– C’è puzza di pecora, puzza di pecora!
La professoressa Uccelletti Galantuomo non capiva. Sgherri indicò uno dei ragazzini, magro, all’ultimo banco.
E tutti si misero a ridere.
– Fa puzza, non voglio più sedermi con lui! Puzza di pecore. Perché prima di venire a scuola va a pascolare le pecore!
Tutti ridevano, d’un riso isterico.
– È lui, puzza! Ratti puzza di pecora!
La Uccelletti disse: – Basta! Basta con queste sciocchezze! Torna a sederti! E voi finitela di ridere! Adesso interroghiamo!
Sgherri se ne tornò a sedere con la coda fra le gambe. Ma non aveva raggiunto il suo posto che dal banco davanti si alzò Ginammi e disse: – È vero, fa’ puzza, mi voglio spostare anch’io.
La Uccelletti si alzò conciliante dalla cattedra e si mise a esaminare di persona. Dopo varie annusate, sentenziò: – Nessuna puzza. Deve essere un’impressione vostra.
Ma Ginammi insisteva e insisteva. Fosse stato un altro la Uccelletti gli avrebbe piazzato un ceffone sulla faccia e avrebbe ripreso a parlare di Manzoni con la massima tranquillità.
Ma Ginammi era il figlio unico del cavalier Ginammi, il pezzo più grosso dei pezzi grossi di Castrofelice, e tutti i castrofelicesi gli dovevano in qualche modo qualcosa. La Uccelletti si ritenne onoratissima quando la moglie di Ginammi la invitò a prendere il tè a casa sua. Fu il 13 aprile di due anni fa (la Uccelletti si era segnata la data e in cuor suo annualmente festeggiava l’anniversario). Da allora ogni pomeriggio alle cinque la professoressa Uccelletti prendeva il tè con la signora Ginammi e le altre signore in vista del paese.
Al pensiero del tè e del privilegio che quel figlio di pecoraj le stava mettendo a repentaglio, si mise ad annusare con più foga e dedusse che – ecco, sì – qualcosa si sentiva. Chiese ad Ennio Ratti se quel mattino si fosse lavato a dovere. Tra le risa generali, Ennio riuscì appena a sibilare un – Sì, certo.
Alla Uccelletti apparve una risposta poco convincente. Autorizzò Ginammi a spostare il suo banco, che divideva con Giovanni Rodrigo. Anche a Sgherri fu concesso l’onore di abbandonare il suo banco, lasciare Ennio da solo, farsi prendere dal bidello un mezzo banco, posizionarlo tra la lavagna e la prima fila e sedersi, soddisfatto come un papa e ghignando all’indietro. Il volto di Ennio rimase rosso per tutte le quattro ore che lo separavano dal termine delle lezioni.
Appena a casa Ennio raccontò l’accaduto. Per il padre ogni parola era una coltellata al cuore. Non disse nulla. Il giorno dopo accompagnò il figlio a scuola e andò a parlare col preside.
Il preside Pallone credeva di vivere al tempo dei Borboni, portava un bel paio di baffoni e ogni mattina stava più di venti minuti a curarseli. Fin da bambino sognava di fare il generale dei Carabinieri, e fu per colpa del destino avverso che si ritrovò preside alla Conte Cavour di Castrofelice.
– Signor preside, io sono pecorajo. Onesto. Onesto e pecorajo – esordì il signor Ratti.
– Ho due figli, Ennio e Mattia. Siccome non voglio che nessuno finisca come me, a fare il pecorajo, li ho mandati a scuola a tutti e due. Mattia a scuola non ci va più, perché voi non l’avete fatto andare.
