Il terzo di cinque racconti scritti per Radio Tre

3. Quando sei sul punto di scappare

  «Un grido nella notte, nell’oscurità della campagna. Avevamo appena vinto le regionali del 1980. Eravamo i comunisti e stavamo festeggiando a Rosarno...». Una storia che dura trent`anni e arriva fino alla rivolta degli africani. Un racconto sulle contraddizioni estreme. «Ecco il Sud. Quando sei sul punto di andartene sbattendo la porta e urlando che tutto è perduto, c'è qualcosa che ti ferma proprio un attimo prima della fuga...»
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«Aiuto, cumpagni, mi spararu». Un grido nella notte, nell’oscurità della campagna. Avevamo appena vinto le regionali del 1980. Eravamo i comunisti e stavamo festeggiando in un ristorante fuori da Rosarno. All’uscita, due fucilate colpiscono il segretario del partito Giuseppe Valarioti.

A pochi passi da lui c’era Giuseppe Lavorato, uno che ancora oggi si definisce comunista, sindaco di Rosarno dal 1994 al 2003. Ha raccolto l’eredità di Valarioti, è stato il protagonista delle lotte contro la mafia e per il lavoro nella Piana di Gioia Tauro. Nel 1995 i criminali salutarono l’insediamento della sua giunta sparando contro tutto, insegne, lampioni, pure contro il cimitero: una notte di capodanno che devastò il paese.

Le ricordo bene quelle due notti. Avevamo paura, perché sapevamo che rischiavamo la pelle tutti i giorni. Ma c’era anche entusiasmo, energia. I comizi li tenevamo ovunque, pure nei rioni dei mafiosi. «La ‘ndrangheta abbaglia i vostri figli con il sogno della ricchezza facile e poi ve li riconsegna morti», gridava Lavorato. Poi, invece, abbiamo iniziato a nasconderci.

Finché, dopo molti anni, sono stati quegli uomini venuti dall`Africa a restituirci il coraggio. Nel ’79 due camionisti della ditta “Eva” furono ammazzati a fucilate. Erano venuti da Verona per prendere un carico di agrumi. I produttori locali vendevano al Nord e venivano pagati bene. Da quel giorno, divenne chiaro che non erano più autorizzati a farlo. Dovevano vendere agli uomini della ‘ndrangheta. E persero subito metà del loro reddito.

Poi vennero le truffe, il controllo militare dei campi, gli anni del terrore. Loro, piano piano, acquisivano i terreni dei baroni con le minacce. Ettari ed ettari da spremere per incassare contributi pubblici. Divennero la nuova classe dirigente, una classe dirigente col fucile in spalla. «Nella Piana di Gioia Tauro, tale fenomeno di circolazione delle élite assume la fisionomia inconfondibile del passaggio da un tipo di ordine sociale a un altro», scrisse Arlacchi.

Diventavamo poveri lentamente, perché si stavano succhiando tutto. E divennero tracotanti e ricchi, ma rimasero ignoranti. «L’imperio mafioso parte dalle campagne e arriva nei mercati» ci diceva Lavorato invitandoci alla ribellione. Ma noi avevamo nelle orecchie l’eco delle fucilate che allontanava i commercianti forestieri. Vedevamo gli amalfitani che andavano via dopo due secoli. Gli eredi dei commercianti di origine campana, pugliese e genovese si erano stabiliti a Rosarno tra la metà del 1800 e la seconda guerra mondiale. Erano abili nel commercio dell’olio, del vino e degli agrumi. Quasi tutti avevano sposato ragazze del luogo, avevano messo radici in Calabria. Li fecero scappare in pochi anni.

Poi arrivò l’omicidio Valarioti, nel 1980. E fu chiaro che eravamo in guerra. La riscossa cominciò con la giunta Lavorato. Eletto due volte di seguito, la seconda delle quali con un vero plebiscito. Ed ecco il Sud. Quando sei sul punto di andartene sbattendo la porta e urlando che tutto è perduto, c’è qualcosa che ti ferma proprio un attimo prima della fuga. Per me, quel qualcosa fu la valanga di voti con cui tutti i rosarnesi scelsero un sindaco rigidamente antimafioso.

Della lotta alla mafia aveva fatto una vera religione, proprio nel cuore della terra che gli uomini della ‘ndrangheta avevano occupato militarmente. Anche quell’esperienza finì. Nel 2003 tornò la notte. «Sono giovani, ignoranti e armati», avevano scritto i senegalesi al sindaco. Si riferivano ai ragazzini che facevano le ronde con i motorini e li aggredivano senza motivo, per gioco, con le pietre o i bastoni. Ecco i padroni del paese. I boss e quelli che sognavano di fare i boss. Negli altri posti i giovani sperano di diventare un calciatore di serie A, da noi in tanti sperano di soppiantare i Bellocco o i Pesce.

Giovani cresciuti guardando fino alla nausea Al Pacino in Scarface o ascoltando lugubri canti di malavita che promettono vendette inesorabili agli infami. Era quello il modello vincente, erano loro ad aver vinto. Noi eravamo i comunisti, in quel periodo divenne la peggiore delle offese. Ci chiudemmo nelle nostre case. Ci rifugiammo nel privato, nelle nostre attività. Vivevamo in apnea. Ma non sopportiamo quelli che non hanno vissuto questa storia, trascorrono qualche ora in paese e sputano sentenze. Siamo molto permalosi.

Amiamo visceralmente la nostra cittadina, anche se vi sembrerà strano essere legati a questo insieme di abitazioni, spesso scheletri di cemento, mentre in strada sfrecciano Audi e BMW dai vetri oscurati. Lo so, non è facile da spiegare come si possa rimanere e amare questa terra dei morti ammazzati a colpi di kalashnikov dopo una lite per un parcheggio. La terra delle autobombe e dei razzi anticarro di provenienza jugoslava trovati in normali appartamenti. Quella dei ragazzini di quattordici anni assassinati con un colpo alla nuca. Dei padri uccisi per rubargli il fucile da caccia, che lasciano un figlio di due anni.

«La comunità africana ha dimostrato un senso dello Stato maggiore rispetto a quello degli stessi rosarnesi. Hanno saputo alzare la testa», disse il capitano dei carabinieri riferendosi agli africani. Era il dicembre 2008. Dopo una rapina protestarono per le vie del paese e poi andarono in caserma. Testimoniarono e fecero arrestare il malvivente. Soprattutto sentirono un problema individuale – le pallottole che avevano ferito due braccianti – come una questione collettiva. È ripartito tutto grazie a loro. Nel gennaio 2010 la seconda rivolta. Tanta attenzione sul nostro paese. E finalmente abbiamo visto le ‘ndrine più deboli, le abbiamo viste colpite da retate e arresti. Oggettivamente, siamo diventati tutti più sicuri, grazie agli stranieri. Esattamente il contrario della propaganda che accusa i migranti di degrado e criminalità. Dovremmo ringraziarli, anche se ancora non sappiamo come finirà la storia. È il Sud. Calabria e Africa. Partenze, contraddizioni, situazioni estreme e tanta energia. Tutte cose che cambiano il mondo.

I racconti scritti per RadioTre

Questi racconti sono tratti dal libro «Voi li chiamate clandestini», di Laura Galesi e Antonello Mangano, edizioni Manifestolibri [Scheda del libro]. Sono andati in onda su RadioTre Fahreneit.


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