”La pandemia di Rosarno”. I ghetti nascono dai documenti negati

  Il nuovo rapporto di Medu sui braccianti di Rosarno spiega quali sono i nodi del problema. “Nove su dieci sono regolarmente soggiornanti e di questi solo uno su dieci è in possesso di una regolare busta paga”.
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“La pandemia di Rosarno – Emergenza sanitaria e sfruttamento endemico” è l’ultimo rapporto pubblicato dall’organizzazione umanitaria “Medici per i diritti umani”. Si tratta di una fotografia della situazione dei braccianti migranti della Piana di Gioia Tauro. Prevedibilmente, i lavoratori vivono ancora in uno stato di “emarginazione sociale, stigmatizzazione, promiscuità abitativa, carenza di elettricità e servizi igienici, mancanza di acqua potabile e riscaldamento”. In poche parole, “condizioni lavorative disumane”.

La pandemia ha peggiorato le cose. Tra le situazioni paradossali che si sono create, il rapporto segnala i numerosi fermi durante il lockdown: “Ai braccianti fermati le forze dell’ordine hanno richiesto in più casi di esibire, oltre all’autocertificazione, anche il contratto di lavoro”. Peccato che, secondo le statistiche raccolte da Medu, “solo il 10% riceveva una regolare busta paga”.

Non c’è soltanto il lavoro nero. Anche quello grigio è molto diffuso. Si tratta di giornate lavorate che non corrispondono a quelle ufficialmente dichiarate. Questo meccanismo impedisce ai lavoratori di accedere alla disoccupazione agricola. Il lavoro di bracciante è di per sé intermittente. Per questo nei decenni passati è nata una forma di welfare che attutisce i periodi di disoccupazione con il sostegno pubblico. Ma, se i padroni dichiarano due o tre giornate in un mese, è impossibile ottenere la disoccupazione.

Numeri

I numeri presenti nel rapporto sono molto significativi. Fanno comprendere quanto il problema sia circoscritto. Se ci fosse una reale volontà politica, sarebbe risolto da tempo.

Per cominciare, i braccianti provengono da Mali (49%), Senegal (12%), Ghana (9%) e Gambia (9%). L’80% viene da questi paesi. 

Per l’88% sono arrivati da poco tempo. Solo il 12%, infatti, risiede in Italia da più di dieci anni. Questo significa che gli africani a Rosarno ruotano, solo in pochi ritornano o rimangono in quella zona, in pochissimi svolgono il lavoro della raccolta come un mestiere abituale.

La condizione giuridica ci fornisce altre importanti informazioni.  Il 90% era regolarmente soggiornante. Quindi la distinzione politica e mediatica tra “clandestini” e regolari è senza senso. Più spesso c’è una situazione liquida. Si lotta per evitare l’irregolarità, nonostante le leggi facciano di tutto per trascinare i migranti in questa condizione.

Due terzi, infatti, sono richiedenti asilo. Un quarto è stato danneggiato dall’abolizione della protezione umanitaria. Il ripristino dei permessi speciali migliora la situazione, ma non cambia lo status di schiavitù di fatto. È una sorta di razzismo di Stato. Chi proviene da determinati paesi (Africa subshariana, Medio Oriente, parte dell’Asia) non ottiene quasi mai un visto. È costretto prima a entrare illegalmente in Europa, quindi a dichiararsi rifugiato per non scivolare in una irregolarità senza ritorno.

“Nove su dieci sono regolarmente soggiornanti e di questi solo uno su dieci è in possesso di una regolare busta paga”

In questo modo si crea un circolo vizioso: i neri sono discriminati, quindi si rafforza la convinzione che siano loro ad avere problemi “atavici” di povertà e a creare degrado. Infine, sono stigmatizzati e colpevolizzati: “vivono in baraccopoli e portano insicurezza”. Se questa retorica è insopportabile ovunque, è assolutamente grottesca nelle zone d’Italia dominate dalla mafia. Chi tace di fronte allo strapotere delle organizzazioni mafiose, non perde occasione per denunciare “il degrado portato dai clandestini”. Il gruppo consiliare della Lega a Rosarno è solo l’ultimo esempio della serie, ma è  preceduto da anni di comunicati contro i migranti e silenzi deferenti nei confronti dei boss. Tra i tanti esempi spicca questo: “Un intero quartiere è stato occupato dai migranti ed è diventata una zona of limits per gli italiani e le stesse Forze dell’Ordine: prostituzione, spaccio, risse”.

