“Se mi danno un documento, io lavoro e pago le tasse. Qual è il problema per lo Stato italiano?”. Un ragazzo del Ghana ha una domanda che gli brucia dentro, ma nessuno riesce a rispondergli. Siamo tra i migranti prigionieri del ghetto di San Ferdinando, nei pressi di Rosarno. Lavoratori in attesa di un documento che non arriva mai. Senza quel pezzo di carta non possono andare da nessuna parte. Non capiscono il senso di questo limbo.
Troppi migranti, in questo Paese, sono rappresentati come vittime senza volontà o come criminali pronti a farci del male. I sociologi la chiamano “agency del migrante”. La capacità di agire, negata ancor prima dei loro diritti.
Cosa dire, per fare un altro esempio, di Soumaila Sacko? Il 2 giugno 2018 quattro colpi di fucile lo centravano alla testa mentre – insieme a due connazionali – stava raccogliendo lamiere nella campagna calabrese, in una fabbrica abbandonata.
Non erano migranti – vittime, africani passivi e rassegnati, ma attivisti dell’Usb, il sindacato che da tempo è presente sia a Rosarno che a Foggia e prova a chiedere diritti per tutti i lavoratori, compresi i braccianti delle campagne.
Stesso discorso per le donne arabe. Nel nostro immaginario sono sinonimo di sottomissione. Invece a Modena erano in testa ai blocchi dell’azienda Italpizza, una ditta che rifornisce Coop, con tanto di certificazione etica, ma che invece – secondo le lavoratrici e i lavoratori – fa ricorso alla lavoro a chiamata, violando diritti essenziali.
Altre donne arabe, questa volta in Spagna, si sono ribellate al doppio sfruttamento – lavorativo e sessuale – in una zona di serre del tutto analoga (dal punto di vista strutturale e degli abusi) a quelle siciliane. Hanno denunciato, hanno dato origine a un movimento di solidarietà in tutto il paese, hanno dimostrato che ribellarsi è possibile.
Ancora un’altra donna marocchina, Aisha, ha denunciato lo stato italiano dopo le violenze subite dalla figlia nel corso di una rivolta nel centro di Lampedusa. Anche questa una storia sconosciuta, ma indicativa dell’orrore in cui siamo precipitati.
Donne arabe ribelli, africani sindacalizzati. Uomini e donne reali, molto lontani dai luoghi comuni
Le migrazioni non sono solo sbarchi e situazioni disperate. C’è chi arriva con un visto, come i sudamericani. Chi viaggia in aereo, come tanti asiatici. Chi scende alla stazione dei pullman, come la maggior parte dei rumeni. Tanti, contrariamente ai luoghi comuni, lavorano fianco a fianco con gli italiani: indiani nelle cucine dei ristoranti; rumeni e peruviani nelle cliniche private; cinesi nei banconi dei bar; bulgari e albanesi nei cantieri; ivoriani nelle imprese di pulizie. Per non parlare dei rider. Giovani disoccupati di tutte le nazionalità accomunati dal bisogno di guadagnare e schiavizzati dal caporale digitale.
L’Italia è da tempo un incrocio di storie e di persone, nonostante le politiche di apartheid che da decenni persegue.
La propaganda di stampo leghista ha abbassato la soglia della dignità: rivendichiamo il soccorso in mare come fosse normale arrivare in Europa su un barcone che attraversa il Mediterraneo.
Bisognerebbe parlare di visti e non di sbarchi. Di lavoro e non di accoglienza. È il lavoro che integra. Sono i diritti che accolgono, è la loro assenza a respingere. Dividere italiani e stranieri ricorda la storiella del padrone che mangia tutta la torta e poi dice all’italiano: attento, l’immigrato sta mangiando le tue briciole.
Il criterio dovrebbe essere quello della giustizia, non il “noi” contro “loro”. Il partito che oggi esalta l’identità nazionale è lo stesso che voleva dividere la penisola in tre parti.
Infine, perché si parte? Perché non c’è giustizia. Cos’è la giustizia? Il diritto a un lavoro, a crescere dignitosamente i figli, a immaginare per loro un futuro. Se non puoi farlo dove sei nato, parti. Non è complicato da capire. Basta guardarsi intorno. È quello che stanno facendo – in massa – gli italiani.