Introduzione
Il movimento contro il Ponte sullo Stretto ha rappresentato sicuramente un momento di riappropriazione di una coscienza territoriale condivisa. Tuttavia, emerge l’esigenza di fare dei passi avanti rispetto alla fase di contestazione. Di sicuro è più semplice reagire a decisioni ritenute ingiuste che essere “proattivi”, dare vita cioè a mobilitazioni che propongano soluzione alternative ai problemi, prima ancora che questi esplodano nelle loro “continue” emergenze. Di sicuro è più semplice, ma nel Sud devastato da speculatori e crisi economica è divenuto un obbligo.
“Le ragioni del No. Le campagne contro la Tav in Val di Susa e il Ponte sullo Stretto” è un utile strumento di lavoro degli studiosi di scienze politiche e sociali Gianni Piazza e Donatella Della Porta, edito da Feltrinelli. Racconta le varie fasi dei movimenti che si sono opposti alla TAV in Val di Susa ed all’ipotesi di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina. Analizza gli attori sociali che hanno dato vita ai due movimenti, i repertori delle proteste messe in atto, le differenze e le affinità tra le due esperienze, i valori politici che muovono gli attivisti, in misura minore le proposte alternative messe in atto. Dall’analisi dei documenti prodotti dai due movimenti e da interviste ai protagonisti emerge un ritratto in profondità molto diverso sia da quanto proposto dai media mainstream sia dagli ideologismi che esaltano acriticamente ogni azione di protesta.
Sintesi
La contestazione alle grandi opere muove da esigenze di sicurezza oggi così diffuse, da paure recondite o dal desiderio progressista di un altro sviluppo? Quale la composizione sociale dei movimenti, ci potrebbe essere il rischio che diventino lotte di ricchi contro poveri? I riferimenti ideologici dei movimenti, pur essendo molto compositi, forse troppo, si richiamano comunque al concetto di territorio. Cosa si intende con questa idea probabilmente troppo generica? Il richiamo all’ambiente non è mai stato tanto attuale come in questi anni, ma alle “parole d’ordine” si contrappone una realtà – specie nel meridione – di vero disastro ambientale. E’ veramente diverso il contesto settentrionale da quello del Sud? Perché sinistra moderata, centro e destra continuano a proporre il modello delle Grandi opere? Quale il ruolo dei fondi europei nel determinare decisioni presentate come ‘irrevocabili’? Infine, quali sono le ideologie (alcune delle quali molto diverse tra loro) che compongono i movimenti? Le proposte alternative sono proposizioni strumentali, volte a dimostrare di non essere meramente negativi e distruttivi, oppure fanno realmente parte di un programma per un modello alternativo? Finora i movimenti non sono comunque andati oltre la difesa dello status quo, della realtà pre-esistente; i risultati ottenuti non possono apparire come ‘vittorie di Pirro’ a quella parte della popolazione che si trova in uno stato di deprivazione materiale e di emarginazione? Esistono prospettive per fare invece dei passi avanti?
Il dialogo che segue prova a rispondere a queste domande. Spunti di riflessione per il movimento, per i cittadini, per chi fa politica.
Dialogo
Antonello Mangano: Nelle prime pagine del libro c’è un inquietante parallelismo, anche se solo accennato, tra i comitati contro le infrastrutture e quelli che lottano ad esempio contro nomadi e prostitute. Nel blog di Grillo si trova già qualcosa di simile, cioè la compresenza di post contro gli inceneritori e contro i rom. Esiste, oltre ad un evidente bisogno di sicurezza territoriale contro pericoli esterni, qualche altro aspetto comune? Esiste invece un discrimine preciso? Ha ancora senso dire che i primi sono di sinistra, gli altri di destra?
G.Piazza: “Quello che definisci come “un inquietante parallelismo” e dovuto al fatto che si tratta, in entrambi i casi, di conflitti e opposizioni ad un uso del territorio localmente non voluto (LULU – Locally Unwanted Land Use), promossi quasi sempre da comitati di cittadini, più o meno spontanei. Detto questo, le differenze sono notevoli.
