.
Il modo migliore per tagliare i petrodollari che scorrono verso gente come Putin sono le economie verdi, quelle che hanno sconfitto la dipendenza dalla crescita infinita e non hanno bisogno di petrolio e gas importati da paesi come la Russia.
Ed è anche il modo in cui tagliamo l’ossigeno allo pseudo-populismo di Trump/Carlson/Bannon / Salvini (ndt), le cui basi si stanno espandendo perché sono molto più bravi a sfruttare la rabbia diretta alle élite di Davos rispetto ai Democratici, i cui leader, per la maggior parte, sono quelle élite.
L’invasione della Russia sottolinea l’urgenza di questo tipo di trasformazione verde, ma lancia anche nuove sfide. Anche prima che partissero i carri armati russi, si diceva che il modo migliore per fermare l’aggressione di Putin era quello di aumentare la produzione di combustibili fossili in Nord America.
Erano passate solo poche ore dall’invasione. E ogni progetto per bruciare il pianeta, ogni progetto che il movimento per la giustizia climatica era riuscito a bloccare negli ultimi 10 anni, è stato freneticamente riportato sul tavolo dai politici di destra e dagli esperti dell’industria.
Ogni oleodotto cancellato, ogni terminale di esportazione del gas, ogni campo protetto dalle trivelle, ogni sogno di perforazione nell’Artico è tornato a vivere. Dal momento che la macchina da guerra di Putin è finanziata con i petrodollari, la soluzione che ci viene proposa è quella di trivellare di più.
“Non esiste un programma a breve termine sui combustibili fossili”
Questa è una farsa capitalista di cui ho già scritto troppe volte. In primo luogo, la Cina continuerà a comprare il petrolio russo indipendentemente da quello che succede in Alberta. Secondo, non esiste un programma a breve termine sui combustibili fossili. Ognuno dei progetti sbandierati come soluzione alla dipendenza dai combustibili fossili russi richiederebbe anni per avere un impatto e, affinché i loro costi sommersi abbiano un senso finanziario, i progetti dovrebbero rimanere in funzione per decenni, in barba agli avvertimenti sempre più disperati che stiamo ricevendo dalla comunità scientifica.
Ma naturalmente la spinta per nuovi progetti fossili in Nord America non serve ad aiutare gli ucraini o indebolire Putin. La vera ragione per cui tutti i vecchi sogni sono stati rispolverati è molto più grossolana. Questa guerra li ha resi enormemente più redditizi di prima. Nella settimana in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, il benchmark europeo del petrolio, il Brent, ha raggiunto i 105 dollari al barile, un prezzo che non si vedeva dal 2014, ed è ancora in bilico sopra i 100 dollari (che è il doppio di quello che era alla fine del 2020).
Le banche e le compagnie energetiche stanno cercando disperatamente di trarre il massimo da questa crescita dei prezzi in Texas, Pennsylvania e Alberta.
Così come Putin è determinato a rimodellare la mappa dell’Europa orientale nata dopo la guerra fredda, questo gioco di potere nel settore dei combustibili fossili è destinato a rimodellare la mappa dell’energia. Il movimento per la giustizia climatica ha vinto alcune battaglie molto importanti nell’ultimo decennio.
È riuscito a vietare la trivellazione in interi paesi, stati e province; enormi oleodotti come il Keystone XL sono stati bloccati, così come molti oleodotti e vari tentativi di perforazione nell’Artico. La leadership indigena ha giocato un ruolo centrale in quasi tutte le battaglie.
“I leader populisti sono bravi nell’indirizzare la rabbia contro le élite. Il partito democratico è meno bravo. Anche perché i suoi leader, per la maggior parte, sono quelle élite”
E straordinariamente, 40.000 miliardi di dollari di fondi pensione in oltre 1.500 istituzioni si sono impegnati in qualche forma di disinvestimento dai combustibili fossili, grazie a un decennio di ostinata organizzazione del disinvestimento.
Ma ecco un segreto che i nostri movimenti spesso nascondono anche a se stessi: da quando il prezzo del petrolio è crollato nel 2015, abbiamo combattuto un’industria con una mano legata dietro la schiena.
Questo perché il petrolio e il gas di più facile accesso sono per lo più esauriti in Nord America, così le battaglie sui nuovi progetti si sono concentrate su fonti non convenzionali oppure più costose da estrarre: combustibili fossili intrappolati nella roccia o sotto i fondali marini nell’oceano profondo, o sotto il ghiaccio artico, o il fango semi-solido delle sabbie bituminose dell’Alberta.
Molte di queste nuove frontiere del combustibile fossile sono diventate redditizie solo dopo che gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq nel 2003, il che ha fatto impennare i prezzi del petrolio. Improvvisamente, aveva senso dal punto di vista economico fare quegli investimenti multimiliardari per estrarre il petrolio dalle profondità oceaniche o per trasformare le sabbie bituminose canadesi in petrolio raffinato.
