Ricordi (e bilanci)
Settembre 2021 – Premetto: non sono una esperta di Afghanistan. Ho lavorato a Kabul, con l’UNICEF, solo per poco più di un anno, fra il 2002 ed il 2003. Queste pagine non hanno alcuna pretesa di offrire una analisi esaustiva della situazione in Afghanistan e del ruolo giocato dalla comunità internazionale negli ultimi venti anni. Troppo complessa, fluida ed incerta la situazione. Troppo limitate le mie conoscenze.
Ho scritto queste pagine spinta, piuttosto, da un personale bisogno di ricordare e di riflettere sul senso della mia esperienza umana e professionale in Afghanistan.
Ho sentito il bisogno di scrivere anche, forse soprattutto, perché non trovavo altro modo per spiegare a me stessa ciò che la infelice storia di questo paese disgraziato, hanno smosso dentro di me. Che, credo, sia qualcosa di molto profondo. Qualcosa che forse ha a che fare con l’essenza stessa della mia storia e delle mie scelte. Una storia che negli ultimi venti anni e più mi ha portato a vivere e lavorare con le Nazioni Unite in 14 paesi diversi ai quattro angoli del mondo. Credendo nella utilità, e probabilmente anche nella indispensabilità, di quel lavoro. Forse sono anche io ad una resa dei conti. Venti e più anni dopo. Ma questa sarebbe un’altra storia.
Ho ricordi ancora vividi del mio arrivo a Kabul con un volo umanitario delle Nazioni Unite decollato da Dubai. Era l’11 Settembre del 2002. Il gate a Dubai era pieno di militari della forza NATO multinazionale ISAF (International Security Assistance Force). Ricordo bene il disagio che provai nel vedere quella moltitudine rumorosa di uomini e donne in completo equipaggiamento militare in attesa, anche loro, dell’imbarco per Kabul. Ero assalita dai dubbi: aveva senso quel mio incarico? Quali giochi si giocavano davvero sul suolo afghano a seguito dell’intervento militare americano dell’anno prima? Quali erano gli interessi reali delle altre potenze impegnate nel conflitto a fianco degli Stati Uniti? Quale era la posizione delle tante organizzazioni umanitarie e di cooperazione alla sviluppo rispetto all’azione militare? Quale la loro reale capacità di azione rispetto ai tanti belligeranti sul suolo afghano? Avremmo collaborato con l’ISAF? A quali condizioni? Eravamo, saremmo stati, semplici pedine in una nuova versione del “great game” afghano iniziato due secoli prima? E tutti quei militari, poi, in fila come me per l’imbarco… cosa sapevano e cosa pensavano, loro, di quella missione? In cosa credevano, davvero?
Avevo provato una sensazione simile al mio arrivo in Kosovo, qualche anno prima. All’aeroporto di Pristina mi aveva subito colpito lo spiegamento di forze militari internazionali (KFOR), anche lì a guida NATO, e la loro mescolanza con gli operatori civili, incluse le organizzazioni impegnate nella cooperazione e gli aiuti umanitari. Ed anche in quel caso mi ero chiesta se l’intervento militare in Kosovo fosse stato “giusto” e sino a che punto l’afflusso di ingenti finanziamenti esteri, e l’arrivo in massa di cooperanti e di operatori umanitari, sarebbero riusciti a creare le condizioni necessarie per uno sviluppo duraturo e per la pacificazione di quella terra. La vista della bandiera italiana, in un angolo di quel desolante aeroporto balcanico, accanto ai mezzi blindati della KFOR, mi aveva al tempo stesso confusa e, stranamente, confortata.
Atterrare a Kabul, dicevo, quel settembre di quasi venti anni fa. Di quell’aeroporto, il giorno del mio arrivo, ricordo con vividezza un paio di cose: un vecchio (ma era poi così vecchio come sembrava?) con una lunga barba bianca, un logoro turbante grigio avvolto disordinatamente intorno alla testa ed una sudicia tuta blu, intento a pulire i sudici vetri della sala d’aspetto dell’aeroporto con un altrettanto, sudicissimo, straccio. Ricordo i movimenti lenti, circolari e assolutamente inutili del suo scarno braccio su quelle luride finestre. Chissà per quale ragione quella immagine si è impressa nella mia memoria. Forse per quel senso di inutilità.
Poi ricordo le montagne, tutto intorno all’aeroporto: l’imponente catena montuosa dell’Hindu Kush con le cime già imbiancate di neve. La vista di quelle montagne avrebbe continuato ad affascinarmi per tutto il periodo del mio soggiorno a Kabul: ammantate di giallo la mattina, quando il sole le avvolgeva con la sua luce accecante; rosse al tramonto e poi quasi violacee nel buio della notte, delle linee appena stilizzate sull’immenso sfondo nero del cielo. Infine, ricordo la carcassa di un aereo dell’esercito nazionale afghano (credo) piazzata al primo incrocio all’uscita dell’aeroporto. Ad ogni partenza e ad ogni arrivo a Kabul quella carcassa mi ricordava, funestamente, la triste storia di quel magnifico ed infelice paese.
A Kabul, mi occupavo di coordinare un programma di giustizia minorile in collaborazione con vari Ministeri ed istituzioni afghane, varie agenzie delle Nazioni Unite ed alcune Ambasciate, fra cui quella Italiana, che a quel tempo aveva assunto il ruolo di leader nel settore della riforma del sistema giudiziario afghano (per inciso, l’Italia era anche paese belligerante in quanto membro della forza NATO dispiegata in Afghanistan). Un compito complesso, quello della riforma della giustizia, in un paese in cui hanno sempre convissuto sistemi paralleli di giustizia: quello formale, con i suoi codici ed i suoi tribunali, quasi unicamente relegato a Kabul; e quello informale con le sue molteplici ed antiche regole e consuetudini tribali, con le sue jirgas, cioè consigli degli anziani, radicato nella tradizione islamica e nella sharīʿah, legge divina. Il programma UNICEF di cui ero responsabile includeva formazione del personale afghano – magistrati, procuratori, avvocati, esponenti delle forze dell’ordine; supporto alla stesura di un nuovo codice minorile, primo nella storia dell’Afghanistan; monitoraggio delle condizioni di detenzione di minori nella prigione di Kabul; creazione di un nuovo centro di riabilitazione per bambini e ragazzi in conflitto con la legge, come alternativa al carcere.