Innanzitutto, il tipo di attori collettivi che promuovono queste opposizioni e si aggregano ad esse, oltre ai comitati di cittadini: da un lato, contro le grandi opere, abbiamo le associazioni ecologiste, alcune amministrazioni locali (quasi tutte di centro-sinistra), i sindacati di base, i centri sociali e l’area antagonista, alcuni partiti della sinistra arcobaleno (Verdi e Prc), dall’altro, contro campi nomadi e prostitute, solo politici locali e amministrazioni locali di An e Lega (ma anche qualcuno del Pd – vedi il “muro” di Vicenza).
Questa diversa composizione è ovviamente legata ai differenti schemi interpretativi (analisi del problema, soluzioni proposte e motivazioni all’azione) utilizzati dagli oppositori: da un lato, le grandi infrastrutture vengono criticate in quanto ritenute conseguenza di un modello di sviluppo economico che privilegia i grandi investimenti e i profitti a discapito dell’ambiente, della salute dei cittadini, delle economie locali, nonché “calato dall’alto”, deciso cioè senza il coinvolgimento e la partecipazione dei residenti e dei loro rappresentanti locali, proponendo soluzioni alternative sia specifiche che più generali; dall’altro, l’opposizione all’insediamento di gruppi sociali non graditi è il frutto della paura dell’altro, del diverso, considerato una minaccia per la propria sicurezza (spesso ingigantita dai mass-media), proponendone soltanto l’allontanamento e la separazione.
Alla base di questi schemi ci sono valori e credenze differenti che, sì credo abbia ancora senso, possono essere definiti di sinistra e di destra. Non è perché alcuni attori considerati di sinistra (vedi Cofferati) cercano di appropriarsi di concetti quali “legge e ordine” o “tolleranza zero”, viene meno la distinzione. Il problema non è poi quello di occuparsi di un tema come quello della sicurezza, ma il modo in cui lo si affronta e le soluzioni che si prospettano. Non tutti i comitati, ad esempio, parlano di sicurezza e immigrazione negli stessi termini. In un ricerca precedente, (D. della Porta (a cura di), Comitati di cittadini e democrazia urbana, 2004), avevamo rilevato come alcuni (non molti per la verità) comitati di quartiere avevano affrontato questi temi auspicando l’integrazione e la contaminazione con gli immigrati piuttosto che richiedendo il loro allontanamento (anche in questi casi, i comitati erano “politicizzati” a sinistra, ovviamente.”
Durante la campagna contro il Ponte ho avuto un paio di volte la sensazione, non suffragata da ricerche approfondite, che il movimento contro il ponte si potesse trasformare in una lotta di ricchi contro poveri, ovvero di ceti impiegatizi e garantiti contro il sottoproletariato bisognoso di lavoro ed abilmente manovrato da quegli imprenditori del consenso clientelare che in Sicilia non mancano. Nel primo caso, durante la più grande manifestazione No Ponte, vedevo al centro della strada un gran numero di impiegati, insegnanti, ceti borghesi, osservati dai bordi della carreggiata da giovani chiaramente di condizione modesta. Nel secondo caso, ricordo durante la presentazione del libro “Il mostro sullo Stretto” un esponente del movimento contro il Ponte che bollava come “manifestazione di pescivendoli” il corteo del giorno precedente organizzato a Messina dal Movimento Per l’Autonomia, composto in gran parte da proletariato non messinese. Hai avuto sensazioni di questo tipo, oppure ti sembra che il movimento sia interclassista, con una sostanziale uguaglianza nell’apporto di ciascun ceto sociale?