Sanatorie e filiere

Solo il 7% è in possesso di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Abbiamo quindi lavoratori trattati come se fossero altro. Ecco l’ennesimo paradosso. A cui la politica ha cercato di porre un limite con l’ultima “sanatoria”. Un provvedimento strumentale, mosso fondamentalmente dalla volontà di procurare braccia a basso costo al sistema produttivo agricolo paralizzato dal lockdown.

“La limitazione della possibilità di regolarizzazione solo ad alcuni settori, il ruolo centrale del datore di lavoro nella procedura di emersione del lavoro nero, e, con particolare riferimento al contesto specifico della Piana, la situazione giuridica e contributiva spesso non in regola delle aziende agricole e le piccole dimensioni delle stesse – laddove il decreto prevede un reddito annuo minimo di 30.000 euro per accedere alla procedura – ne fanno prevedere la scarsa efficacia”, afferma il rapporto. 

“Solo un lavoratore su 10 ha un permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Abbiamo quindi lavoratori che non sono riconosciuti come tali”

Ogni volta che si parla di ghetti e caporalato, la sensazione è quella di impotenza. È un problema che si presenta sempre uguale da trent’anni. Dall’omicidio di Jerry Masslo in poi le dinamiche rimangono sempre uguali: negazione dei documenti, scivolamento verso i lavori agricoli di raccolta e verso contesti di violenza e degrado, colpevolizzazione delle vittime.

Nonostante la retorica degli “invisibili“, abbiamo filmato, intervistato e fotografato all’infinito gli abitanti dei ghetti. Spesso contro la loro volontà. In tutti i modi chiedono di non essere ripresi in condizioni di degrado. Perché non vogliono far arrivare alle famiglie le immagini della loro situazione.

Rimangono invece nell’ombra i protagonisti della filiera, a partire dai commercianti locali che interloquiscono con grandi industrie di trasformazione e con i supermercati. 

Le difficoltà della piccola impresa agricola sono ormai strutturali, ma la risposta non può essere lo sfruttamento dei più deboli. Al contrario, occorre “favorire la creazione di cooperative che uniscano i piccoli imprenditori agricoli, aumentandone così il potere contrattuale e le tutele”. 

In ombra

In teoria gli strumenti esistono già. Sarebbero le OP, Organizzazioni dei Produttori. Tuttavia, da tempo sono diventate un’altra cosa. Una maschera per i maggiori imprenditori della zona oppure per la ‘ndrangheta, utile per accaparrarsi fondi europei.

La retorica contro la GDO parte da un presupposto tutto da dimostrare. Aumentando i compensi ai fornitori, il denaro scenderà per “sgocciolamento” (come dicono i liberisti) fino alle tasche dei braccianti del Mali e del Senegal? Più che una certezza, è una speranza. Nel frattempo il costo del succo d’arancia è determinato dalle immense quantità di prodotto congelato che partono dal Brasile e arrivano ai porti olandesi. La concorrenza del prodotto della Piana è minima. Ma è pur sempre un settore perfettamente inserito nell’economia globale. E i braccianti a costo zero sono l’unica arma per fornire prodotto “competitivo”.

Proprio per questo andrebbe cambiato il meccanismo, piuttosto che adattare le persone a una filiera diabolica. Proprio per questo è sbagliato chiedere incentivi alle “aziende etiche”. Perché il rispetto dei diritti dei lavoratori deve essere un obbligo, non un premio.

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