(Il preside provò a protestare)
– No, non dico voi per dire qualcuno in particolare, dico voi per dire tutti. Perché un poco di colpa tutti ce l’hanno, e pure io mi metto in mezzo. Mattia tutti i giorni mi tornava a casa piangendo, perché i compagni lo scherzavano che aveva il papà che pascolava le pecore. E io mi chiedo, signor preside, ma questo paese fino a ieri che cosa era? E non erano tutti pecorari? E che ci posso fare io se sono rimasto l’ultimo? Chi ha trovato il posto di bidello, chi d’impiegato al Comune. Qualcuno è andato via a Nuova York e qualcuno ha fatto fortuna e non si sa come. E io, onesto pecorajo, di che mi devo vergognare?
– Di niente, di niente – farfugliava il preside Pallone.
– Mattia, le dicevo, tutti i giorni mi tornava a casa con le lacrime agli occhi. Puzzi, puzzi di pecora, gli dicevano. Io sono venuto qui, ho parlato col preside che c’era prima e con la professoressa e tutti mi hanno detto: – Non si preoccupi, sono ragazzi che giocano. E pure io gli ho detto: figlio mio, ragazzate sono. Tu dimostragli il tuo valore. Ma lui mi ha detto: – No, papà, non ci voglio andare più a scuola, portami con te sulle colline. E siccome non è che aveva tanta voglia di studiare, e siccome mi piangeva il cuore a vederlo tutti i santi giorni a piangere, e siccome mia moglie aveva la stessa opinione: questo ho fatto, me lo sono portato in campagna. Sono arrivati a casa mia, prima i carabinieri e poi l’assistente sociale. A tutti ci ho spiegato la situazione e ho fatto la domanda: – E se fosse il figliolo vostro?
L’assistente sociale è venuta dal preside, quello che c’era prima, e ha parlato con lui. Il preside è sceso in aula, ha parlato davanti ai ragazzi e davanti a Mattia. Ha detto che il lavoro nobilita l’uomo, che il mestiere del pastore è il più antico e il più nobile, che nell’antica Grecia il pastore era rispettato, era poeta, ha parlato di un paradiso abitato tutto di pastori – l’Arcadia, mi ha riferito Mattia – e infine ha recitato la poesia del pastore che con lo zufolo suona mentre le pecore pascolano tranquille.
Io ci volesse dire due cose al preside che c’era prima: uno, che quando uno pascola le pecore si sporca tutto di fango e qualche volta di merda; e dalla bocca gli escono le bestemmie e non le poesie. E se si mette a zufolare, le pecore se ne scappano e le perde, e invece le deve inseguire col bastone e magari le deve pure picchiare, altro che il paradiso!
– Ma questo il signor preside non lo poteva sapere, e va bene!
– E però un’altra cosa la doveva, la doveva sapere, perché davanti agli occhi ce l’aveva: mentre lui parlava i ragazzi ridevano o si trattenevano dalle risate, e avevano il naso tappato, per non sentire la puzza, la puzza dello scherzo, signor preside!
Mattia è arrivato a casa, si è fatto l’ultimo pianto e mi ha detto: – Domani andiamo sulle colline. Mia moglie sorrideva ed era contenta, ché finalmente finiva il suo strazio di madre. È venuto il maresciallo, una sola volta: gli ho ripetuto la storia. Mi ha detto: – Come carabiniere le devo dare torto, ma come padre ha tutta la mia comprensione.
E non si è fatto più vedere. L’assistente sociale, poi, non si è vista da quell’unica volta che era venuta…
– Lei ha perfettamente ragione – disse il preside che si era scocciato di sentire quel pecorajo coi suoi guai e poi c’aveva pure appuntamento col provveditore ed era in ritardo.
– Una ultima cosa, una parola soltanto signor preside. Mattia non ne aveva voglia di studiare, ma Ennio sì, signor preside. Se mi togliete pure lui dalla scuola, siete colpevoli tutti quanti!
– Faremo il possibile. Ed ora mi scusi ma devo andare – concluse il preside Pallone. E mentre si incamminava rifletteva compiaciuto sul valore della cultura popolare e sulla figura arcadica del pastore.