John Maynard Keynes, a 42 anni, era famoso in tutto il mondo come negoziatore per il Tesoro britannico. Fu inviato alla conferenza di pace di Parigi che seguì la Prima guerra mondiale. Paradossalmente, divenne particolarmente popolare nelle nazioni sconfitte, Austria e Germania, perché avvertì le nazioni vincitrici: abbandonate la xenofobie e le ripicche nazionaliste, oppure ci sarà un’altra guerra.
Le ferite del primo conflitto mondiale non furono sufficienti. La Germania distrutta dalle conseguenze della guerra e colpita dalle riparazioni pretese dai vincitori aveva iniziato a covare il mostro del nazismo.
Narcisista e presuntuoso, accusato di cambiare spesso idea, Keynes era comunque amato per il suo approccio umanistico. Il suo obiettivo era un’economia al servizio dell’uomo. Orientata a eliminare povertà e sofferenze grazie alla spesa in deficit dello Stato e all’effetto moltiplicatore dell’intervento pubblico. Non era un uomo di sinistra, votava liberale e le sue ricette volevano sostenere il capitalismo piuttosto che abbatterlo. Lo Stato avrebbe dovuto fare quello che non fa nessuno, non sostituirsi agli individui. “Una mano leggera al timone e una ciurma ricca e soddisfatta”, secondo una definizione. “Regalò la speranza che la disoccupazione potesse essere curata senza campi di concentramento”, secondo un’altra.
Ma nel corso degli anni fu sempre più associato alla sinistra perché gli economisti di destra divennero insofferenti a un qualunque ruolo dello Stato. Quando sostenevano che “nel lungo termine” il mercato autoregolato avrebbe raggiunto il punto di equilibrio, Keynes rispolverava la sua celebre battuta: “Nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Fino agli anni ’70 le politiche keynesiane erano fuori discussione. Erano l’ortodossia del mondo non comunista. L’alternativa era tra socialdemocrazia e socialismo reale. Nessuno prendeva in considerazione il liberismo. Paul Samuelson, premio Nobel per l’economia e keynesiano di ferro, riassumeva così il tema dell’egemonia: “Non mi importa chi è che scrive le leggi di una nazione finché posso scrivere i manuali di economia”.
Furono la crisi petrolifera e la crescita dell’inflazione a creare un punto di rottura. Friedrich von Hayek, fino ad allora, era un isolato sostenitore del libero mercato. Nel 1923 rischiò di fare il lavapiatti a New York, prima di essere assunto all’Università. Significativamente, visse 92 anni ma non lavorò neppure un minuto nel privato.
La società da lui promossa, la Mont Pelerin, era soltanto un gruppo di economisti litigiosi che si riunivano sulle montagne svizzere e tornavano a casa con una nuova lista di defezioni dei soci.
Il loro argomento principale era lo scivolamento dall’intervento statale alla fine della libertà individuale. Se Hayek, cresciuto durante l’occupazione nazista in Austria, poteva ricordare il mix di economia statale e totalitarismo della gioventù, adesso l’intervento statale era associato alle esperienze scandinave. “La libertà del gomito del vicino finisce dove cominciano le mie costole”, rispose Samuelson alle paure dei liberisti. E ancora: “Dove sono i lager in Svezia?”. Hayek rispose che il paese del Nord aveva raggiunto il benessere nonostante l’intervento statale. E che la perdita di libertà causava un alto tasso di suicidi.
Erano rispose che suscitavano soltanto sorrisi. Poi le cose cambiarono. Nel 1980 un celebre attore di Hollywood decise che il suo problema personale – non accettava nuovi film perché i compensi sarebbero stati erosi dalle tasse – era una questione della nazione. Ronald Reagan rilanciò il liberismo, ma in realtà buona parte delle sue politiche furono keynesiane: mai gli Usa avevano speso tanto, anche se in un solo settore, quello militare. Parallelamente Margaret Tatcher usò Hayek come consulente per una imponente politica di privatizzazione. Almeno nel mondo anglosassone, Keynes finì nel dimenticatoio.
Divenne di moda la teoria del trickle down, lo “gocciolamento” per cui favorendo i ricchi a cascata qualcosa sarebbe arrivato ai poveri. John Kenneth Galbraith, un altro economista keynesiano, rispose che era come “dare biada al cavallo e sperare che un po’ ne cada per i passerotti”.
In Italia bisogna aspettare il ’90 per il trionfo dell’egemonia liberista. Da allora però l’impatto è stato violento: privatizzazioni, precariato, blocco delle assunzioni nell’apparato statale e nuove generazioni destinate all’emigrazione. Tutto giustificato dal mantra “non ci sono i soldi”.
La risposta di Keynes è assolutamente attuale: “Non facciamo niente perché non abbiamo i soldi. Però è esattamente perché non facciamo niente che non abbiamo i soldi”.