Parliamo del mare

  «A volte leggo in treno. A volte leggo il treno. Ma spesso è il treno stesso che racconta le sue storie». E parla di illusioni, sangue, superstizione e grandezza. I conti col Sud non finiscono mai. E il confronto è sempre doloroso
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Ci sono giorni in cui ho voglia di leggere in treno. Giorni in cui voglio leggere il treno, cioè dedurre storie da pochi indizi avari. Altre volte, è il treno stesso a parlare, a leggere le sue storie a voce alta. Sono le volte in cui non puoi fare a meno di ascoltarlo.

***

Volevo terminare l’ultimo racconto de Gli zii di Sicilia, una carrellata spietata sulla guerra di Spagna, contadini scappati dalla fame e mandati dal fascismo a morire per una causa di cui non capivano nulla, ad uccidere altri poveri come loro; e scritto tra l’altro da uno che è associato solo e sempre a storie siciliane.

Provo col primo scompartimento, su un treno regionale che si infila nel caldo di agosto. Ma iniziano subito a parlare. Un avvocato vestito di nero, il suo cliente. Sono amici, o almeno questa è la parola che usano per qualificare il loro rapporto.

– Siamo amici, dice l’avvocato, corvino.

– E che? Non siamo amici?, risponde il cliente, maniche di camicia, pelle cotta dal sole.

L’oggetto del contendere, nell’anno 2007, è prima di tutto il confine di un podere, in seconda battuta il tronco di un pero, infine la dignità e l’orgoglio di un uomo. La causa iniziò nel 1980. Apprendo che il pero è abbondantemente rinsecchito vedendosi sfilare nel corso degli anni il primo grado, le perizie giurate, le mappe del catasto, i giudizi in Assise e ora la costosa Cassazione.

– Il tuo avversario, il convenuto Paravati, è un notorio imbroglione. Geometra, appartiene al vero ceto che domina la società. Geometra, ha con facilità imbrogliato le carte, spostando di un metro l’asse del confine.

– Ecco, dice l’attore. Ecco perché ha vinto in appello. Un imbroglio, chiaro come il sole. Il ceto che domina.

Trionfa l’avvocato, invece del pero lui vede una nuova parcella, le spese di trasferta a Roma, il patrocinio in Cassazione che riluccica di assegni.

Nel 2007, penso, c’è ancora chi brucia i propri soldi per questioni di puntiglio, per non ammettere di avere sbagliato, o per concedere con nobiltà all’avversario: – E va bene, hai ragione, basta con questa contesa insensata che ci toglie soldi, e ne abbiamo pochi; e le consegna alle ville alle Mercedes alle mogli ingioiellate di questi parassiti.

***

Disgustato, cambio scompartimento. Due ragazze, silenziose, quasi lugubri. Perfetto, apro il libro. La battaglia di Valencia.

Ricominciano, avevano solo interrotto – E sant’Onofrio, dove lo mettiamo?

– Lo so io, dice lei, dove metterlo. Inefficace. Una mia amica mi ha portato San Ferdinando.

– Come? – dice l’amica.

-Una immaginetta miracolosa, con dietro la vera preghiera efficace. Ha passato amministrativo e privato, pensa, le più difficili.

– Davvero?

– Con sant’Onofrio sono stata bocciata in procedura, dove passano tutti.

Schiacciata da tanta evidenza, l’amica taceva.

E l’altra iniziava a leggere la preghiera: – San Ferdinando, io ho studiato, ho fatto il mio dovere, ma aiutami a superare questa prova, con la tua intercessione potrò superarla.

Sbirciai nell’angolo inferiore dell’immaginetta– con approvazione ecclesiastica.

***

Nuovo scompartimento. Un prete, due anziani. Perfetto, erano assorti nei loro pensieri. Cinque minuti di illusione, neanche dieci pagine di lettura. L’ingresso a Càdiz.

Inizia uno, si chiama Gianni. – Don Fulgenzio, quello lì deve andare via.

Don Fulgenzio, guance rosse, pancia prominente, è uno di quei preti che ispira dolcezza.

E, con voce dolce, inizia a parlare di un prete coinvolto in uno scandalo, una storia di ruberie in un centro di assistenza per anziani, trenta persone a spasso e senza colpe, ma il giudizio degli uomini non può sostituire quello di Dio; un altro prete accusato di ogni sorta di reati sessuali, dalla pedofilia allo stupro di monache, e il meno che facesse era guardare filmati pornografici prima della messa, una eucaristia post moderna; ma il moralismo degli uomini, così come le maldicenze e i pregiudizi non potevano annientare un uomo di Dio. Poi fu la volta di don Bruno, che invece aveva il vizio, la domenica sera, di invitare gli amici e i maggiorenti della parrocchia, le sedie messe in circolo, e lì spiattellava tutto quanto gli dicevano in confessione, privilegiando adulteri fellatio omosessualità e aspetti pruriginosi in genere della comunità parrocchiale, l’ecclesia.