Ricordo l’entusiasmo dei tanti colleghi afghani con cui lavoravo. Ed il mio, anche.. Ricordo un gruppo di formatori iraniani, impegnati anche loro nella difficile riforma del proprio sistema giudiziario, arrivati da Teheran per facilitare seminari con i colleghi afghani. Alcuni fra questi erano donne. Ricordo pure certe faticose conversazioni con membri delle commissioni giudiziaria e costituzionale afghane. E ricordo, in particolare, uno dei mie primi incontri con esponenti delle istituzioni legali afghane a Kabul. Una stanza spoglia; un tavolo pieno di carte impolverate; una sgualcita tenda azzurra alle finestre; un tavolo basso, in cui veniva servito un dolcissimo tè verde accompagnato da altrettanti dolcissimi biscotti al miele, con intorno un set di imponenti poltrone di velluto liso, stile rococò. Assolutamente incongrue in quella stanza. Il nostro interlocutore principale era un anziano signore, membro della commissione giudiziaria (o forse della Corte Suprema, non ricordo più). Abito tradizionale, shalwar kameez ed immancabile turbante. Un corpo esile che poteva essere quello di un trentenne, con un viso pieno di rughe profondissime che poteva essere quello di un novantenne. Quell’incontro lo ricordo nei dettagli perché fui completamente ignorata da quel signore. Era seduto di lato a me e non mi guardò mai negli occhi, per tutto il tempo della riunione. Il corpo dritto, la testa sempre girata dal lato opposto al mio. Si rivolgeva al mio traduttore (maschio naturalmente) ed era come se io fossi un fantasma in quella stanza. Mi sentii umiliata. Non è facile essere donna in Afghanistan, anche quando sei una occidentale con una infinità di privilegi. E, comunque, forse aveva un po’ ragione anche lui: che ci facevo io in quella stanza? Forse ero io ad essere “incongrua”. Come quelle grandi poltrone…
Il nuovo codice minorile fu approvato nel 2004. Oggi destinato, forse, all’oblio. Non so se quel centro di riabilitazione a Kabul per minori in conflitto con la legge, un progetto che aveva entusiasmato molti, inclusa me, esista ancora. Forse è diventato l’ennesima prigione. Con i talebani di nuovo al potere, tutte quelle donne che ho incontrato, impegnate nella ricostruzione (o costruzione?) del sistema giudiziario afghano potranno ancora lavorare? So che alcune di loro hanno lasciato l’Afghanistan già tanti anni fa, quando l’insurrezione talebana era al suo picco ed il futuro non prometteva nulla di buono. I talebani reimporranno l’applicazione più rigida della sharīʿah e reintrodurranno le loro pratiche medievali di “giustizia”.
Un servizio della BBC ha rivelato che oltre 200 donne magistrato afghane sono oggi costrette a vivere in clandestinità nel loro paese per paura di ritorsioni. Donne che nel corso della loro carriera, negli ultimi venti anni, hanno condannato centinaia di uomini per violenza contro altre donne, incluso stupri e omicidi. Braccate, oggi, da quegli stessi criminali di nuovo liberi, come migliaia di altri rilasciati dalle prigioni dai talebani dopo la loro presa del potere nel paese.
Tutto già annunciato. Dunque, quel lavoro non è servito a nulla? Ma poi, come si misura il “successo” in un paese così complicato come l’Afghanistan? Che cosa è stato concretamente realizzato? Quale è il senso del mio contributo, non importa quanto infinitesimale, a quegli sforzi? A queste domande, ancora oggi, non saprei dare risposte chiare.
15 Agosto 2021: l’Afghanistan torna a fare notizia
Negli anni successivi alla fine del mio incarico in Afghanistan ho continuato a seguire gli sviluppi politici nel paese, la situazione umanitaria, i (pochi?) progressi e le (tante!) disfatte della comunità internazionale impegnata sul territorio afghano per due decenni. Ho mantenuto i contatti con alcuni dei colleghi e amici afghani. Ho collezionato libri e fotografie sulla storia dell’Afghanistan. Ho scritto sulla questione della giustizia di transizione e della responsabilità per i crimini commessi contro la popolazione civile durante le varie fasi della lunga guerra che ha attanagliato il popolo afghano, per decenni, in una morsa infernale di violenza.[1] Ma a poco a poco l’attenzione, anche la mia, è andata scemando. Nuove vicende di vita, nuovi incarichi in paesi lontani da quel pezzo di Asia che mi era, eppure, entrato nelle viscere per la impressionante bellezza dei suoi paesaggi, per la formidabile fierezza, eleganza ed ospitalità del suo popolo. Per la sua tragica storia. Per le meravigliose persone conosciute.
Poi, è arrivato il 15 Agosto del 2021: la presa lampo di Kabul da parte dei talebani; il totale collasso delle forze armate afghane (senza quasi combattere); la ingloriosa fuga del presidente Ashraf Ghani (un presidente voluto e sostenuto dagli americani); il disfacimento di un governo notoriamente corrotto; la fine della Repubblica Islamica dell’Afghanistan; e la restaurazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. In meno di tre mesi, dall’inizio dell’offensiva militare talebana di Maggio, sono letteralmente evaporati venti anni di colossale investimento in azioni militari e di state building. In meno di 24 ore dal loro ingresso nella capitale, i talebani sedevano già al tavolo presidenziale e potevano, con fierezza (e chissà, forse anche con un certo stupore), dichiarare la nascita del loro emirato islamico versione 2.0.
Cosi l’Afghanistan è tornato a fare notizia. E cosi è rientrato anche con furia nella mia memoria, toccando corde che mi provocano una grande tristezza. Recupero un vecchio baule nel quale ho custodito nel tempo oggetti, lettere, suppellettili accumulati negli anni nei diversi paesi in cui ho lavorato o viaggiato. Mi riproponevo da anni di aprirlo e di fare ordine. Ma ogni volta che mi veniva l’idea me la facevo subito passare, sgomenta al pensiero di dover decidere cosa tenere, cosa regalare, cosa buttare… Ma questa volta il desiderio di recuperare immagini e ricordi dell’Afghanistan ha prevalso. Un vecchio tappeto arrotolato all’interno del baule mi restituisce anche vecchi odori di chicken street (la strada di negozi più conosciuta a Kabul).
Mi soffermo su una tela dai coloratissimi fiori ricamati a mano. Originaria, credo, del Badakhshan. Un regalo di Fawzia Koofi, giovane collega afghana che nel 2002 lavorava per l’UNICEF nel mio stesso team. Brillante, grande lavoratrice, generosa e con un forte senso della giustizia. Vedova e madre di due bambine. Ricordo un magnifico pranzo nel suo modestissimo appartamento a Kabul. Dal 2002 Fawzia ha fatto tantissima strada: è diventata una importante attivista dei diritti delle donne e dei bambini, riconosciuta internazionalmente; membro del Parlamento; prima donna nella storia dell’Afghanistan ad essere eletta vice-presidente e speaker dell’Assemblea Nazionale e a capo di un partito politico. Unico membro donna della delegazione afghana impegnata nei negoziati di pace con i talebani a Doha, in Qatar, iniziati nel Settembre dell’anno scorso. Un percorso ancora più straordinario, quello di Fawzia, se si ripercorre la sua storia personale: diciannovesima figlia di un capo villaggio rurale, sua madre la seconda delle sue numerose mogli. Inizialmente la madre è sconcertata dalla nascita, ancora una volta, di una bambina e l’abbandona sola al sole, per le prime ore della sua vita. Poi si pente e corre a recuperarla per prendersi cura di lei. Nel mese di Agosto, cerco, un po’ ingenuamente, di raggiungere Fawzia attraverso i social media, per avere sue notizie. Ma lei, ovviamente, non risponde. Chissà chi gestisce ora la sua posta personale. Poi apprendo dai giornali che Fawzia è stata evacuata in sicurezza dall’Afghanistan a fine Agosto dopo essere stata posta agli arresti domiciliari dai talebani. In una lettera alle figlie aveva scritto anni fa: “(..) forse la cosa peggiore che può accadere a qualsiasi donna è perdere se stessa. Perdere il senso di chi e cosa sei o perdere di vista i tuoi sogni è una delle cose più tristi”.