Gli anni del boom erano arrivati e il Financial Times ha descritto la frenesia delle sabbie bituminose come “il più grande boom di risorse del Nord America dalla corsa all’oro del Klondike”.
Tuttavia, quando il prezzo del petrolio è crollato nel 2015, la determinazione dell’industria a continuare a crescere a un ritmo così frenetico ha vacillato. In alcuni casi, gli investitori non erano sicuri che avrebbero guadagnato, il che ha portato alcune grandi imprese a ritirarsi dall’Artico e dalle sabbie bituminose. E con i profitti e i prezzi delle azioni in calo, gli organizzatori del disinvestimento sono stati improvvisamente in grado di dimostrare che le azioni dei combustibili fossili non erano solo immorali, ma erano un pessimo investimento, anche nei termini del capitalismo.
Bene, adesso la guerra di Putin ha slegato la mano dietro la schiena di Big Oil e l’ha trasformata in un pugno.
“Stiamo ancora consumando quantità oscene e insostenibili di petrolio e gas“
Questo spiega la recente ondata di attacchi al movimento per il clima e alla manciata di politici democratici che hanno avanzato proposte basate sulla scienza. Tom Reed, un repubblicano di New York, ha affermato la scorsa settimana: “Gli Stati Uniti hanno le risorse energetiche per sbattere la Russia fuori dal mercato del petrolio e del gas, ma non usiamo queste risorse a causa della ruffianeria di parte del presidente Biden agli estremisti ambientali del partito democratico”.
È vero l’esatto contrario. Se i governi, molti dei quali hanno condotto politiche promettenti come il Green New Deal nell’ultimo decennio e mezzo, le avessero effettivamente attuate, Putin non sarebbe in grado di farsi beffe del diritto e delle opinioni internazionali come sta facendo così palesemente, sicuro nella convinzione di avere ancora clienti per i suoi idrocarburi.
La crisi di fondo che affrontiamo non riguarda il fatto che i paesi del Nord America e dell’Europa occidentale non sono riusciti a costruire l’infrastruttura di combustibili fossili che gli permetterebbe di sostituire il petrolio e il gas russo; il punto è che tutti noi – Stati Uniti, Canada, Germania, Giappone – stiamo ancora consumando quantità oscene e insostenibili di petrolio e gas, e in effetti di energia. Punto e basta.
Sappiamo come uscire da questa crisi: aumentare le infrastrutture per le energie rinnovabili, alimentare le case con l’eolico e il solare, elettrificare i nostri sistemi di trasporto. E poiché tutte le fonti di energia hanno dei costi ecologici, dobbiamo anche ridurre la domanda di energia in generale, attraverso una maggiore efficienza, più trasporti di massa e meno sprechi. Il movimento per la giustizia climatica lo dice ormai da decenni. Il problema non è che le élite politiche hanno passato troppo tempo ad ascoltare i cosiddetti estremisti ambientali, è che non ci hanno ascoltato affatto.
“Se BP può abbandonare una partecipazione del 20% in una grande compagnia petrolifera russa, quale investimento non può essere abbandonato se si basa sulla distruzione di un pianeta abitabile?”
Ora ci troviamo in uno strano momento, in cui un grande montepremi sembra in palio. La BP ha annunciato domenica che venderà la sua quota del 20% nel gigante petrolifero russo Rosneft e altri stanno seguendo il suo esempio. Questa è potenzialmente una buona notizia per l’Ucraina, dal momento che la pressione su questo settore più critico avrà certamente l’attenzione di Putin. Tuttavia, dovremmo anche essere chiari sul fatto che probabilmente sta accadendo solo perché la BP sta progettando di trarre pieno vantaggio dalla frenesia del petrolio e del gas, scatenata dai prezzi più alti, in Nord America e altrove. “La BP rimane fiduciosa nella flessibilità e resilienza della sua struttura finanziaria”, ha rassicurato gli osservatori del mercato.
È anche significativo che la notizia della BP sia arrivata a poche ore dall’annuncio del cancelliere tedesco Olaf Scholz che il suo paese costruirà due nuovi terminali di importazione per ricevere gas naturale. I gasdotti sono stati a lungo osteggiati dagli ambientalisti tedeschi, ma ora vengono fatti passare grazie alla guerra, presentati come l’unico modo per compensare il gas del Nord Stream 2, il nuovo gasdotto costruito sotto il Mar Baltico.
Quella mossa ha trasformato una infrastruttura all’avanguardia per i combustibili fossili in un “buco nel terreno da 11 miliardi di dollari”, nelle parole del capo dell’ufficio europeo del Globe and Mail, Eric Reguly.
Ma non sono solo i progetti sui combustibili fossili ad essere rianimati. “Stiamo raddoppiando sulle energie rinnovabili”, ha annunciato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, prima dell’invasione dell’Ucraina. “Questo aumenterà l’indipendenza strategica dell’Europa in materia di energia”.
