ROSARNO (RC) – Il bancone dei superalcolici sembra una gabbia da polli. Dentro la rete, una giovanissima nigeriana. Gli uomini bevono e aspettano seduti al tavolo. Le stanze da letto sono sul retro. Fuori, il buio e la pioggia. L’impianto, alimentato da un generatore a nafta, propone musica assordante. “She’s Anastacia”, spiega una ragazza.
Nell’ultima fila di baracche c’è il quartiere a luci rosse di una città che è venuta fuori in queste settimane: duemila persone, otto macellai, vari negozietti, due ciclofficine. Per l’ennesima volta, la raccolta delle arance è diventata catastrofe umanitaria. La baraccopoli si è espansa intorno alle tende del Ministero dell’Interno.
Le donne
Al mattino la pioggia battente concede una tregua. Le ragazze puliscono i corridoi, rifanno i letti. “Siamo da sei mesi in Italia”, dicono. “Veniamo da Edo State”, regione meridionale della Nigeria. Un sorriso mesto e si torna a pulire. “Sì, siamo passate per Lampedusa”, dicono.
Sono gli indizi della tratta, quel meccanismo ormai rodato da anni che procura ragazze in Africa e – in tempi record – le avvia alla prostituzione.
“Questa di Rosarno è una pericolosa novità”, ci dice Alberto Mossino, direttore di PIAM, un’associazione piemontese riconosciuta a livello internazionale per la sua attività contro la tratta. “Si sta creando un distretto parallelo dello sfruttamento sessuale. La frontiera si è alzata, si riproducono le connection house tipiche della Libia. Città spontanee che offrono ogni tipo di servizio – legale e illegale – agli africani di passaggio. È lo sfruttamento intorno allo sfruttamento”.
Come è possibile che una ragazza appena arrivata in Italia finisca qui? “Non ci sono strutture adeguate nei pressi dei luoghi di sbarco. I soggetti più vulnerabili dovrebbero essere indirizzati, evitando che vengano presi dai trafficanti”, conclude. “Se non sono inserite in un programma di protezione, le più deboli finiscono in posti come questo”.
Le carte
Se le donne vittime di tratta hanno la speranza di un permesso di soggiorno, tutti gli altri rischiano di essere risucchiati nell’irregolarità, diventando sempre più ricattabili.
Oggi due migranti su tre hanno un regolare permesso di soggiorno. Molti, però, hanno fatto ricorso contro il diniego della Commissione territoriale per il diritto d’asilo e rischiano l’irregolarità. Altri hanno difficoltà a rinnovare i permessi umanitari perché viene richiesta la residenza, impossibile per chi vive vite così precarie.
La maggior parte viene da Senegal, Mali, Ghana e Burkina Faso. Sono mediamente presenti in Italia da meno di tre anni.
“Questi numeri sono gestibili senza sperperare fondi pubblici. Basterebbe creare politiche abitative per tutti, italiani e stranieri, mappare le case sfitte, recuperare gli innumerevoli stabili vuoti o quelli confiscati alla ‘ndrangheta”, ci dice Giulia Bari di Medu, l’ong presente sul territorio da alcuni anni.
Arriviamo alla tendopoli in piena allerta meteo. Si attende la neve. Tutto intorno è pieno dei relitti della “zona industriale”, una specie di cimitero del sogno dello sviluppo. Il cielo color piombo rende ancora più spettrali i capannoni abbandonati. Dentro, un delirio di vecchi faldoni ammucchiati, vetri rotti, ferro arrugginito. E spazzatura. Cumuli di rifiuti ci accompagnano fino al ghetto.
La città è cresciuta da sola come un organismo vivente. Nei pressi dell’ingresso, i furgoni scaricano i braccianti. Un veicolo è targato Foggia, altro luogo di concentrazione dei caporali. Dai pezzi di capra appesi nella macelleria, il sangue sgocciola lentamente nel fango. Piccoli ristoranti servono riso e verdura. Casupole fatte con un triplo strato (cartone, canne, plastica) resistono miracolosamente alla pioggia battente.
