Rosarno. La sicurezza con lo sfruttamento intorno

  I braccianti africani sono diventati un problema di sicurezza: recintati, videosorvegliati, piantonati. Lo sfruttamento, cioè quello che produce i ghetti, rimane invisibile.
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Si chiama Ac2100 Plus. È un cubo nero prodotto dalla coreana Virdi. Legge le impronte digitali ed è predisposto per il riconoscimento facciale. È il top degli strumenti di sicurezza installati nella nuova tendopoli di Rosarno.

I braccianti africani sono presenti da più di vent’anni per la raccolta delle arance. Ma adesso sono diventanti un problema di sicurezza. Reticolati, telecamere, badge e piantoni di polizia per controllare 400 persone.

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Il sistema di sicurezza prodotto in Corea all’ingresso della tendopoli © Antonello Mangano CC

Lo sfruttamento, cioè quello che produce i ghetti, rimane invisibile. Così come le aziende agrumarie. Accanto ai piccoli contadini strozzati dalla crisi ci sono ricchezze ben nascoste. La ditta controllata dai Piromalli drenava tre milioni di contributi europei. Dal porto di Gioia Tauro si esportano agrumi in mezzo mondo, dal Canada a Dubai. Persino in Libia.

Lo sfruttamento, cioè l’elemento che produce i ghetti, rimane invisibile

Nel 2010 i braccianti africani in rivolta erano celebrati come eroi della lotta alla mafia, già l’anno successivo erano rappresentati soltanto come “schiavi”. Oggi il tema è la “sicurezza”. È arrivato persino Gasparri a ispezionare la nuova struttura. Eppure questo è almeno il quarto tentativo. Nel 2011 fu creato un campo container, poi negli anni successivi altre tre tendopoli. Ogni volta furono circondate da baracche e rifiuti, quindi lasciate nell’abbandono e poi ricostruite un po’ più in là.

Il badge

Oggi quattrocento persone hanno il badge della tendopoli, in mezzo a una spianata di ghiaia circondata da reti di metallo. Altri migranti vivono nella baraccopoli nei pressi, dove sono rimaste molte ragazze nigeriane vittime di tratta. Altri ancora ne arriveranno. Nonostante la capienza di 400 posti (già saturi), nella zona arrivano fino a 2500-3000 persone.

L’atteggiamento delle istituzioni è cambiato nel giugno 2016. Dopo la colluttazione tra Sekine Traore e un carabiniere. Morì il bracciante. Da allora il problema sindacale – quello dei raccoglitori di arance ipersfruttati – lasciava il posto al tema securitario.

Eppure, soltanto qualche mese prima, i braccianti erano vittime di una banda che arrivava con una misteriosa auto e si divertiva ad aggredire i migranti. I responsabili sono stati individuati soltanto qualche settimana fa.

Tende blu

Da quasi trent’anni la piana di Gioia Tauro attira migranti per i lavori agricoli. Molti vivono in condizioni precarie, spesso in fabbriche abbandonate o casolari dal tetto sfondato. Gli interventi delle istituzioni sono sempre stati emergenziali. Dall’installazione di bagni chimici a quella dei container. Fino alle tende.

Ma il problema principale è che d’inverno le tende sono fredde. Già nell’esperienze precedenti era accaduto: i migranti preferivano il triplo strato di cartone, plastica e lamiera alla stoffa blu, che si riscalda solo con pericolose stufe a elettricità (quando l’elettricità è presente, nella nuova struttura i cavi non raggiungono tutte le tende).

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La nuova tendopoli a Rosarno © Antonello Mangano CC

Ma le domande fondamentali sono due. Perché tanta gente arriva in un territorio che offre sempre meno lavoro? Perché il ministero rivolge tanta attenzione al problema sicurezza e nessuna a quello dello sfruttamento?

Una gabbia di carta

La prima risposta ce la fornisce O. Una storia come tante. Sbarca a Pozzallo, lo smistano al Cara di Roma. È uno dei fortunati. Gli danno un “permesso umanitario”. Nella lunga attesa ha voglia di lavorare, va a Huelva, in Spagna, a raccogliere arance. È semplicemente entusiasta: gli danno anche 50 euro al giorno, mai visto in Italia.

La tendopoli è stata installata tre volte. Ogni volta sono state circondate da baracche e rifiuti, quindi lasciate nell’abbandono e poi ricostruite un po’ più in là

Però il rinnovo del permesso deve farlo alla Questura di Roma. Gli chiedono il certificato di residenza, è tornato in Italia con un ampio margine (cinque mesi) prima per trovarne una. Però qui gli hanno proposto solo tirocini ed è dura avere un reddito normale, figurarsi una casa stabile. O. è incatenato all’Italia dal documento, ma c’è chi sta peggio: chi non ha il documento.

Si chiamano “diniegati”, sono quelli che hanno ricevuto una risposta negativa alla domanda d’asilo. Nel 2016 erano il 60% (circa 55mila persone), nel 2017 potrebbero essere anche di più. Sono in genere impegnati nei ricorsi in Tribunale, pochissimi potranno effettivamente essere espulsi. Qualcuno ha un permesso temporaneo per richiesta asilo. Di solito è valido fino alla sentenza finale. Sono loro che riempiono i ghetti.

Un rifugio

Ma nel frattempo? Si cerca un lavoro, si cerca un rifugio. E il rifugio si trova nei ghetti, Borgo Mezzanone in estate, San Ferdinando in inverno. Castel Volturno nelle pause. Nomi noti di una geografia dell’Africa italiana, letteralmente generati da uno Stato che crea irregolarità senza proporre alternative. Anche la Questura di Gioia Tauro chiede la residenza (una beffa per chi dorme in un cubo di cartone).

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I sistemi di sorveglianza alla tendopoli © Antonello Mangano CC

Durante un blitz del marzo 2017 un minorenne si è rivolto ai poliziotti: “Non siamo animali, siamo uomini come vuoi. Siamo solo di colore diverso. Non fateci morire qui”. Vorrebbe andare in Francia, dove lo aspettano i suoi familiari, ma anche lui è incastrato in Italia dal rinnovo dei documenti. Pochi mesi ancora e arriva l’estate. La baraccopoli brucia. Oggi si ricostruiscono nuove case, con pazienza.

La globalizzazione in un solo paese

La situazione dello sfruttamento è identica. “Le arance sono a pagate a cottimo, un euro a cassetta”, racconta M. “I kiwi meglio, da 25 a 30. La paga normale sarebbe 45. Vengono a prenderci coi furgoni (sono persone che vivono qui da più tempo e hanno legami con i padroni) oppure col la bici andiamo in paese, nei posti dove vengono a prenderci. Lo scorso anno, nei campi ho subito un infortunio, una ferita alla gamba (ancora zoppica), sono stato curato da volontari. No, nessuno mi ha risarcito”.

M. sembra un africano isolato, in un paese del Sud Italia, circondato dalla miseria. Eppure è il terminale della globalizzazione che non risparmia ormai nessun angolo del pianeta.

Il succo d’arancia del Brasile importato illegalmente, le braccia ghanesi, maliane, burkinabé. Infine kiwi e clementine esportate in Polonia, Libia, Emirati, Canada, Germania. Con i sistemi di controllo coreani Rosarno aggiunge l’ultimo pezzo al mosaico della globalizzazione.

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