Piazza: “Se la campagna contro la Tav in Val di Susa è sicuramente interclassista e intergenerazionale – tutta la comunità locale è contraria alla Tav e partecipa attivamente alle proteste – quella contro il Ponte merita qualche ulteriore specificazione. Tutti gli attivisti No Ponte intervistati nel corso della ricerca concordano nel sottolineare l’eterogeneità sociale e generazionale del No al ponte ma, fanno anche un paio di precisazioni. Innanzitutto, se da un lato ribadiscono che il No al Ponte ha un consenso sociale trasversale che investe tutti i quartieri e i ceti sociali, dall’altro lato ammettono che la partecipazione attiva alle manifestazioni e alle proteste riguarda soprattutto giovani e adulti con uno status sociale medio-alto, un dato che spiegherebbe la tua impressione ricavata assistendo alle manifestazioni; è stata rilevata inoltre, a conferma di quanto detto, una netta distinzione tra promotori e organizzatori delle proteste – attivisti e militanti di gruppi, associazioni, partiti e comitati – e i cittadini “normali” che si limitano a partecipare alle iniziative o semplicemente ad approvarle. Poi c’è anche una considerazione di tipo territoriale che ci è stata suggerita: il No al Ponte sarebbe, sempre secondo gli intervistati, totale e interclassista nella zona Nord di Messina (quella più direttamente interessata dagli espropri e dai lavori di costruzione), mentre la composizione sociale e generazionale muterebbe spostandosi verso la zona centrale e meridionale della città, caratterizzata da ceti sociali medio-alti, soprattutto studenti e universitari. Riguardo alla manifestazione dell’MPA a Messina, il fatto che fosse composta in gran parte da sotto/proletariato non locale,da un lato potrebbe confermare – ma la ricerca era già quasi conclusa in quel frangente – la mancanza di consenso al Sì al ponte da parte dei ceti sociali meno abbienti messinesi (e quindi la loro opposizione, o quanto meno apatia, nei confronti dell’operazione Ponte), dall’altro potrebbe essere spiegata con la capacità di mobilitazione dell’MPA di Lombardo nelle sue roccaforti territoriali (buona parte venivano in pullman dalla provincia di Catania), rispondendo all’appello del loro leader, il quale ha messo in piedi in questi anni una formidabile macchina di consenso clientelare, come si può notare già in questi primi giorni di campagna elettorale.”
Ho notato che in molti documenti dei movimenti del No ricorrono tre parole. Comunità, territorio, e – qualche volta – tradizione. Qualcuno ha notato che sono parole d’ordine dell’estrema destra degli anni ’70, quella che si opponeva alla filosofia ‘classista’ della sinistra e predicava in ‘comunitarismo’? Alcune proteste, i richiami all’integrità ed alla nostalgia non possono derivare da paure dettate dalla crisi economica, timori di impoverimento che sfociano in ideologie reazionarie?
Piazza: “Non credo proprio, almeno per quel che riguarda le campagne che abbiamo studiato, ma penso di poter dire lo stesso anche per quelle No Mose e No dal Molin. Non c’è richiamo all’integrità e alla nostalgia, ma anzi un appello al futuro, ovviamente diverso da quello prospettato da chi promuove le grandi opere. L’unico richiamo alla “tradizione”, ma non viene mai usato questo termine, è quello fatto in Val di Susa al passato “eroico” della Resistenza al Nazifascismo in valle – almeno così lo definiscono – quindi quanto di più lontano da ideologie reazionarie e di destra. La discriminante antifascista è ben visibile in tutta la Val di Susa, ma anche ribadita dalla componente più radicale (centri sociali, area antagonista, sindacati di base) della protesta nell’area dello Stretto, causando anche notevoli tensioni con le associazioni più moderate, come quelle ambientaliste. Riguardo ai concetti di comunità e territorio, il loro significato è anch’esso ben lontano dall’ideologia “comunitarista” dell’estrema destra degli anni ’70. La “comunità” per la destra neofascista ha una dimensione verticale, con un divisione funzionale dei ruoli, secondo una precisa e immutabile gerarchia sociale, mentre per coloro che si oppongono alle grandi opere le comunità sono concepite come orizzontali, aperte, basate sulla democrazia partecipativa e deliberativa, soprattutto in Val di Susa. Inoltre, proprio per i No tav, ma non solo, l’identificazione col territorio e con la comunità non esclude coloro che non vi abitano o che non sono nati in quei luoghi, ma vi è una concezione includente della comunità ed una sua costruzione simbolica nel corso dell’azione di protesta; insomma l’appartenenza alla comunità è determinata dalla partecipazione all’azione e dal riconoscimento reciproco nei valori, nelle pratiche e nelle rivendicazioni delle mobilitazioni.”