Milioni di donne e bambine afghane, ma non solo loro, rischiano di nuovo di perdere di vista i loro sogni, dopo avere assaporato il profumo della libertà. Ascolto alcune delle ultime interviste rilasciate da Fawzia Koofi: alla domanda di una giornalista di Al Jazeera “is it all lost?” (è tutto perso?), risponde decisa che no, non è tutto perso e che dobbiamo dare all’Afghanistan, e soprattutto alle ragazze e donne afghane, un’altra chance.
Mi soffermo poi su alcune foto della House of Flowers a Kabul, una piccola struttura che ospita bambine e bambini afghani orfani o appartenenti a famiglie indigenti offrendo loro alloggio, cure ed educazione con interventi educativi e di formazione ispirati al modello Montessori.[2] Un piccolo gioiello di cooperazione messo su da una straordinaria coppia – lei una educatrice americana, lui un medico iraniano – con cui condividevo una delle tante guest house delle Nazioni Unite a Kabul, insieme ad altri colleghi. Ricordo la loro dedizione per quei bambini. Il loro senso, puro, della solidarietà interazionale. La loro coerenza. E pensando a quel “piccolo”, grande, progetto mi dico che, si, vale ancora la pena impegnarsi nella cooperazione internazionale. Vale ancora la pena credere nel multilateralismo e nella possibilità di un mondo diverso. Non cedere al cinismo.
Un delicato vaso di vetro soffiato, di un magnifico blu topazio, mi ricorda un viaggio ad Herat, città del nord-ovest afghano ai confini con l’Iran ed il Turkmenistan, con con Fereshteh (nome di fantasia per proteggerne l’identità), donna magistrato afghana, anche lei ex collega UNICEF e mio angelo custode durante il mio anno in Afghanistan. Ricordo le sue preoccupazioni per me, le sue mille quotidiane sollecitudini, la sua modestia, la sua voglia di contribuire alla rinascita dell’Afghanistan. Ricordo, anche, le sue paure di donna. I suoi dubbi sull’amore e sul matrimonio. La sua paura di fallire. Fereshteh vive da anni in Canada. Soffre profondamente per la sorte del suo paese e delle persone della sua famiglia che sono in pericolo, ancora bloccate a Kabul. Mi chiede aiuto per facilitare l’evacuazione di alcuni dei suoi familiari. Ed io chiedo aiuto a chi potrebbe, forse, fare qualcosa. Ma non succede nulla. Le evacuazioni sono un caos. Ed io mi sento più impotente ed inutile che mai. Il suo ultimo messaggio è un grido di dolore ed una accusa, velata, alla comunità internazionale, ma forse anche ai tanti signori della guerra afghani, ai governanti corrotti, a tutte quelle persone di potere (uomini in stragrande maggioranza) che hanno asfissiato l’Afghanistan. In uno dei suoi ultimi messaggi Fereshteh mi scrive “I don’t know the reason why Afghan people don’t deserve to live in peace”.
Appunto, perché il popolo afghano non ha diritto di vivere in pace? Gino Strada, venti anni fa, nella sua introduzione al libro “Afghanistan Anno Zero” (che potrebbe ahimè essere il titolo di un libro sull’Afghanistan di oggi) paragonava la storia dell’Afghanistan al gioco del Buzkashi, uno sport equestre tradizionale dell’Asia centrale e sport nazionale in Afghanistan. Da grande conoscitore del paese, aveva ragione. Buzkashi significa letteralmente “acchiappa la capra” e coinvolge due squadre di contendenti che si confrontano su un grande campo con lo scopo di impadronirsi della carcassa di una capra e di lanciarla in una area definita del terreno dove si svolge il gioco. Che è un gioco violento, senza regole precise. Ho assistito ad uno spettacolo nello stadio di Kabul e mi ha fatto orrore. Gino Strada aveva scritto che l’Afghanistan è come la capra del Buzkashi: il popolo afghano ha avuto la sfortuna di nascere in un paese che è un crocevia di straordinari interessi geopolitici e che nel corso dei secoli è stato brutalizzato da potenze straniere e da una catena sanguinaria di spietati gruppi armati e war lords locali, molti ancora oggi in business. Ognuno con i suoi interessi. Ognuno con la sua criminale indifferenza per i tormenti inflitti alla popolazione civile.
La lunga guerra per la (nostra) “libertà”
In risposta alla tragedia del 11 Settembre, il 7 Ottobre del 2001, il Presidente Bush annunciava i primi bombardamenti sull’Afghanistan. Era l’inizio della Operazione Enduring Freedom, il nome ufficiale usato dal governo degli Stati Uniti per la guerra globale al terrorismo. “Libertà duratura”, letteralmente. Ma libertà per chi? E, poi, duratura, really? Gli eventi del 15 Agosto 2021 hanno mostrato, in modo desolante, il totale fallimento di quella funesta impresa militare. Venti anni dopo, con i talebani di nuovo al potere, una stima di oltre due trilioni di dollari, spesi dagli Stati Uniti soltanto, in sostegno alle operazioni belliche; e con circa 171,000-174,000 vite umane perse – inclusi oltre 47,000 civili afghani, in gran parte donne e bambini[3] – è lecito chiedersi se ne sia valsa la pena. Se quella fragorosa promessa di libertà avesse senso. La triste verità è che no, non ha avuto senso.
Nel 2001, dopo la caduta del primo Emirato Islamico dell’Afghanistan, il paese era in rovina. Secondo dati del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, l’Afghanistan era nel 2001 all’89esimo posto per indice di sviluppo umano su una lista di novanta paesi in via di sviluppo.[4] Insomma un paese precipitato nel baratro della storia. L’indice di sviluppo umano è un indice composito che misura il risultato medio in tre dimensioni di base dello sviluppo umano: una vita lunga e sana, livelli di alfabetizzazione e un tenore di vita decente. Alcuni degli indicatori usati includono: aspettativa di vita alla nascita; mortalità infantile al di sotto dei cinque anni di vita; tasso di alfabetizzazione fra la popolazione adulta; PIL pro capite, percentuale della popolazione con accesso ad acqua etc. I dati del 2001 sono desolanti: aspettativa di vita 50 anni circa; 70 percento della popolazione denutrita; tasso di alfabetizzazione (calcolato sulla popolazione dai 15 anni in su) del 36 per cento; tasso di mortalità, al di sotto dei cinque anni, di 275 su mille nati vivi (per avere una idea più precisa: nel 2001, nei paesi appartenenti alla OECD, il tasso di mortalità al di sotto dei cinque anni era di 13.1, cioè oltre venti volte più basso).[5] Insomma, nel 2001, in Afghanistan si partiva quasi da zero per quanto riguarda l’accesso e la qualità dei servizi di base e le strutture di governance: educazione, salute, ministeri, polizia, esercito…. Ground zero, appunto.
