Gambia, agosto 2013. Un uomo denuncia alla polizia che il fratellastro ha violentato la sorella. In quel paese non è facile denunciare un militare. E infatti non gli credono. In più, gli amici del fratello lo minacciano di morte.
Senza parenti e senza protezione, non gli resta che la fuga. Dopo aver attraversato il Senegal, la Mauritania, il Mali, l’Algeria riesce a imbarcarsi dalla Libia all’Italia.
Ma è solo l’inizio della sua odissea. Per un “clamoroso errore di copia ed incolla nella stesura della motivazione”, la commissione territoriale gli nega l’asilo. Infatti nel testo si parla di un cittadino del Bangladesh. Hanno incollato la motivazione di un altro.
Il giudice finalmente concede lo status di rifugiato e inoltre, riconosce “la grave situazione in cui versa il Gambia – nell’ambito del quale deve quindi essere calata la situazione personale del ricorrente”. In quel paese la sua vita sarebbe in serio pericolo.
Ci è voluto tutto il 2016, da gennaio a ottobre, per arrivare a questa sentenza. In totale, tre anni bruciati per scappare e per aspettare.
Sono appena venti le commissioni territoriali che giudicano un numero crescente di persone. Tutti parlano della cattiva accoglienza, degli alberghi e dei centri. Ma nessuno si occupa di una burocrazia che aumenta i costi, distrugge pezzi di vita, risponde con tempi irreali.
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