Guardando questi pedoni volare attraverso la scacchiera geopolitica nel giro di pochi giorni, temiamo misure che puniscono i poveri per i crimini dei ricchi. Ma ci sono anche sprazzi di ottimismo. È rincuorante che le decisioni devono essere prese in fretta. Come nei primi mesi della pandemia, la risposta all’invasione della Russia dovrebbe ricordarci che nonostante la complessità dei nostri sistemi finanziari ed energetici, possono ancora essere trasformati dalle decisioni di semplici mortali.
Vale la pena soffermarsi su alcune implicazioni. Se la Germania può abbandonare un oleodotto da 11 miliardi di dollari perché improvvisamente è visto come immorale (lo è sempre stato), allora tutte le infrastrutture di combustibili fossili che violano il nostro diritto a un clima stabile dovrebbero essere in discussione. Se la BP può abbandonare una partecipazione del 20% in una grande compagnia petrolifera russa, quale investimento non può essere abbandonato se si basa sulla distruzione di un pianeta abitabile? E se il denaro pubblico può essere usato i gasdotti, allora non è troppo tardi per lottare per avere più solare ed eolico.
Biden potrebbe aiutare in questa trasformazione, usando i poteri disponibili solo nei momenti di emergenza, invocando il Defense Production Act per costruire un gran numero di pompe di calore elettriche e spedirle in Europa per mitigare la perdita del gas russo. Questo è lo spirito creativo di cui abbiamo bisogno in questo momento. Perché se stiamo costruendo una nuova infrastruttura energetica – e dobbiamo farlo – sicuramente dovrebbe essere l’infrastruttura del futuro, non il frutto di una nostalgia tossica.
“Temiamo misure che puniscono i poveri per i crimini dei ricchi”
Ci sono molte lezioni che dobbiamo prendere dal momento spaventoso che stiamo vivendo. Sul pericolo della proliferazione incontrollata delle armi nucleari. Sulla miopia di umiliare le grandi potenze di un tempo. Sui grotteschi due pesi e due misure dei media occidentali su quali terre e quali vite sono trattate come usa e getta. Su quali migrazioni forzate sono trattate come crisi per le persone che si spostano; e quali sono trattate come crisi per i paesi in cui si spostano. Sulla volontà della gente comune di combattere e su quali lotte per l’autodeterminazione e l’integrità territoriale sono celebrate come eroiche, e quali sono trattate come terroristiche. Tutte queste sono lezioni che dobbiamo imparare vivendo questo momento di storia.
E dobbiamo imparare anche questa: è ancora possibile per gli esseri umani cambiare il mondo che abbiamo costruito quando la vita stessa è in gioco; e farlo rapidamente. Come due anni fa, quando la pandemia è stata dichiarata per la prima volta, siamo in un altro momento terrificante ma altamente malleabile.
La guerra sta rimodellando il nostro mondo, ma lo sta facendo anche l’emergenza climatica. La domanda è: sfrutteremo i livelli di urgenza in tempo di guerra per catalizzare l’azione climatica, rendendoci tutti più sicuri per i decenni a venire, o permetteremo alla guerra di aggiungere altro carburante a un pianeta già in fiamme?
Questa sfida è stata posta più acutamente di recente da Svitlana Krakovska, una scienziata ucraina che fa parte del gruppo di lavoro del gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Mentre il suo paese era sotto l’attacco del Cremlino, ha detto ai suoi colleghi scientifici che “il cambiamento climatico indotto dall’uomo e la guerra all’Ucraina hanno le stesse radici, i combustibili fossili e la nostra dipendenza da essi”.
“Una volta che hai negato il collasso climatico, negare le pandemie, le elezioni, o praticamente qualsiasi forma di realtà oggettiva è un gioco da ragazzi”
Gli oltraggi della Russia in Ucraina dovrebbero ricordarci che l’influenza corruttrice del petrolio e del gas è alla base di quasi tutte le forze che stanno destabilizzando il nostro pianeta. La spavalderia compiaciuta di Putin? Portata da petrolio, gas e armi nucleari. I camion che hanno occupato Ottawa per un mese, molestando i residenti e riempiendo l’aria di fumi e ispirando imitatori in tutto il mondo?
Uno dei leader dell’occupazione si è presentato in tribunale qualche giorno fa indossando una felpa “I, Oil and Gas”. Sa chi sono i suoi sponsor. Il negazionismo e l’aumento della cultura della cospirazione? Una volta che hai negato il crollo del clima, negare le pandemie, le elezioni e praticamente qualsiasi forma di realtà oggettiva è un gioco da ragazzi.
“Alcune migrazioni forzate sono trattate come crisi per le persone che si spostano. Altre come crisi per i paesi in cui si spostano“
In questa fase avanzata del dibattito, molto di questo è stato compreso. Il movimento per la giustizia climatica ha avuto ragione su tutto. Quello che rischiamo di perdere, nella nebbia della guerra, è il nostro coraggio.