Gli obiettivi militari (dichiarati) di Enduring Freedom erano chiari: la distruzione dei campi di addestramento e delle infrastrutture terroristiche all’interno dell’Afghanistan; la cattura dei leader di al-Qaeda, ritenuti responsabili degli attentati dell’11 settembre; il rovesciamento del regime talebano, complice di proteggere e offrire rifugio ad al-Qaeda; e la cessazione delle attività terroristiche in Afghanistan. La difesa dei diritti delle donne; la costruzione della democrazia; l’impresa di state building. Il tentativo di “rimodellamento” del paese sullo schema delle democrazie occidentali, sono diventati tutti, in seguito, obiettivi secondari o meglio di sostegno allo sforzo bellico. Obiettivi spesso ammantati dalla retorica della ‘civilizzazione’ di un paese percepito come ‘tribale’, in perfetta linea con una certa visione orientalista tipica del periodo coloniale.[6] La “guerra giusta”, la guerra che doveva liberare il mondo (occidentale) dall’incubo del terrorismo ed il popolo afghano dalla “barbarie” si è conclusa, in realtà, nel modo più miserabile possibile.
Nel dicembre 2014, il presidente Barack Obama annunciava la fine dell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan e l’inizio di nuove operazioni dei militari americani sotto il nome di Operation Freedom’s Sentinel. Gli americani diventavano, più o meno, “guardiani”, “custodi” della libertà. Sempre lecito chiedersi, la libertà per chi? E libertà da cosa?
Poi c’era l’ISAF – International Security Assistance Force – una missione militare multinazionale creata sempre nel 2001 con una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta, originariamente istituita per un periodo di sei mesi per assistere l’autorità ad interim afghana nel mantenimento della sicurezza a Kabul e nelle aree circostanti.[7] Il Consiglio di Sicurezza autorizzava gli stati partecipanti alla Forza ad adottare tutte le misure per adempiere al suo mandato, che includeva l’addestramento delle Forze di Sicurezza Nazionale afghane e l’assistenza alla ricostruzione delle principali istituzioni governative. Questo è di fatto diventato l’obiettivo principale della missione dal 2011 in poi, quando la responsabilità per la sicurezza è stata progressivamente affidata agli afghani e ISAF è passata da un ruolo incentrato sul combattimento all’addestramento, alla consulenza e all’assistenza tecnica. Le forze afghane hanno assunto la piena responsabilità della sicurezza alla fine del 2014, quando la missione ISAF è stata completata. Vale la pena ricordare che ISAF è stata una delle più grandi coalizioni militari della storia. Al suo apice, la forza comprendeva oltre 130.000 uomini, con truppe provenienti da oltre 50 nazioni della NATO e partners.[8] Il 1 ° gennaio 2015 veniva poi lanciata, su invito del governo afghano, una più piccola missione NATO, non di combattimento, per fornire ulteriore formazione, consulenza ed assistenza alle forze e alle istituzioni di sicurezza afghane.[9] Era il tempo della Resolute Support Mission…. Anche rispetto all’ISAF sarebbe doveroso chiedersi cosa non ha funzionato, malgrado il massiccio investimento nel paese. Strategie sbagliate? Scarsa autonomia (o subordinazione) agli americani?
Cosa ci dice la catastrofe afghana sullo stato di salute dell’Alleanza Atlantica? Un’alleanza in cui, come è stato scritto, “l’America è soggetto, gli europei complemento oggetto” (“Lezioni Afghane”, in Limes, 8/2021, p. 12)?
Dunque, le forze di sicurezza afghane hanno beneficiato di anni di “risoluto” addestramento, di consulenza e di assistenza con un dispiegamento di risorse notevolissimo. Ma allora come è possibile che quell’esercito si sia vanificato nel nulla, quasi senza combattere, di fronte all’avanzata dei talebani? Rileggo le statistiche sulle morti violente in Afghanistan a causa del conflitto, dal 2001 ad oggi, ed il più alto numero di morti riguarda proprio l’esercito e la polizia afghane: una stima di 66,000-69,000 morti ossia circa il 40 percento del totale delle vittime del conflitto armato. Anche le forze di sicurezza afghane hanno dunque pagato un prezzo altissimo. E allora perché, all’improvviso, hanno smesso di combattere in difesa, questa volta, della loro “libertà”? In difesa del loro paese? Corruzione, si è detto, soprattutto ai vertici. Paghe bassissime. Mancanza di motivazione, morale basso. Incertezza sul futuro. Cosa si sapeva fra i “soldati semplici”, fra i gradi più bassi della gerarchia militare e della polizia, di quello che si negoziava a Kabul, incluso con le forze internazionali e con i talebani? Certo, difendere un paese in mano ad un governo che è percepito dalla maggior parte della popolazione come corrotto ed incapace non è impresa facile. Se poi gli americani e gli alleati se ne vanno dopo essersi accordati con in talebani (vedi sotto accordi di Doha), il presidente scappa, il governo si dilegua… cosa aspettarsi? Sarebbe onesto riconoscere che quella strategia di sostegno alle forze di sicurezza afghane si è rivelata essere un totale fallimento. Dell’Afghanistan, americani ed alleati, non avevano verosimilmente capito nulla. E questo, ahimè, lo dicono gli esperti. Militari compresi.[10]
Penso con molta tristezza alle tante donne afghane, molte giovanissime, che si sono arruolate negli anni nella polizia e nell’esercito afghano, sicuramente con il sogno di difendere il loro paese e costruire un nuovo Afghanistan. Immagino, anche, con il sogno di emanciparsi dalla schiavitù sessista imposta dai talebani sotto il loro primo, misero, emirato. Ricordo alcuni degli incontri di formazione sulla giustizia minorile fatti con la polizia afghana: ritrovo una foto con data 9 Ottobre 2002, un seminario sui diritti dei minori in conflitto con la legge organizzato con il Ministero della Giustizia e rappresentanti delle forze dell’ordine a Kabul. Figurano quattro donne. Mi chiedo dove saranno adesso e quale sia il loro destino. In un’altra foto sono ritratte due donne magistrato afghane, anche loro impegnate nella costruzione di un nuovo sistema di giustizia minorile in linea con gli standards internazionali. Quella foto era stata scattata ad Herat. In netto contrasto con l’immagine delle due magistrate, spicca la silhouette di una donna in burqa. Ricordo bene quel giorno ad Herat. C’era una fila di donne in burqa in attesa di una udienza nell’ufficio del governatore. Mi avevano spiegato che la maggior parte era lì per chiedere clemenza. Per cosa, esattamente, non ricordo. Una nota: il governatore di Herat, a quel tempo, era Mohammad Ismail Khan, notorio ex signore della guerra a capo di una grande forza di mujaheddin durante la guerra sovietico-afghana. Poi Ministro della energia e dell’acqua fra il 2005 ed il 2013. Il 13 agosto 2021 è stato catturato dai talebani. Secondo quanto riferito dalla stampa, è fuggito in Iran il 16 agosto. Un modo per dire che, in Afghanistan, anche i signori della guerra si riciclano in politica per decenni.