Nonostante il freddo, i braccianti camminano con le infradito. Vanno nei piccoli negozi dove si trova di tutto, dalla presa elettrica per caricare il cellulare ai cavetti usb. Un macellaio del Burkina Faso ci offre un caffè che bolle nel termos. Un altro ripara bici nella sua officina. Tutti aspettano il miracolo di una giornata di lavoro.
“I bagni sono delle latrine scavate nella terra. Si cucina in fuochi improvvisati o con fornelli a gas in tende e baracche”, denuncia Medu. “Ci si lava con acqua riscaldata in bidoni di lamiera e si dorme sul pavimento”. Dopo i controlli avviati dalla Prefettura di Reggio Calabria, sono aumentati i contratti. Si è passati dal lavoro nero al lavoro grigio. Ma la sostanza non cambia.
Alessia Mancuso Prizzitano lavora per Emergency. Dall’ambulatorio di Polistena, passano tutto l’anno centinaia di lavoratori. Le malattie più frequenti? “Dolori muscolari, traumi per cadute dalla bicicletta o sul lavoro. E poi sindromi gastro-intestinali, per una non corretta alimentazione e per le scarse condizioni igieniche”. Al dolore fisico si aggiunge quello psicologico. Non era questa la vita che sognavano lasciando l’Africa. “Le patologie legate al disagio psichico sono sempre più frequenti, specie per il fallimento del progetto migratorio. Per questo, abbiamo attivato un servizio di ascolto”, spiega.
Il fango
Appena fuori Rosarno, incontriamo H. Adesso ne è uscito, ma per anni è stato vittima del caporalato. “Lavoravo come buttafuori vicino Pavia, poi ho perso il lavoro e quindi i documenti. Un mio amico senegalese mi ha detto che al Sud si poteva lavorare anche senza. Così sono arrivato a Rosarno. C’era un mio connazionale che formava le squadre. Ci portava nei campi di un signore che si presentava con un nome straniero. Possedeva molti ettari sparsi tra il paese e l’autostrada. Aveva venduto le arance ‘sull’albero’ a un commerciante, di cui non ci dicevano il nome. Eravamo squadre di 14, sempre gli stessi. Abbiamo fatto tutta la stagione a 25 euro al giorno”.
“Nei campi ci facevano un contratto fittizio per proteggersi dai controlli”, conclude. “Per noi non cambiava niente, per esempio non avevamo diritto alla disoccupazione dell’Inps. Però ci obbligavano a tenere in tasca i documenti di qualcuno in regola. Io li chiedevo a un mio connazionale. Tra noi siamo abituati ad aiutarci”.
I soldi
La povertà degli africani è un destino senza uscita? La risposta è nel percorso delle arance dai campi ai banconi dei supermercati.
Le produzioni locali sono il biondo da succo e le clementine da bancone. Pietro Molinaro di Coldiretti Calabria ci fa da guida nel labirinto della filiera: “Le arance da succo sono acquistate da poche grandi multinazionali. Coca Cola comprava in passato, ma è andata via dopo che una fabbrica locale ha chiuso. Purtroppo non abbiamo certezza che nelle aranciate ci sia succo italiano: al porto di Gioia Tauro continua ad arrivare succo dal Brasile”, protesta.
Poi c’è il fresco. Qui c’è un’economia a più livelli. Finita l’epoca d’oro delle truffe, c’è chi sopravvive con i contributi dell’Unione Europea. Oppure c’è chi riesce a vendere alla grande distribuzione, strappando contratti sempre meno remunerativi. Infine, alcuni provano ad esportare: ai supermercati dell’Est Europa (ma dopo l’embargo russo è diventato più difficile), oppure in Medio Oriente e Stati Uniti.
“Nei passaggi della filiera c’è il margine per una quota remunerativa”, spiega Molinaro. Il prezzi pagati ai produttori dovrebbero raddoppiare. Non sarebbe generosità, ma un obbligo di legge. Un decreto del 2012 vieta la vendita di prodotti agricoli sottocosto. Ma è una regola ancora inapplicata. L’ultimo anello della catena rimangono comunque i braccianti, che non possono rivalersi su nessuno. E vivono nel fango.