Perché niente cambia le persone come la violenza estrema, anche la violenza che nasce dall’impennata del prezzo del petrolio. Per evitare che questo accada, potremmo ispirarci a Krakovska, che a quanto pare ha detto ai suoi colleghi del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici in quella riunione a porte chiuse: “Non ci arrenderemo in Ucraina. E speriamo che il mondo non si arrenda nel costruire un futuro resistente al clima”. Le sue parole avrebbero talmente commosso la sua controparte russa, come riferito da testimoni oculari, che si sarebbe scusato per le azioni del suo governo: un breve scorcio di un mondo che guarda avanti, non indietro.
“Toxic Nostalgia, From Putin to Trump to the Trucker Convoys”. Pubblicato su The Intercept – Traduzione di Antonello Mangano
Russia, Ucraina, Usa, Canada. La guerra della nostalgia
“Toxic Nostalgia, From Putin to Trump to the Trucker Convoys”. Pubblicato su The Intercept – Traduzione di Antonello Mangano
La nostalgia per l’impero guida Vladimir Putin. Insieme al desiderio di superare la vergogna della terapia d’urto economica punitiva imposta alla Russia dopo la fine della guerra fredda.
La nostalgia per la “grandezza” americana guida il movimento di Donald Trump. Insieme al conflitto per affermare la supremazia bianca che ha plasmato la fondazione degli Stati Uniti e la forgia ancora.
La nostalgia anima anche i camionisti canadesi che hanno occupato Ottawa per quasi un mese, brandendo le loro bandiere bianche e rosse come un esercito conquistatore, evocando un tempo più semplice, quando le loro coscienze non erano disturbate dal pensiero dei corpi dei bambini indigeni, i cui resti vengono ancora scoperti nei terreni di istituzioni genocide che un tempo osavano chiamarsi “scuole”.
Non parliamo della nostalgia calda, confusa e confortevole dell’infanzia. Stiamo parlando di una nostalgia furiosa e distruttiva che, contro ogni evidenza, si aggrappa ai falsi ricordi di glorie passate.
Può sembrare che questi personaggi non abbiano nulla in comune. Invece condividono la nostalgia di un tempo in cui i combustibili fossili potevano essere estratti dalla terra senza il rischio inquietante dell’estinzione. O di ragazzini in piazza che reclamano il loro diritto a un futuro. O di rapporti del Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico, che diventa, nelle parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite António Guterres, “un atlante della sofferenza umana”.
Putin, naturalmente, è a capo di uno stato petrolifero, che si è rifiutato ostinatamente di diversificare la sua dipendenza economica dal petrolio e dal gas, nonostante l’effetto devastante – come montagne russe – del prezzo delle materie prime sulla sua gente e nonostante la realtà del cambiamento climatico.
Trump è ossessionato dal denaro facile che offrono i combustibili fossili e come presidente ha fatto della negazione del cambiamento climatico un tratto distintivo.
I camionisti canadesi, da parte loro, non solo hanno scelto le taniche di contrabbando come simbolo della protesta, ma la leadership del movimento è anche profondamente radicata col petrolio delle sabbie bituminose dell’Alberta.
Prima che si chiamasse “convoglio della libertà”, molti di questi leader hanno messo in scena la prova generale nota come United We Roll, un convoglio del 2019 che combinava una zelante difesa degli oleodotti, l’opposizione al carbon pricing, la xenofobia anti-immigrati e la nostalgia esplicita di un Canada bianco e cristiano.
Una visione che classifica la vita umana e non umana in una rigida gerarchia, con gli uomini bianchi cristiani in cima. Il petrolio, in questo contesto, è il simbolo della mentalità estrattiva: non solo un “diritto divino” di estrarre i combustibili fossili, ma anche il diritto di prendere tutto ciò che si vuole, lasciare nel terreno veleni e non guardare mai indietro.
Questo è il motivo per cui la crisi climatica rappresenta non solo una minaccia economica per chi vive dei settori estrattivi, ma anche una minaccia cosmologica per è nata con questa visione del mondo.
Il cambiamento climatico è la Terra che ci dice che niente è gratis; che l’era del “dominio” umano (bianco e maschile) è finita; che non esiste una relazione a senso unico composta solo dal prendere; che tutte le azioni hanno conseguenze.
Secoli di scavi e traforazioni stanno scatenando forze che rendono vulnerabili e fragili anche le strutture più robuste create dalle società industriali: città costiere, autostrade, piattaforme petrolifere. All’interno della mentalità estrattivista, questo è impossibile da accettare.
Date le loro comuni visioni del mondo, non dovrebbe sorprendere che Putin, Trump e i “convogli della libertà” si stiano sommando l’un l’altro attraverso geografie disparate e circostanze completamente diverse.