Per don Fulgenzio il prete doveva restare ben piantato dov’era, non era successo niente di grave e finalmente non c’erano reati di cui doveva occuparsi lo Stato.

– Non è successo niente? – dice uno, facendosi rosso in volto ed alzando la voce che don Fulgenzio aveva tenuto bassissima. – Non è successo niente per lei!

Era successo che da alcune settimane una cugina dell’interlocutore era la protagonista delle serate domenicali, e in particolare i dettagli della sua attività adulterina che la signora amava riferire e che il prete amava arricchire.

All’ascolto c’era appunto il cugino, e presto la storia era arrivata al marito, – Per fortuna che siamo nel terzo millennio, altrimenti invece che per il divorzio avremmo ringraziato don Bruno per un paio di schioppettate.

Don Fulgenzio non era contento, aveva una faccia densa di angosce, – questa diocesi è Sodoma, ma dove sono capitato – aveva l’aria di pensare.

– Il vescovo mi ha mandato per raccogliere il gregge attorno ai pastori – dice.

E anche per me era abbastanza.

***

Nello scompartimento successivo stavano già parlando. Ma la battaglia di Guadalajara era terminata, e questa avevo voglia di ascoltare.

Due poliziotti, di cui uno al telefono. Accento napoletano, alto, corpulento e quasi grasso, per essere un poliziotto. L’altro piccolo e occhiali, sembrava uno di quelli che a carnevale non sanno che mettersi e si vestono da poliziotto.

– Rocco, Roma Otranto Catania Catania Otranto. Papaglionti, sì Papaglionti, non vorrai che ti cerco le città per tutto questo fottuto cognome, – dice il napoletano al collega al telefono. Un latitante era segnalato su quel treno. Erano in due. Stavano perlustrando i vagoni, ai sospetti chiedevano la carta di identità.

– Cinque minuti, – dice quello con gli occhiali. – E fammi cambiare di posto, non mi piace viaggiare controsenso.

– Tu hai troppi problemi per fare il poliziotto. E qui una giornata tranquilla non c’è mai. E quando ci capita una pattuglia sul regionale, che dovrebbe essere il massimo della tranquillità, ci becchiamo un latitante di merda.

– Io mi faccio trasferire alle scorte.

– Il segreto è fare le notti. Dobbiamo cercare di fare le notti. Io stavo a Gragnano, l’inferno sulla terra. A dieci anni ti ridono in faccia, solo perché hai la divisa. Scippi rapine omicidi. Nei giorni tranquilli. Chiedo il trasferimento. Rosarno! Non sapevo nemmeno dove si trovava, posto tranquillo, penso. Puttana di una…

– Che ci vuoi fare, chi vuole stare tranquillo deve lavorare al Comune. Andiamo, speriamo bene. Stasera voglio rivedere mia figlia.

– Speriamo che non sia armato.

Vanno via, ma non ho voglia di leggere. Salgono cinque persone e lo scompartimento si riempie. Da un lato, turista milanese con figlia e signora. Dall’altro, accanto a me, coppia di abitanti del luogo.

***

Il turista si chiama Mario, apre un quotidiano. Cronaca locale, e ne legge alla famiglia.

– Senti questa, ieri sera sul lungomare di San Giovanni Marina. Alle 11.

– A che ora siamo andati via? – chiede la moglie.

– Alle 10 – risponde la figlia improvvisamente pallida.

– Ecco sentite: una BMW arriva alla fine del lungomare, accosta a una Mercedes, sparano con un mitra. Una Smart si trova in mezzo. La gente che passeggia, scappa e urla. Non muore nessuno, tre feriti gravi all’ospedale più vicino. Sirene e fughe…

– Ognuna per un motivo diverso – annotò la figlia che si chiamava Laura.

Noto accanto a me il locale che inizia a sbuffare, e ostentatamente guarda il mare, un tratto di paesaggio molto bello.

Il signor Mario non lo vede, è immerso nella lettura.

– Qui racconta di un omicidio del mese passato, be’, si vede che è estate, un altro morto sul lungomare. Un pensionato su una panchina, ucciso con un fucile di precisione da almeno un chilometro. Un proiettile in mezzo agli occhi, non si è mosso nemmeno. Un rivolo di sangue che scendeva. Arriva un passante, si sente male?, gli fa. Solo al pronto soccorso capiscono come è morto, un cecchino come nemmeno a Sarajevo sotto assedio.

– Un film dell’orrore – dice Laura.

– Invece questa è al contrario, un operaio di San Matteo Superiore, questo morto d’infarto, cade dal cantiere, dall’impalcatura, e per due giorni i medici legali a cercare il proiettile. Pare impossibile non morire ammazzati, in certi paesi.

E questa? – riprende Mario. Sei italiani uccisi in Germania.

– Cosa? – Laura è stupefatta – E perché?