Allora il concetto di territorio, che è diventato una vera ossessione, con le sua varianti (del tipo: “le decisioni le prendono i territori”) mi sembra ancora più grezzo ed onnicomprensivo rispetto al comunitarismo, perché implica una generalità indistinta di persone unite da interessi univoci e volontà comune. In un territorio, specie se più ampio di una piccola valle, esistono soggetti divisi da interessi, status economico, valori ed ideali che possono occasionalmente ritrovarsi insieme ma che dovrebbero rimanere avversari nella quotidianità. Il concetto di “territorio” finisce per cancellare le differenze. Nello Stretto, terminata la lotta comune, si rientra nella quotidianità mediocre della politica clientelare e spartitoria. Come giustamente indicato nel tuo studio, ad una prima fase molto selettiva di promozione della protesta, con obiettivi politici e documenti ‘forti’, segue una inclusione che annacqua gli obiettivi fino appunto alla genericità del “territorio”, che finisce per includere tutti.
Piazza “La tua osservazione appare a prima vista difficilmente contestabile. È ovvio che all’interno di qualsiasi territorio esistono attori sociali, politici, economici divisi da interessi, identità, valori ecc. È proprio da queste differenze che nascono i conflitti, anche quelli locali. Pur tuttavia, così come per il concetto di comunità, anche per quello di territorio occorre capire di cosa si parla, cioè qual è il significato che i contestatori danno a questo termine. Il problema è che per molti concetti vi sono significati e interpretazioni differenti, anzi spesso vi è uno scontro simbolico sul significato dei concetti, come abbiamo più volte sottolineato nel libro. Alcuni studi precedenti sui conflitti locali avevano evidenziato come fossero emerse diverse concezioni dell’uso del territorio, visioni diverse che stanno dietro interessi diversi: una concezione del territorio, quella dominante, come valore scambio, cioè materiale e monetizzabile, promossa dalle “macchine per lo sviluppo” costituite da attori pubblici (politici) e privati (imprenditori, banche, ecc.) che difendono gli interessi forti, finalizzate alla crescita degli investimenti economici; ad essa si opponeva una concezione del territorio come valore d’uso, come godimento del bene comune, promossa da associazioni e gruppi di residenti che difendono gli interessi deboli. Qui si parla di territorio come spazio fisico delimitato concepito però in maniera diversa. I notav e noponte, dunque, difendono il valore d’uso del territorio, concepito come “prezioso bene comune” di tutti e non solo delle comunità che vi risiedono, contro il valore di scambio difeso dai promotori delle grandi opere. Mi sembra abbastanza chiaro che sullo stesso territorio si trovino attori che hanno interessi diversi e configgenti, proprio perché ne concepiscono l’uso in maniera differente. Inoltre, abbiamo anche detto, ma non mi sembra sia ancora emerso nel corso di questo dialogo, che gli interessi e le identità in conflitto non siano soltanto preesistenti, ma si formano e si ricostruiscono anche nel corso delle azioni di protesta attraverso un lungo processo di costruzione simbolica del significato del conflitto.”
Nello Stretto che l’Onu dovrebbe dichiarare patrimonio dell’umanità la situazione è drammatica: le stesse zone destinate al Ponte appaiono cementificate oltre ogni limite. In buona parte del litorale persiste il divieto di balneazione, anche a causa di scarichi fognari non esattamente a norma. I due piloni dell’Enel hanno perso da tempo ogni utilità, ma rimangono al loro posto e credo che offendano il paesaggio anche più di un ponte. Dai tuoi studi, ti risulta che nei ‘territori’ la sensibilità ambientale sia cresciuta? Nel meridione mi sembra di no, visto l’irrefrenabile abusivismo edilizio, l’inquinamento dei mari, la cementificazione delle coste, l’uso scriteriato del mezzo di trasporto privato, l’assenza di nuove aree a verde pubblico. Eppure non si è mai sentito parlare tanto di ambiente come in questi ultimi tempi.