Così Trump loda il “movimento pacifico di camionisti patriottici, lavoratori e famiglie che protestano per i loro diritti e libertà più elementari” del Canada; Tucker Carlson e Steve Bannon fanno il tifo per Putin mentre i camionisti sfoggiano i loro cappelli MAGA (Make America Great Again, lo slogan di Trump, ndt); Randy Hillier, un politico dell’Ontario sostenitore del convoglio, dichiara su Twitter che “molte più persone moriranno per [i vaccini Covid] che nella guerra Russia/Ucraina”.
E che dire del ristorante dell’Ontario che la settimana scorsa ha messo sul suo menu l’annuncio che Putin “non sta occupando l’Ucraina”, ma si sta opponendo al Grande Reset, ai satanisti e infine “combatte contro la schiavizzazione dell’umanità”.
Queste alleanze sembrano profondamente strane e improbabili. Ma guardate un po’ più da vicino diventa chiaro che sono legati insieme da un atteggiamento verso il tempo. Un atteggiamento che si aggrappa a una versione idealizzata del passato e rifiuta fermamente di affrontare le difficili verità sul futuro.
Condividono anche un piacere nell’esercizio del potere: il TIR contro il pedone, la realtà fabbricata e urlata contro il cauto rapporto scientifico, l’arsenale nucleare contro la mitragliatrice. Questa energia si sprigiona iniziando guerre, attaccando sedi di governo e scatenando proteste. Questo è l’ethos alla radice di così tante crisi democratiche, geopolitiche e climatiche: un violento aggrapparsi a un passato tossico e un rifiuto di affrontare un futuro più intrecciato e interrelazionale, un futuro delimitato dai limiti di ciò che le persone e il pianeta possono sopportare.
È una pura espressione di ciò che la compianta Bell Hooks ha spesso descritto, con un ammiccamento, come “patriarcato capitalista imperialista bianco-suprematista” – perché a volte sono necessarie tutte le sfumature per descrivere accuratamente il nostro mondo.
Il compito politico più urgente adesso è quello di mettere pressione su Putin, in modo che veda la sua invasione criminale dell’Ucraina come un rischio troppo grande da sostenere. Ma questo è solo l’inizio.
“C’è una breve e rapida opportunità per assicurare un futuro vivibile sul pianeta”, ha detto Hans-Otto Portner, co-presidente del gruppo di lavoro del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici. Se c’è un compito politico unificante del nostro tempo, è quello di fornire una risposta complessiva a questa conflagrazione di nostalgia tossica. E all’interno di un mondo moderno nato con il genocidio e con l’espropriazione, ciò richiede la visione di un futuro che non abbiamo mai visto.
I leader dei nostri Paesi, con pochissime eccezioni, non sono affatto vicini a raccogliere questa sfida. Putin e Trump sono figure arretrate e nostalgiche, e hanno molta compagnia nella destra estrema.
Jair Bolsonaro è stato eletto giocando sulla nostalgia per l’era del governo militare del Brasile.
Le Filippine sono pronte ad eleggere Ferdinand Marcos Jr. come suo prossimo presidente, figlio del defunto dittatore che ha saccheggiato e terrorizzato la sua nazione per gran parte degli anni ’70 e ’80.
Ma questa non è solo una crisi di destra. Anche molti portabandiera liberali sono figure profondamente nostalgiche. Offrono come antidoti al fascismo in ascesa nient’altro che il neoliberismo “riscaldato”, apertamente allineato con gli interessi corporativi predatori – da Big Pharma alle grandi banche – che hanno fatto a pezzi gli standard di vita della popolazione.
Joe Biden è stato eletto con la confortante promessa di un ritorno alla normalità pre-Trump, non importa che questo sia lo stesso terreno in cui è cresciuto il trumpismo. Justin Trudeau è la versione più giovane dello stesso impulso: un’eco superficiale di suo padre, il defunto primo ministro canadese Pierre Elliott Trudeau.
Nel 2015, la prima dichiarazione di Trudeau Jr. sulla scena mondiale fu “Il Canada è tornato”; quella di Biden, cinque anni dopo, fu “L’America è tornata, pronta a guidare il mondo”.
Non sconfiggeremo le forze della nostalgia tossica con deboli dosi di nostalgia un po’ meno tossica. Non basta essere “tornati”; abbiamo un disperato bisogno di nuovo.
La buona notizia è che sappiamo come combattere le forze dell’aggressione imperialista, lo pseudo-populismo di destra e il collasso climatico.
La soluzione assomiglia molto a un Green New Deal: abbandonare i combustibili fossili investendo in posti di lavoro sindacalizzati che sostengono il reddito delle famiglie con attività socialmente rilevanti, come costruire case ecocompatibili a prezzi accessibili e buone scuole, iniziando prima con le comunità più abbandonate e inquinate.
Ma questo richiede l’abbandono dell’idea della crescita illimitata e invece l’investimento nel lavoro di cura e riparazione.
Il Green New Deal – o il New Deal rosso, nero e verde – è la nostra migliore speranza per costruire una robusta coalizione multirazziale della classe operaia. Dobbiamo trovare un terreno comune attraverso le divisioni.