Mission (not) accomplished! L’ illusione del successo
Dunque, in Afghanistan si è combattuto principalmente per salvaguardare la nostra libertà e la nostra sicurezza. Ma le decine di migliaia di civili afghani morti in Afghanistan a causa del conflitto (un numero molto maggiore del numero di vittime causato dagli attentati dell’11 Settembre, se le statistiche hanno un senso) come li consideriamo? Un prezzo necessario da pagare per garantire la nostra sicurezza? Soltanto nella prima metà del 2021, le Nazioni Unite registravano un aumento del 47 percento di morti civili a causa del conflitto rispetto ai primi sei mesi del 2020: 1,659 civili uccisi e 3,524 feriti, di cui il 32 percento bambini ed il 14 percento donne. Un prezzo altissimo.[11] Eppure, nel 2012, l’allora presidente americano, Barak Obama, dichiarava a Kabul “mission accomplished” .[12] Nel 2003, Bush aveva espresso un simile ottimismo riguardo l’esito della guerra in Afghanistan (e in Iraq). Per non parlare dell’increscioso trionfalismo di Trump…
Che il popolo afghano sia ricaduto nella morsa brutale dei talebani e del loro oscurantista emirato, ce ne importa, forse, poco. Adesso tocca a loro salvarsi. Noi gli abbiamo dato tutti i mezzi, ha dichiarato il Presidente americano Biden. Solo che noi siamo fuori e gli afghani sono rimasti dentro. In trappola. Senza più neanche il sentore di quella libertà che gli era stata promessa e che non è stata, per altro, per nulla duratura. Il caos all’aeroporto di Kabul lo scorso Agosto, quelle immagini drammatiche di corpi umani appesi alle ruote di un aereo in decollo; il massacro, annunciato, di un attentatore suicida; gli sventurati militari morti proprio alla fine della loro sfortunata missione; i tanti bambini separati dai genitori nel caos delle evacuazioni; tutto questo, e molto ancora, dovrebbe davvero scuotere nel fondo le nostre coscienze. Dovremmo, almeno, avere l’umiltà di ammettere che la missione in Afghanistan è stata un fallimento. Punto. Che la guerra al terrore con il suo sciagurato seguito di invasioni e mega operazioni militari; di contro insurrezione ed interventi di stabilizzazione, spesso camuffati sotto la ben più presentabile etichetta di ricostruzione e state building; di tentativi di esportazione della democrazia; di sperimentazione sociale e politica in paesi così profondamente diversi dal nostro, arrogante, occidente non hanno funzionato.
È vero che negli ultimi venti anni non c’è stato negli Stati Uniti, e altrove, alcun attentato terroristico internazionale di matrice afghana. Ma siamo proprio cosi sicuri che il mondo sia più libero dal pericolo del terrorismo globale oggi di quanto non lo fosse nel 2001, prima della invasione dell’Afghanistan (e dell’Iraq)? ISIS non è, forse, uno dei funesti prodotti del fallimento della guerra in Iraq? E che dire poi della sua versione afghana, ISIS-Khorasan?
Gli accordi di Doha
I talebani, qualcuno obietterebbe, si sono impegnati a non offrire alcun appoggio, o rifugio, sul suolo afghano ad individui e gruppi terroristici, compresa al-Qaueda, firmando un accordo con gli Stati Uniti (amministrazione Trump) a Doha, Qatar, nel Febbraio dell’anno scorso. Difficile essere ottimisti. Vale la pena aggiungere qualche riga su quell’accordo, reperibile in rete sul sito del Dipartimento di Stato americano (ma c’è altro che non conosciamo?). Già il titolo : “Accordo per portare la pace in Afghanistan tra l’Emirato Islamico dell’Afghanistan – che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è conosciuto come i talebani – e gli Stati Uniti d’America”, firmato in data 29 Febbraio 2020.
Ma l’amministrazione Trump credeva davvero che ci fossero, nel 2020, le condizioni, per “portare la pace” in Afghanistan? E poi perché’ la pace l’avrebbero dovuta portare loro e non il governo afghano stesso, magari con una delegazione a Doha rappresentativa della volontà del popolo afghano? Magari con i buoni uffici delle Nazioni Unite? Non sarebbe stato più onesto chiamare quell’accordo “garanzie per il ritiro degli americani dall’Afghanistan in sicurezza”, o qualcosa di simile? Quattro paginette scarse, quattro punti chiave: 1) i talebani (che già un anno fa si auto definivano Emirato Islamico dell’Afghanistan) si impegnano ad impedire l’uso del suolo dell’Afghanistan da parte di qualsiasi gruppo o individuo che possa rappresentare una minaccia per gli Stati Uniti ed i suoi alleati; 2) gli Stati Uniti si impegnano al ritiro di tutte le loro forze e quelle degli alleati (ma allora perché gli alleati non erano anche loro presenti a Doha?) dall’Afghanistan entro 16 mesi dalla firma dell’accordo, cioè entro Giugno 2021; 3) una volta eseguiti i punti 1 e 2, i talebani si impegnano a dare avvio ai negoziati intra-afghani con tutte le parti interessate, a partire dal 10 Marzo 2020 (ed il governo afghano dove è?). Misure di confidence building includono scambio di prigionieri, una revisione amministrativa del sistema americano di sanzioni contro esponenti talebani (da notare che i talebani, in quanto gruppo, non sono mai stati nella black list delle organizzazioni terroristiche straniere del Dipartimento di Stato americano); e pressione diplomatica su altri membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per rimuovere i talebani dal regime di sanzioni introdotto nel 2011[13] (importante ricordare che prima di quella risoluzione, Talebani ed al-Qaeda erano soggetti allo stesso regime di sanzioni; differenziare le due entità era quindi già un importante passo politico per incoraggiare i talebani ad unirsi agli sforzi di riconciliazione nazionale). Un ulteriore dettaglio: gli americani si impegnano a Doha a non interferire negli affari interni dell’Afghanistan una volta concluso il ritiro. Come dire: una volta che ce ne andiamo, sono affari vostri. Come è noto, il ritiro delle forze americane e NATO è stato completato il 31 agosto di questo anno, con circa mezzo anno di ritardo rispetto al calendario stabilito a Doha. I negoziati intra-afghani inizieranno, anche loro, molti mesi dopo della data prevista ed avranno una fine molto breve ed infelice.