Piazza: “In generale direi che la “sensibilità” ambientale è cresciuta ma, come dici tu, sicuramente meno nel meridione, anche se più di quanto si creda come luogo comune (nel Sud si pensa più al reddito e al lavoro che all’ambiente). Ciò che tu evidenzi è innegabile, e credo dipenda in larga misura dalle politiche e dai comportamenti dei ceti politico-amministrativi e imprenditoriali locali, molto più interessati al consenso e ai profitti che alla difesa dell’ambiente o della salute (nonostante programmi elettorali e dichiarazioni pubbliche siano pieni di queste “parole d’ordine”). Ciò non vuol dire che tutti i cittadini “normali” siano diventati ecologisti convinti, ma ritengo che la “sensibilità” ambientale dei cittadini sia comunque maggiore di quella delle loro classi dirigenti, anche se questo non si traduce automaticamente in azioni in difesa dell’ambiente, se non per una minoranza. E, in ogni caso, la distanza con le regioni del centro-nord è ancora notevole.”
Ai primissimi punti del programma per le politiche 2008 del Partito Democratico ci sono le grandi opere, Ponte escluso, ed i termovalorizzatori, come fossero questioni ancora più cruciali rispetto al lavoro, all’immigrazione, alla sicurezza, ai conti pubblici, alle questioni etiche. Mi sembra che in molte fasi la politica appaia talmente ferma nelle proprie decisioni da apparire cocciuta, forse perché condizionata dai Fondi Europei, che non possono mai ‘essere persi’, pena la fine del consenso per il politico. Se questo fosse vero, non occorrerebbe, con metodi democratici, incidere maggiormente nei meccanismi decisionali europei, che per i più sono lontani ed incomprensibili?
Piazza: “Non penso che l’inserimento delle grandi opere nel programma elettorale del PD (“ma anche” del PdL) dipenda dalla “cocciutaggine della politica”, ma da una concezione del modello di sviluppo economico – condivisa dai due maggiori schieramenti politici – basata sul concetto di “crescita”, sui grandi investimenti e le grandi infrastrutture che, sempre secondo questo modello, dovrebbe portare automaticamente un incremento generale della ricchezza, dell’occupazione e della competitività del “sistema Italia”. Un modello, come ho già detto, aspramente criticato dagli oppositori delle grandi opere, in quanto favorirebbe gli interessi di pochi (politici, costruttori, speculatori, organizzazioni mafiose, ecc.) e non l’interesse generale (ma qual è, se esiste davvero, l’interesse generale?), oltre ad arrecare danni all’ambiente, alla salute, e alle economie locali. Per quanto riguarda l’eventuale “perdita” dei Fondi Europei, se è vero che si tratta di uno schema interpretativo utilizzato dai sostenitori delle grandi opere per giustificarne l’urgenza e la necessità improrogabile, è anche vero che il livello di governance europeo è realmente coinvolto nel finanziamento e nell’implementazione delle “opere strategiche”. La consapevolezza di agire in un sistema di governance multilivello ha portato i Noponte e, soprattutto, i Notav a giocare su più tavoli, considerando le istituzioni dell’UE come bersaglio della protesta, ma anche arene (soprattutto il Parlamento) dove cercare alleati. Le denunce alla Corte di giustizia europea per violazione delle normative comunitarie (da parte sia dei Notav sia dei Noponte), la partecipazione degli amministratori valsusini a un’audizione del Parlamento Europeo e quella della Commissione petizioni dello stesso Parlamento ai presidi in Val di Susa, sono tutte azioni indicatrici di questa consapevolezza. Come vedi, i movimenti cercano di incidere sui processi decisionali – anche quelli europei, così lontani e poco comprensibili – con le forme d’azione a loro disposizione (legali, procedurali, dimostrative, di pressione, ecc.). Il che non vuol dire che siano sempre efficaci.”