Il modo migliore per tagliare i petrodollari che scorrono verso gente come Putin sono le economie verdi, quelle che hanno sconfitto la dipendenza dalla crescita infinita e non hanno bisogno di petrolio e gas importati da paesi come la Russia.
Ed è anche il modo in cui tagliamo l’ossigeno allo pseudo-populismo di Trump/Carlson/Bannon / Salvini (ndt), le cui basi si stanno espandendo perché sono molto più bravi a sfruttare la rabbia diretta alle élite di Davos rispetto ai Democratici, i cui leader, per la maggior parte, sono quelle élite.
L’invasione della Russia sottolinea l’urgenza di questo tipo di trasformazione verde, ma lancia anche nuove sfide. Anche prima che partissero i carri armati russi, si diceva che il modo migliore per fermare l’aggressione di Putin era quello di aumentare la produzione di combustibili fossili in Nord America.
Erano passate solo poche ore dall’invasione. E ogni progetto per bruciare il pianeta, ogni progetto che il movimento per la giustizia climatica era riuscito a bloccare negli ultimi 10 anni, è stato freneticamente riportato sul tavolo dai politici di destra e dagli esperti dell’industria.
Ogni oleodotto cancellato, ogni terminale di esportazione del gas, ogni campo protetto dalle trivelle, ogni sogno di perforazione nell’Artico è tornato a vivere. Dal momento che la macchina da guerra di Putin è finanziata con i petrodollari, la soluzione che ci viene proposa è quella di trivellare di più.
Questa è una farsa capitalista di cui ho già scritto troppe volte. In primo luogo, la Cina continuerà a comprare il petrolio russo indipendentemente da quello che succede in Alberta. Secondo, non esiste un programma a breve termine sui combustibili fossili. Ognuno dei progetti sbandierati come soluzione alla dipendenza dai combustibili fossili russi richiederebbe anni per avere un impatto e, affinché i loro costi sommersi abbiano un senso finanziario, i progetti dovrebbero rimanere in funzione per decenni, in barba agli avvertimenti sempre più disperati che stiamo ricevendo dalla comunità scientifica.
Ma naturalmente la spinta per nuovi progetti fossili in Nord America non serve ad aiutare gli ucraini o indebolire Putin. La vera ragione per cui tutti i vecchi sogni sono stati rispolverati è molto più grossolana. Questa guerra li ha resi enormemente più redditizi di prima. Nella settimana in cui la Russia ha invaso l’Ucraina, il benchmark europeo del petrolio, il Brent, ha raggiunto i 105 dollari al barile, un prezzo che non si vedeva dal 2014, ed è ancora in bilico sopra i 100 dollari (che è il doppio di quello che era alla fine del 2020).
Le banche e le compagnie energetiche stanno cercando disperatamente di trarre il massimo da questa crescita dei prezzi in Texas, Pennsylvania e Alberta.
Così come Putin è determinato a rimodellare la mappa dell’Europa orientale nata dopo la guerra fredda, questo gioco di potere nel settore dei combustibili fossili è destinato a rimodellare la mappa dell’energia. Il movimento per la giustizia climatica ha vinto alcune battaglie molto importanti nell’ultimo decennio.
È riuscito a vietare la trivellazione in interi paesi, stati e province; enormi oleodotti come il Keystone XL sono stati bloccati, così come molti oleodotti e vari tentativi di perforazione nell’Artico. La leadership indigena ha giocato un ruolo centrale in quasi tutte le battaglie.
E straordinariamente, 40.000 miliardi di dollari di fondi pensione in oltre 1.500 istituzioni si sono impegnati in qualche forma di disinvestimento dai combustibili fossili, grazie a un decennio di ostinata organizzazione del disinvestimento.
Ma ecco un segreto che i nostri movimenti spesso nascondono anche a se stessi: da quando il prezzo del petrolio è crollato nel 2015, abbiamo combattuto un’industria con una mano legata dietro la schiena.
Questo perché il petrolio e il gas di più facile accesso sono per lo più esauriti in Nord America, così le battaglie sui nuovi progetti si sono concentrate su fonti non convenzionali oppure più costose da estrarre: combustibili fossili intrappolati nella roccia o sotto i fondali marini nell’oceano profondo, o sotto il ghiaccio artico, o il fango semi-solido delle sabbie bituminose dell’Alberta.
Molte di queste nuove frontiere del combustibile fossile sono diventate redditizie solo dopo che gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq nel 2003, il che ha fatto impennare i prezzi del petrolio. Improvvisamente, aveva senso dal punto di vista economico fare quegli investimenti multimiliardari per estrarre il petrolio dalle profondità oceaniche o per trasformare le sabbie bituminose canadesi in petrolio raffinato.
Gli anni del boom erano arrivati e il Financial Times ha descritto la frenesia delle sabbie bituminose come “il più grande boom di risorse del Nord America dalla corsa all’oro del Klondike”.