Gli accordi di Doha venivano accolti con favore dal Segretario Generale delle Nazioni Unite come un importante passo verso una soluzione politica duratura del conflitto afghano. E allora mi chiedo: ma come è possibile che le Nazioni Unite, il governo afghano, gli americani ed i loro alleati, con tutte le loro immense risorse a disposizione sul campo, incluso di intelligence, non avessero capito che la situazione era molto più drammatica, che i negoziati intra-afghani erano una chimera e che i talebani avrebbero ripreso il potere con la forza, comunque? E’ stata una scelta consapevole quella di abbandonare l’Afghanistan e consegnarlo ai talebani perché era ormai deciso che questa lunga guerra dovesse finire, a qualsiasi costo? O si è trattato di un colossale errore di valutazione politica, strategica e militare? La sorprendente blitzkrieg talebana era davvero così imprevedibile? Il ritiro delle forze internazionali non avrebbe dovuto essere condizionato a progressi tangibili nei negoziati intra-afghani, se veramente l’obiettivo era “portare la pace”?
Qualche giorno dopo l’infausto ritiro delle forze americane ed alleate dall’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno ammesso che un attacco di droni a Kabul, su un veicolo erroneamente associato ai militanti dell’ISIS-K, sferrato giorni prima del ritiro militare aveva causato la morte di 10 civili, inclusi sei bambini. Un “tragico errore” dichiara il generale americano McKenzie. Un modo ignobile di concludere venti anni di operazioni militari, verrebbe piuttosto da dire.[14]
Sulla ricostruzione e gli aiuti umanitari
Le tante organizzazioni impegnate nella ricostruzione e negli aiuti umanitari in Afghanistan negli anni immediatamente successivi all’inizio delle operazioni militari americane e NATO sono diventate in qualche modo – direttamente o indirettamente, che lo volessero o no – parte dello sforzo bellico. Se poi si pensa che molte di quelle stesse organizzazioni potevano operare solo grazie agli ingenti finanziamenti (miliardi di dollari) forniti dagli stessi belligeranti, primi fra tutti gli Stati Uniti, si capisce quanto fosse complesso in Afghanistan separare l’agenda militare da quella politica, di ricostruzione e, financo, umanitaria. Secondo dati del Dipartimento di Stato americano, fra il 2001 ed oggi gli Stati Uniti avrebbero stanziato per l’Afghanistan oltre 126 miliardi di dollari, incluso assistenza economica (cooperazione allo sviluppo ed aiuti umanitari) e assistenza militare (rafforzamento delle istituzioni militari afghane). Quest’ultima costituiva nel 2018, l’83 percento del totale degli investimenti.[15]
Chiedersi se gli interventi di sviluppo, ricostruzione ed umanitari della comunità internazionale in Afghanistan siano serviti a qualcosa richiede ulteriori precisazioni. È complicato districare e distinguere obiettivi e mandati di una molteplicità di attori internazionali in un teatro operativo così complesso come l’Afghanistan. E quando winning the hearts and minds ( conquistare i cuori e le menti) della popolazione locale diventa una elemento centrale della strategia militare di contro insurrezione, la questione si complica ancora di più. In Vietnam, gli americani avevano usato mezzi militari, economici e sociali nel tentativo di stabilire o ristabilire il controllo del governo sudvietnamita sulle aree rurali e sulle persone sotto l’influenza dei Vietcong. Qualcosa di molto simile è accaduto anche in Afghanistan attraverso le Provincial Reconstruction Teams (note come PRTs) – squadre provinciali di ricostruzione delle forze ISAF. In breve, ogni team era guidato da singole nazioni ISAF ed aveva come obiettivo quello di fornire sostegno pratico agli sforzi di ricostruzione e sviluppo, in stretto coordinamento e cooperazione con il governo afghano e la Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA), nonché di sostenere gli sforzi di assistenza umanitaria condotti da altri attori assicurando fra l’altro le aree in cui i lavori di ricostruzione venivano condotti.
Sulle PRTs si potrebbe scrivere tanto. E si dovrebbe riflettere molto. Ricordo le lunghe discussioni con i colleghi di varie agenzie delle Nazioni Unite e rappresentanti di organizzazioni non governative sulla opportunità per le istituzioni impegnate nella cooperazione ed in interventi umanitari di collaborare con i militari dell’ISAF attraverso le PRTs. Come salvaguardare l’imparzialità e la neutralità, principi cardine del lavoro umanitario? Come ridurre i rischi di associazione con gli sforzi militari agli occhi della popolazione civile? Per i civili afghani, particolarmente nelle più remote regione rurali del paese, non c’era differenza fra attori internazionali, militari e non. Ricordo che, in linea generale, prevaleva nei primi anni del conflitto una certa opposizione di principio alle PRTs. So che con il passare degli anni, e con l’aumento dei rischi a causa dell’intensificarsi delle offensive militari talebane, la collaborazione con le PRTs è diventata sempre più inevitabile per garantire la sicurezza degli operatori umanitari stessi.