Secondo alcuni i movimenti del No sono la nuova forma della politica dal basso. Credo che questo sia fortemente limitativo, perché nella migliore delle ipotesi questo tipo di approccio mantiene lo status quo, o almeno questa è stata finora l’esperienza di movimenti come quello No Ponte. In termini di metafora calcistica, diremmo che si gioca per lo zero a zero…
Piazza: “Io ritengo che “i movimenti del No” siano una delle nuove forme di politica dal basso, anche se non l’unica. Dal basso, in quanto non vengono certo mobilitati dall’alto – se per “alto” intendiamo coloro che detengono il potere politico-istituzionale ed economico – ma vengono attivati, più o meno spontaneamente, soprattutto da gruppi e organizzazioni di base (comitati locali, centri sociali, sindacati di base) e semplici cittadini, anche se le associazioni ambientaliste, i partiti della sinistra (Arcobaleno) e alcune amministrazioni locali svolgono un ruolo non irrilevante. Penso inoltre che sia fortemente limitativo definirli “movimenti del No”, poiché se è vero che nascono quasi sempre in reazione ed opposizione a decisioni “prese dall’alto”, è anche vero che – almeno nei casi che abbiamo studiato – non si limitano a dire dei No, ma propongono anche dei Sì, cioè soluzioni alternative ai problemi, sia nel particolare (l’ammodernamento della linea esistente in Val di Susa, il miglioramento della rete infrastrutturale e le autostrade del mare nell’area dello Stretto) che in generale, invocando un diverso modello di sviluppo. In aggiunta, occorre guardare a queste mobilitazioni non solo per gli effetti visibili e immediati che producono, cioè il successo o meno delle specifiche rivendicazioni (e quindi il mantenimento dello status quo, in caso di successo), ma anche agli “effetti collaterali”, che riguardano la costruzione di identità condivise, anche tra attori diversi, la valorizzazione della partecipazione dei cittadini, la pratica di forme alternative di democrazia (soprattutto in Val di Susa), la crescita della consapevolezza di poter incidere sulla propria qualità della vita. Insomma, la partecipazione a queste mobilitazioni non è solo un mezzo per raggiungere un obiettivo, ma anche un fine in sé (come tutte le forme di partecipazione dal basso), attraverso cui ci si trasforma ed arricchisce socialmente e umanamente (non economicamente, è ovvio…), anche se non mancano tensioni, delusioni, diffidenze, confronti aspri e accesi. Se proprio si vuole usare la metafora calcistica, direi che si gioca per vincere: il pareggio sarebbe soltanto il raggiungimento dell’obiettivo specifico, i punti in più si realizzano ogniqualvolta si esce trasformati positivamente da queste esperienze partecipative, anche se non accade sempre. Poi se si riesce a mettere in moto un processo decisionale che va nella direzione auspicata (le contro-proposte specifiche e generali), la vittoria potrebbe essere più netta (ma questo accade molto raramente e nei nostri due casi non è a tutt’oggi accaduto).”
Mi sembra che i movimenti del No siano composti fondamentalmente da tre ideologie. Sindacati di base e gruppi antagonisti che vedono nelle grandi opere il dispiegarsi di dinamiche del capitalismo, a cui si oppongono; aree ambientaliste moderate, abbastanza fossilizzate sul conservatorismo paesaggistico; ed infine, unica vera novità, coloro che si ispirano al movimento della decrescita, che mi appare una ‘ideologia’ sinceramente reazionaria e passatista (qui i richiami alla tradizione ci sono davvero). Ti sembra corretta questa distinzione, al di là dei giudizi sulle ideologie? Quali altre visioni di riferimento hai riscontrato?