Tuttavia, quando il prezzo del petrolio è crollato nel 2015, la determinazione dell’industria a continuare a crescere a un ritmo così frenetico ha vacillato. In alcuni casi, gli investitori non erano sicuri che avrebbero guadagnato, il che ha portato alcune grandi imprese a ritirarsi dall’Artico e dalle sabbie bituminose. E con i profitti e i prezzi delle azioni in calo, gli organizzatori del disinvestimento sono stati improvvisamente in grado di dimostrare che le azioni dei combustibili fossili non erano solo immorali, ma erano un pessimo investimento, anche nei termini del capitalismo.
Bene, adesso la guerra di Putin ha slegato la mano dietro la schiena di Big Oil e l’ha trasformata in un pugno.
Questo spiega la recente ondata di attacchi al movimento per il clima e alla manciata di politici democratici che hanno avanzato proposte basate sulla scienza. Tom Reed, un repubblicano di New York, ha affermato la scorsa settimana: “Gli Stati Uniti hanno le risorse energetiche per sbattere la Russia fuori dal mercato del petrolio e del gas, ma non usiamo queste risorse a causa della ruffianeria di parte del presidente Biden agli estremisti ambientali del partito democratico”.
È vero l’esatto contrario. Se i governi, molti dei quali hanno condotto politiche promettenti come il Green New Deal nell’ultimo decennio e mezzo, le avessero effettivamente attuate, Putin non sarebbe in grado di farsi beffe del diritto e delle opinioni internazionali come sta facendo così palesemente, sicuro nella convinzione di avere ancora clienti per i suoi idrocarburi.
La crisi di fondo che affrontiamo non riguarda il fatto che i paesi del Nord America e dell’Europa occidentale non sono riusciti a costruire l’infrastruttura di combustibili fossili che gli permetterebbe di sostituire il petrolio e il gas russo; il punto è che tutti noi – Stati Uniti, Canada, Germania, Giappone – stiamo ancora consumando quantità oscene e insostenibili di petrolio e gas, e in effetti di energia. Punto e basta.
Sappiamo come uscire da questa crisi: aumentare le infrastrutture per le energie rinnovabili, alimentare le case con l’eolico e il solare, elettrificare i nostri sistemi di trasporto. E poiché tutte le fonti di energia hanno dei costi ecologici, dobbiamo anche ridurre la domanda di energia in generale, attraverso una maggiore efficienza, più trasporti di massa e meno sprechi. Il movimento per la giustizia climatica lo dice ormai da decenni. Il problema non è che le élite politiche hanno passato troppo tempo ad ascoltare i cosiddetti estremisti ambientali, è che non ci hanno ascoltato affatto.
Ora ci troviamo in uno strano momento, in cui un grande montepremi sembra in palio. La BP ha annunciato domenica che venderà la sua quota del 20% nel gigante petrolifero russo Rosneft e altri stanno seguendo il suo esempio. Questa è potenzialmente una buona notizia per l’Ucraina, dal momento che la pressione su questo settore più critico avrà certamente l’attenzione di Putin. Tuttavia, dovremmo anche essere chiari sul fatto che probabilmente sta accadendo solo perché la BP sta progettando di trarre pieno vantaggio dalla frenesia del petrolio e del gas, scatenata dai prezzi più alti, in Nord America e altrove. “La BP rimane fiduciosa nella flessibilità e resilienza della sua struttura finanziaria”, ha rassicurato gli osservatori del mercato.
È anche significativo che la notizia della BP sia arrivata a poche ore dall’annuncio del cancelliere tedesco Olaf Scholz che il suo paese costruirà due nuovi terminali di importazione per ricevere gas naturale. I gasdotti sono stati a lungo osteggiati dagli ambientalisti tedeschi, ma ora vengono fatti passare grazie alla guerra, presentati come l’unico modo per compensare il gas del Nord Stream 2, il nuovo gasdotto costruito sotto il Mar Baltico.
Quella mossa ha trasformato una infrastruttura all’avanguardia per i combustibili fossili in un “buco nel terreno da 11 miliardi di dollari”, nelle parole del capo dell’ufficio europeo del Globe and Mail, Eric Reguly.
Ma non sono solo i progetti sui combustibili fossili ad essere rianimati. “Stiamo raddoppiando sulle energie rinnovabili”, ha annunciato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, prima dell’invasione dell’Ucraina. “Questo aumenterà l’indipendenza strategica dell’Europa in materia di energia”.
Guardando questi pedoni volare attraverso la scacchiera geopolitica nel giro di pochi giorni, temiamo misure che puniscono i poveri per i crimini dei ricchi. Ma ci sono anche sprazzi di ottimismo. È rincuorante che le decisioni devono essere prese in fretta. Come nei primi mesi della pandemia, la risposta all’invasione della Russia dovrebbe ricordarci che nonostante la complessità dei nostri sistemi finanziari ed energetici, possono ancora essere trasformati dalle decisioni di semplici mortali.