Nel decennio fra il 2004 ed il 2014, l’Afghanistan si è trasformato nel paese più letale al mondo per gli operatori umanitari. Secondo alcuni dati, fra il 2001 ed il 2021, in Afghanistan sarebbero stati uccisi 459 operatori umanitari e 379 feriti, in grande maggioranza afghani.[16] La commistione di obiettivi militari, politici ed umanitari, insieme alla violenza degli scontri, all’uso di armi non convenzionali come IEDs (improvised explosive devices), al ricorso a strategie di contro insurrezione hanno inevitabilmente compromesso la sicurezza dei civili impegnati in programmi di cooperazione ed assistenza umanitaria. La cosiddetta war on terror ha cambiato radicalmente, e forse per sempre, il lavoro umanitario in zone di guerra e l’Afghanistan è un perfetto caso studio. Anche su questo occorrerebbe riflettere.[17]
E le Nazioni Unite? Quale è stato il loro ruolo in Afghanistan negli ultimi venti anni? Quale il bilancio del loro lavoro? Anche qui sono necessari parecchi distinguo. Parlare delle Nazioni Unite, in generale, è una sovra semplificazione. La Nazioni Unite non sono una entità monolitica, un corpo unico. Ci sono i suoi organi principali, il Consiglio di Sicurezza, primo fra tutti, visto il suo ruolo chiave nella gestione delle crisi internazionali; il Segretariato, il braccio esecutivo del sistema onusiano, con in suoi vari dipartimenti – fra cui il Dipartimento per gli Affari Politici e di Peacebuilding (DPPA) che gestisce le missioni politiche speciali impegnate nella prevenzione dei conflitti, nella pacificazione e nella costruzione della pace post-conflitto, come la missione di assistenza creata in Afghanistan (UNAMA – United Nations Assistance Mission in Afghanistan) con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo sette della Carta.[18] Il mandato originale di UNAMA era quello di sostenere l’attuazione degli Accordi di Bonn del Dicembre 2001.[19] Il mandato è cambiato nel tempo per riflettere le esigenze del paese ed è stato prorogato sino a Marzo 2022 con una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite adottata il 17 settembre 2021.[20]
Dal sito ufficiale di UNAMA[21] leggo che il mandato attuale della missione comprende i seguenti obiettivi (letteralmente): fornitura di “buoni uffici” (mediazione e diplomazia preventiva); sostegno all’organizzazione di future elezioni; rafforzare la capacità di protezione e promozione dei diritti umani; sostegno alla parità di genere e all’emancipazione delle donne e delle ragazze; coordinamento e agevolazione dell’assistenza umanitaria; sostegno alle priorità di sviluppo e governance dell’Afghanistan, tra cui lo Stato di diritto, la giustizia di transizione come componente essenziale del processo di pace in corso, l’esecuzione del bilancio e la lotta alla corruzione in tutto il paese. Il Consiglio di Sicurezza ha inoltre riconosciuto che il rinnovato mandato dell’UNAMA è a sostegno della piena assunzione da parte dell’Afghanistan di leadership e ownership nelle aree di sicurezza, governance e sviluppo, in linea con il “Decennio della Trasformazione” (2015-2024) e con le intese raggiunte tra il governo dell’Afghanistan (pre-talebani, per intenderci) e la comunità internazionale nelle conferenze internazionali di….. (segue una lunghissima lista di conferenze organizzate fra il 2010 ed il 2020 dalle Nazioni Unite per discutere del futuro dell’Afghanistan: Kabul, Londra, Tokyo, Bruselles, Lisbona, Chicago, Wales, Varsavia.…).
Dunque, dopo la fine della missione ISAF nel 2014, si chiudeva in Afghanistan il periodo della “transizione”, incentrato sulle attività militari e di combattimento, e si apriva quello della “trasformazione” che avrebbe dovuto concludersi nel 2024 con il consolidamento della democrazia e della sovranità piena dell’Afghanistan. Purtroppo, non è andata proprio così. E c’è da chiedersi perché, di fronte all’intensificarsi delle azioni militari dei talebani, in particolare dal 2014 in poi (cioè dalla fine delle operazioni di combattimento dell’ISAF), non ci sia stato un ripensamento profondo delle strategie militari e politiche adottate in Afghanistan a partire dal 2001, rispettivamente, da americani ed alleati, e dalle Nazioni Unite stesse. Le cose non stavano certo andando nella direzione prevista, soprattutto al di fuori di Kabul, né dal punto di vista militare né da quello, altrettanto complesso, politico e di governance. Secondo dati di Transparency International sull’indice di corruzione (che misura i livelli percepiti di corruzione del settore pubblico), l’Afghanistan era, nel 2014, al 172esimo posto su 175 paesi e territori recensiti.[22] In altre parole, livelli (percepiti) di corruzione altissimi e assoluta mancanza di fiducia della popolazione nel settore pubblico. Nel 2020, la situazione non sembra essere di molto migliorata: l’Afghanistan è al 165esimo posto su 180 paesi e territori presi in considerazione.
Oltre ad essere il primo produttore mondiale di oppio, un business da 120,000 posti di lavoro e ricavi annuali stimati fra i 100 e 400 milioni di dollari.[23] Dunque, dove si stava sbagliando?
Certo, è doveroso anche ricordare che in Afghanistan si sono registrati negli ultimi venti anni significativi progressi su vari indicatori di sviluppo umano, principalmente nei settori della salute ed dell’educazione, grazie agli interventi di una molteplicità di organizzazioni non governative, afghane ed internazionali, e al lavoro di tante agenzie delle Nazioni Unite, in supporto alle istituzioni locali.
Qualche dato: tra il 1990 e il 2017, l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 50 a 65 anni; la mortalità infantile è scesa da circa 120 a 45 su 1,000 bambini nati vivi.[24] Dal 2001 il numero di bambini afghani iscritti all’istruzione generale (gradi 1-12) è aumentato di quasi nove volte, da 0,9 milioni (quasi nessuna delle quali bambine e ragazze) a 9,2 milioni con il 39 percento di bambine e ragazze (i tassi di disparità nell’accesso alla educazione sono rimasti comunque altissimi fra le varie parti del paese, con alcune provincie con tassi di iscrizione fra le bambini del 14 percento appena). Anche il numero di scuole è aumentato da 3.400 a 16.400.[25]
Eppure l’Afghanistan rimane ancora oggi uno dei paesi più poveri al mondo. Più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Un quarto della sua forza lavoro è disoccupata. Circa un terzo della popolazione è regolarmente in una situazione di insicurezza alimentare – un problema esacerbato dalla siccità del 2018 che ha colpito più di due terzi della popolazione e dalla pandemia di covid-19. Gli standards educativi rimangono scarsi in parte a causa della mancanza di investimenti in infrastrutture, per esempio, circa il 41 percento delle scuole non ha edifici adeguati, e molti mancano di muri di cinta, acqua e servizi igienici. Solo circa il 36 per cento della popolazione utilizza fonti sicure di acqua e solo in 41 percento ha accesso ad adeguati servizi socio-sanitari. Quasi due terzi del bilancio statale sono finanziati attraverso il sostegno di donatori internazionali.[26]
Anche prima degli eventi del 15 Agosto scorso, la situazione umanitaria in Afghanistan era una delle peggiori al mondo. Secondo le Nazioni Unite, quasi la metà della popolazione – circa 18,4 milioni di persone – è considerata bisognosa di assistenza umanitaria, fra questi 10 milioni di bambini e bambine. Una persona su tre è in condizioni di grave insicurezza alimentare a causa della siccità e più della metà dei bambini sotto i 5 anni sono sull’orlo della malnutrizione acuta. Dall’inizio dell’anno, oltre mezzo milioni di persone, in grande maggioranza bambini, hanno abbandonato le loro casa e vivono in campi di fortuna. Per il periodo Settembre-Dicembre, le Nazioni Unite hanno emesso un flash appeal di 600 milioni di dollari per far fronte ai bisogni più urgenti della popolazione afghana, specialmente in vista dell’inverno.[27]
Gli afghani, in particolare i gruppi più vulnerabili, inclusi bambini, donne, anziani, minoranze etniche, hanno bisogno di assistenza oggi più che mai. Non c’è mai stato un momento più urgente per schiararsi a sostegno del popolo dell’Afghanistan. “Senza aiuti umanitari”, dichiara la Direttrice Esecutiva dell’UNICEF, “i servizi essenziali si fermeranno bruscamente e il paese scivolerà ulteriormente nel caos. Il mondo non può permettere che ciò accada di nuovo.”[28] I talebani si sarebbero impegnati a rispettare il lavoro delle agenzie umanitarie e a non creare ostacoli agli operatori impegnati sul campo, in stragrande maggiorana afghani anche loro. Ma le notizie riportate dai media in queste ultime settimane non promettono nulla di buono riguardo la presunta “moderazione” di questa nuova classe dirigente talebana.
