Rosarno. Due domande per cambiare e rompere il silenzio

© Antonello Mangano @ Flickr CC
  Nonostante l’ennesimo disastro umanitario nella Piana di Gioia Tauro, emerge la voce degli “sfruttatori per necessità”. Silenzio invece sulle truffe, sull’economia mafiosa, sul ruolo delle OP, sugli sbocchi di mercato delle arance. E sullo Stato che crea manodopera pronta per essere sfruttata
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ROSARNO – Anno diciottesimo dall’arrivo dei primi polacchi nella Piana. Anno settimo dalla rivolta. Ancora una volta, la raccolta delle arance diventa disastro umanitario. L’ong Medu denuncia che oltre duemila persone vivono in una baraccopoli indegna dell’Europa. Prima che i giornalisti tornino in massa a Rosarno per scrivere l’ennesimo articolo sempre uguale (“nulla è cambiato…”), proviamo a fare qualche domanda.

  1. L’attuale gestione dei permessi di soggiorno favorisce gli sfruttatori?

Come testimoniato da Medu, la maggior parte dei braccianti vive nel limbo dell’asilo: hanno permessi temporanei, sono in attesa dell’esito del ricorso, hanno ricevuto un diniego o sono in attesa della Commissione. Con una percentuale di dinieghi del 60%, si rischia di tornare al passato, quando la maggior parte dei braccianti era irregolare.

Lo Stato che vorrebbe soccorrere e integrare è lo stesso che crea la manodopera ricattabile

In questo modo si crea un enorme serbatoio di manodopera ricattabile. I braccianti spesso rimangono ancorati al territorio calabrese nonostante il desiderio di andar via e giocarsi la propria opportunità in un altro paese dell’Europa.

Lo Stato che poi vuole soccorrere e integrare (poco e male) è lo stesso che crea queste sacche di precarietà e irregolarità. Nel 2011, dopo la rivolta, furono concessi molti permessi umanitari aumentando la quota di regolari (due su tre). Se continua così, il rapporto sarà invertito. Una sanatoria e una riforma di Dublino permetterebbero di eliminare questa gabbia. Inclusione e integrazione sono risposte che convengono a tutti (tranne che agli schiavisti).

© Antonello Mangano @ Flickr CC
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  1. Seconda domanda: lo sfruttamento dei braccianti è dovuto ai prezzi bassi imposti dalla grande distribuzione?

Piccoli produttori, media e senso comune sembrano essere d’accordo. Ne siamo convinti? Bene. Allora rispondiamo a queste ulteriori domande.

1) Perché il territorio rimane opaco? Non si sa con precisione a chi finiscono le arance (c’è chi parla di compratori dell’Est, chi di GDO italiane, chi di multinazionali del succo come Coca Cola, che però nega di acquistare dalla Calabria). La reticenza sul tema impedisce di aprire vertenze.

2) Perché nessuno parla delle truffe? I numeri dicono che erano il principale “sbocco di mercato”. Lo sono ancora? Quanto è coinvolta la ‘ndrangheta nell’economia agrumicola? L’elenco dei sequestri di beni degli ultimi anni rivela che è molto coinvolta. Rimane il silenzio degli operatori che preferiscono tacere sull’argomento.

3) Perché i piccoli produttori non si mettono insieme? Il mezzo per riequilibrare il rapporto tra GDO e piccoli  esiste da tempo: le “organizzazioni dei produttori” sono nate esattamente per questo. Purtroppo a volte sono un mezzo per attrarre contributi europei. Ancora una volta, nel silenzio generale.

4) Davvero più soldi ai produttori significa automaticamente più soldi ai braccianti? Quando la Piana era ricoperta dei soldi delle “arance di carta” (la maggiore truffa ai fondi UE), 1500 africani vivevano nella Cartiera, dentro casupole di cartone, sotto una orrenda fabbrica col tetto sfondato. La peggiore sistemazione di sempre. Attualmente, non è dato sapere se i produttori di kiwi (valutato sul mercato molto più dei famosi centesimi delle arance da succo) pagano di più i raccoglitori.

Infine, otto anni dopo la rivolta, nell’immaginario collettivo è rimasto il ricordo di uno scontro tra autoctoni e africani, non una ribellione unilaterale a mafia e sfruttamento. Rosarno è al massimo “una bomba pronta a esplodere” e la contrapposizione italiani – stranieri è sempre più di moda. Sapremo uscirne?

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