Vale la pena soffermarsi su alcune implicazioni. Se la Germania può abbandonare un oleodotto da 11 miliardi di dollari perché improvvisamente è visto come immorale (lo è sempre stato), allora tutte le infrastrutture di combustibili fossili che violano il nostro diritto a un clima stabile dovrebbero essere in discussione. Se la BP può abbandonare una partecipazione del 20% in una grande compagnia petrolifera russa, quale investimento non può essere abbandonato se si basa sulla distruzione di un pianeta abitabile? E se il denaro pubblico può essere usato i gasdotti, allora non è troppo tardi per lottare per avere più solare ed eolico.
Biden potrebbe aiutare in questa trasformazione, usando i poteri disponibili solo nei momenti di emergenza, invocando il Defense Production Act per costruire un gran numero di pompe di calore elettriche e spedirle in Europa per mitigare la perdita del gas russo. Questo è lo spirito creativo di cui abbiamo bisogno in questo momento. Perché se stiamo costruendo una nuova infrastruttura energetica – e dobbiamo farlo – sicuramente dovrebbe essere l’infrastruttura del futuro, non il frutto di una nostalgia tossica.
Ci sono molte lezioni che dobbiamo prendere dal momento spaventoso che stiamo vivendo. Sul pericolo della proliferazione incontrollata delle armi nucleari. Sulla miopia di umiliare le grandi potenze di un tempo. Sui grotteschi due pesi e due misure dei media occidentali su quali terre e quali vite sono trattate come usa e getta. Su quali migrazioni forzate sono trattate come crisi per le persone che si spostano; e quali sono trattate come crisi per i paesi in cui si spostano. Sulla volontà della gente comune di combattere e su quali lotte per l’autodeterminazione e l’integrità territoriale sono celebrate come eroiche, e quali sono trattate come terroristiche. Tutte queste sono lezioni che dobbiamo imparare vivendo questo momento di storia.
E dobbiamo imparare anche questa: è ancora possibile per gli esseri umani cambiare il mondo che abbiamo costruito quando la vita stessa è in gioco; e farlo rapidamente. Come due anni fa, quando la pandemia è stata dichiarata per la prima volta, siamo in un altro momento terrificante ma altamente malleabile.
La guerra sta rimodellando il nostro mondo, ma lo sta facendo anche l’emergenza climatica. La domanda è: sfrutteremo i livelli di urgenza in tempo di guerra per catalizzare l’azione climatica, rendendoci tutti più sicuri per i decenni a venire, o permetteremo alla guerra di aggiungere altro carburante a un pianeta già in fiamme?
Questa sfida è stata posta più acutamente di recente da Svitlana Krakovska, una scienziata ucraina che fa parte del gruppo di lavoro del gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Mentre il suo paese era sotto l’attacco del Cremlino, ha detto ai suoi colleghi scientifici che “il cambiamento climatico indotto dall’uomo e la guerra all’Ucraina hanno le stesse radici, i combustibili fossili e la nostra dipendenza da essi”.
Gli oltraggi della Russia in Ucraina dovrebbero ricordarci che l’influenza corruttrice del petrolio e del gas è alla base di quasi tutte le forze che stanno destabilizzando il nostro pianeta. La spavalderia compiaciuta di Putin? Portata da petrolio, gas e armi nucleari. I camion che hanno occupato Ottawa per un mese, molestando i residenti e riempiendo l’aria di fumi e ispirando imitatori in tutto il mondo?
Uno dei leader dell’occupazione si è presentato in tribunale qualche giorno fa indossando una felpa “I, Oil and Gas”. Sa chi sono i suoi sponsor. Il negazionismo e l’aumento della cultura della cospirazione? Una volta che hai negato il crollo del clima, negare le pandemie, le elezioni e praticamente qualsiasi forma di realtà oggettiva è un gioco da ragazzi.
In questa fase avanzata del dibattito, molto di questo è stato compreso. Il movimento per la giustizia climatica ha avuto ragione su tutto. Quello che rischiamo di perdere, nella nebbia della guerra, è il nostro coraggio.
Perché niente cambia le persone come la violenza estrema, anche la violenza che nasce dall’impennata del prezzo del petrolio. Per evitare che questo accada, potremmo ispirarci a Krakovska, che a quanto pare ha detto ai suoi colleghi del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici in quella riunione a porte chiuse: “Non ci arrenderemo in Ucraina. E speriamo che il mondo non si arrenda nel costruire un futuro resistente al clima”. Le sue parole avrebbero talmente commosso la sua controparte russa, come riferito da testimoni oculari, che si sarebbe scusato per le azioni del suo governo: un breve scorcio di un mondo che guarda avanti, non indietro.
“Toxic Nostalgia, From Putin to Trump to the Trucker Convoys”. Pubblicato su The Intercept – Traduzione di Antonello Mangano
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