Per quanto riguarda i diritti e le libertà civili e politiche, la situazione è poi più che preoccupante: migliaia di persone – dai difensori dei diritti umani ai giornalisti, accademici, professionisti, membri della società civile – molti giovani, molte donne – sono oggi a rischio di vita. Cosi come ex membri dell’esercito e delle forze dell’ordine, oltre a migliaia di cosiddetti “collaboratori” degli occidentali: traduttori, autisti, personale locale delle ambasciate etc. Molti passati in clandestinità. Per non parlare della esclusione delle ragazze dall’istruzione secondaria ed universitaria; dell’ordine per molte donne di non tornare al lavoro (a meno che ritenuto indispensabile dal nuovo governo); del ripristino del temuto, conosciuto e già tristemente sperimentato ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (un ministero che, per la cronaca, esiste anche in Arabia Saudita, fedele alleato dell’occidente).
Il capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha recentemente lanciato appelli ai nuovi leader talebani dell’Afghanistan e ha avvertito che il trattamento di donne e ragazze è una “linea rossa fondamentale” che non dovrebbe essere attraversata. Giustissimo. Ma di “red lines” ne abbiamo già sentito parlare durante la guerra in Siria. E non sembra che siano servite a molto…
Ci sarebbe anche da capire più a fondo chi è questa nuova incarnazione di talebani. A parte chi sta ai vertici – fra i quali, come è noto, ci sono anche nomi già ben tristemente conosciuti, come Sirajuddin Haqqani, a capo del Ministero degli Interni del nuovo governo talebano e con una taglia per terrorismo di cinque milioni di dollari sulla sua testa– chi sono i talebani del 2021? Chi i loro sostenitori? Quello che è certo è che non vogliono rimanere isolati e che cercano pertanto il riconoscimento internazionale, come dimostrato dalla loro recente richiesta di intervenire all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
È ancora troppo presto per avanzare ipotesi su cosa il futuro riservi per l’Afghanistan ed il suo popolo. Credo che la comunità interazionale, in particolare gli Stati Uniti ed i sui alleati, abbiano oggi il dovere non solo di non abbandonare questo paese al suo destino assicurando continuità negli aiuti umanitari ma, anche, il dovere di impedire, attraverso il ricorso a tutti i mezzi di pressione diplomatica possibili, che questo nuovo governo installatosi con la forza a Kabul non faccia riprecipitare il paese – e, soprattutto, la metà femminile della sua popolazione – nuovamente nel baratro della storia.
Una nuova generazione di afghani ed afghane è nata e si è formata in questi ultimi venti anni (anche grazie al sostegno della comunità internazionale) credendo nella possibilità di costruire un paese diverso. Stati Uniti ed alleati hanno oggi il dovere di salvaguardare quel sogno, non foss’altro che per compensare la loro penosa débâcle afghana ed i tanti, imperdonabili, errori commessi in questi lunghi venti anni di una guerra inutile e costosa, costruita su una montagna di bugie.
Per concludere, consiglio vivamente la lettura del libro “Afghanistan Papers. A Secret History of the War” di Craig Whitlock, giornalista investigativo del Washington Post. Un resoconto agghiacciante della guerra più lunga d’America che rivela ciò che i generali ed i funzionari governativi sapevano davvero del costo e della inutilità di quella missione. In parte un atto d’accusa contro l’arroganza americana, in parte un avvertimento a futuri leaders. Americani e non.
Scriveva Gino Strada: “Io non credo nella guerra come strumento. C’è un dato inoppugnabile: che la guerra è uno strumento ma non funziona, semplicemente non funziona.“ Condivido pienamente.
[1] Isabella Castrogiovanni “Digging up the past or burying it – accounting for human rights atrocities in times of transition”, in Afghanistan: How Much of the Past into the Future, Picco Giandomenico, Palmisano Antonio Luigi (eds), Futuribili, Papers 8, 2007
[2] Per chi fosse interessato a sostenere il progetto, si veda Montessori in Afghanistan | Medical, Educational and Peace Organization (mepoonline.org)
[3] Human and Budgetary Costs of Afghan War, 2001-2021.pdf (brown.edu)
[4] Si veda Human Development Report 2001 | Human Development Reports (undp.org)
[5] ibidem
[6] Si legga al riguardo « Comment les talibans ont vaincu», di Adam Baczko e Gilles Dorronsoro, in Le Monde diplomatique, no. 810, Settembre 2021
[8] Si veda NATO – ISAF’s mission in Afghanistan (2001-2014) (Archived)
[9] Si veda NATO – Resolute Support Mission in Afghanistan (2015-2021) e S/RES/2210 (2015)
[10]Si veda “The Afghan lessons. What the US can learn from 20 years of war”, di James Stavridis pubblicato nel Time del 20 Settembre 2021. Stavridis era assistente militare del Segretario della Difesa, Donald Rumsveld, e successivamente Comandante Supremo Alleato della NATO, con responsabilità strategiche per la guerra in Afghanistan.
[11] Si veda REPORTS ON THE PROTECTION OF CIVILIANS IN ARMED CONFLICT | UNAMA (unmissions.org)
[12]Si veda Mission Accomplished in Afghanistan? – The Atlantic
[14]Sulle responsabilità’ degli Stati Uniti e degli alleati impegnati militarmente in Afghanistan riguardo pagamento di ricompensi alle vittime civili del conflitto si veda “Afghanistan war: UK’s lowest payout for civilian death was £104.17 – BBC News”, 24 Settembre 2021[15] Si veda U.S. Foreign Assistance by Country
[16] Si veda l’ Aid Worker Security Database
[17] A chi avesse interesse ad approfondire questo aspetto, segnalo un recente podcast di The New Humanitarian dal titolo “NGOs and counter-insurgency: the case of Afghanistan”. Il podacast fa parte di una serie su Re-thinking Humanitarianism and exploring the future of aid. The New Humanitarian | Podcast
[21] UNAMA | United Nations Assistance Mission in Afghanistan
[22] Corruption Perception Index
[23] Si veda New World Drug Report: Opium production in Afghanistan remained the same in 2019 – Afghanistan Analysts Network – English (afghanistan-analysts.org)
[24] Afghanistan Human Development Report (2020)
[25] Global Partnership for Education
[26] Afghanistan Human Development Report (2020)
[27] Humanitarian flash appeal Afghanistan 2021
[28] Statement by UNICEF Executive Director Henrietta Fore on the Humanitarian Situation in Afghanistan – Afghanistan | ReliefWeb