– Sei, originari di San Luca. È la faida. Cominciata nel 1991, mortaretti e uova marce, uno scherzo di carnevale non gradito. E vendicato con una fucilata a canne mozze. Da allora un morto da un lato, un morto dall’altra. Poi cinque anni circa di tregua. Fino al Natale dell’anno scorso, quando una delle due famiglie riannoda il filo interrotto, così dice il giornale. Ammazzano una donna. I maschi della famiglia rivale, tutti i maschi, lasciano il paese la notte di Capodanno.

– E sono quelli che hanno trovato in Germania?

– Probabilmente, a Duisburg. Dove ovviamente sono tutti sconvolti, 70 bossoli esplosi, una carneficina. È intervenuto il ministro dell’Interno italiano, a spiegare ai tedeschi cosa significa la parola faida.

Il mio vicino a questo punto esplode, con accento aspirato.

– E basta con queste storie, le sappiamo queste cose, ma perché non si gode il mare? Guardi che mare.

Sei paia di occhi si spostano verso il finestrino. La costa viola, pareti a strapiombo sul mare cristallino, il verde smeraldo della vegetazione.

La moglie di Rocco fa sì con la testa, ritmicamente approva.

– È stupendo, dice Mario.

– Cosa c’entra? – osserva la moglie di Mario. – Noi ieri sera ci potevamo beccare un proiettile sul lungomare.

– Permette? – dice l’uomo – Rocco Zungri. Commerciante di carni. Rappresentante, per essere esatti. Da trent’anni faccio queste strade, sa quante volte ho rischiato la vita per un sorpasso di un ubriaco? Siete di Milano, mi sembra dall’accento. A Milano non ne fanno rapine? E se uno si trova in mezzo?

– Non è la stessa cosa, – dice Laura.

– È la stessa cosa, – si esalta Rocco. – Solo che quando una cosa succede qui ne parla tutta l’Europa, tutti ne approfittano per gettare fango, ma se succede al Nord…

Eh, – fa la moglie con spirito di contrappunto, con un gesto della mano che rotea. Se succede al Nord.

Dall’altra parte silenzio, che Rocco Zungri interpreta come personale trionfo.

– Parliamo di questo mare, di queste bellezze – riattacca irrefrenabile. – Della magnagrecia, della cultura. E del bergamotto? Ecco, nessuno parla del bergamotto!

Alla parola bergamotto la moglie si agita, gli occhi si fanno di fuoco. È vero. Nessuno, nessuno che parla del bergamotto.

Un silenzio imbarazzato cade nello scompartimento.

– Mi presento anche io, dice la signora milanese, – mi chiamo Ines, qualche volta ho sentito di rapine, a Milano ho subito uno scippo. Ma mi sembra che questa sia un’altra dimensione, questa è la cronaca di Medellin, è il bollettino di una guerra civile. Fate qualcosa subito.

– Le bellezze, il mare, tutto quello che vuole, dice Laura. – Ma, secondo lei, l’anno prossimo, noi torneremo qui a passare le vacanze?

– Certo che no, – dice Rocco Zungri. – Grazie a questi giornali, grazie alla propaganda, sicuramente pagata, sicuramente dalle altre Pro Loco, della Sicilia, della Romagna…

– Sicuramente, annotò puntigliosa la moglie. Le pro loco…

– Ma questo è un giornale di qui, è un giornale locale, dice Ines.

– I peggiori nemici sono quelli che stanno qui, ce ne sono, che non stanno zitti, che… Parlassero del mare, delle cose positive, e ce ne sono, sa?

– Le cose positive, era l’eco della moglie.

– Sicuramente, dice Laura. – Ma…

A questo punto entrano i due poliziotti. – Scusate, stiamo controllando i documenti di tutti i viaggiatori.

– È successo qualcosa?, chiede la signora Ines.

– Controlli di routine, dice il poliziotto con gli occhiali.

– Ecco il risultato della propaganda, ci trattano come criminali – fa Rocco.

– La propag… sta per dire la moglie, ma il poliziotto napoletano è lì per esplodere – noi non trattiamo nessuno come cri… –  la tensione è tanta, il collega lo prende per il braccio – lascia stare.

***

Stavano controllando il mio documento, quando passò come un’ombra, nel corridoio. Fu un attimo. Si guardarono negli occhi, vidi i suoi sgranati di rabbia e di paura.

I poliziotti capirono, presero le pistole. Lui prese la sua.

Il rimbombo degli spari, poi le urla. Infine soltanto capire chi era vivo e chi era morto. Lo vedemmo a terra, il latitante Paviglionti e il suo sangue che si spargeva per tutto il vagone.

Poi guardammo dalla nostra parte. Seduto, gli occhi gonfi di stupore, una rosa rossa di sangue sulla camicia bianca, la moglie urlante, disperata: Rocco Zungri si era preso in petto il proiettile del latitante e aveva concluso la sua esistenza.

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