Piazza: “Non del tutto. L’elemento caratterizzante i casi studiati è dato dal collegamento e dalla contaminazione tra i diversi schemi interpretativi di riferimento (frames) che tipi di attori differenti “portano in dote” alle mobilitazioni. Le identità collettive non sono soltanto una semplice aggregazione di visioni differenti, ma si formano e si trasformano anche nel corso delle proteste, certamente non senza difficoltà e tensioni e, comunque, non totalmente. Quanto alle componenti ideologiche preesistenti, c’è di certo una “visione del mondo” più radicale, quella anticapitalista e di classe (centri sociali e sindacati di base) che svolge un ruolo, soprattutto da un punto di vista analitico, meno marginale di quanto si possa immaginare. Esiste ovviamente lo schema interpretativo ambientalista, il più moderato, che tuttavia si articola tra il conservatorismo paesaggistico, molto marginale a dire il vero, la concezione dello “sviluppo sostenibile” e quella più recente di “giustizia ambientale”, in cui si coniuga sempre più la difesa dell’ambiente con le rivendicazioni di giustizia sociale a livello globale, sino ad arrivare ai temi della “decrescita” e del “futuro sobrio”; a tale riguardo, pur non essendo un esperto di tale frame, non mi sento di condividere il tuo drastico giudizio: a quale tradizione si richiamerebbe la richiesta di “consumare meno, consumare meglio”? Cosa c’è di reazionario e passatista nella ricerca di un consumo critico ed ecologicamente sostenibile (praticato tra l’altro nei presidi in Val di Susa)? Non mi sembra di intravedere un richiamo ad un passato mitico, ad un medioevo tecnologico, nella richiesta e pratica di un tipo di consumo che tiene conto delle risorse limitate del pianeta. Infine, un altro schema che non emerge dalla tua classificazione ed invece molto presente, soprattutto ma non solo, in Val di Susa, è quello che fa riferimento a nuove forme di democrazia alternative, o quantomeno disgiunte da quella rappresentativa: dalla “nuova democrazia municipale” (vedi gli esperimenti di bilancio partecipativo) alle pratiche di democrazia partecipativa e deliberativa sperimentate nei presidi e nelle assemblee di movimento (in questo caso quasi esclusivamente in Val di Susa), basate sul metodo decisionale consensuale e l’argomentazione razionale.”
Credo che il problema di fondo sia la mai risolta contraddizione tra il desiderio di diminuzione dei consumi e l’auspicio sull’accrescimento dei posti di lavoro. Una contraddizione che spesso si risolve col richiamo ad una fantomatica economia alternativa, di cui si parla da anni, a volte si cita come esempio il commercio equo, ma quanti posti di lavoro ha generato? Quanto reddito non precario produce? La realtà del Meridione è molto semplice, tolti i trasferimenti statali e comunitari siamo un’economia terzomondiale: abbiamo un ceto imprenditoriale parassitario e dedito allo sfruttamento selvaggio della forza lavoro; l’emigrazione interna è ripresa da anni senza suscitare interesse nei politici, nei media e nei ricercatori; il precariato che in zone ricche determina incertezza qui genera la “sicurezza” di lunghi periodi di disoccupazione o lavoro nero; gli stipendi nel settore privato sono arrivati a cifre irrisorie che coprono appena il trasferimento quotidiano al posto di lavoro. Ad ogni elezione amministrativa si scatena una corsa alla candidatura con numeri da concorso, perché la carica elettiva è comunque uno stipendio sicuro, fosse pure la circoscrizione. In questo quadro – così come nella maggior parte dei paesi poveri – parlare di decrescita appare di dubbio gusto. Se poi vuole essere una piccola ideologia ad uso di ricchi col senso di colpa, è bene dirlo con chiarezza. Per quanto riguarda gli aspetti reazionari, mi riferivo a quanto appreso sul sito ufficiale del “Movimento per la decrescita felice”, che tra le altre cose esaltava un ritorno al modello dei “monasteri medievali” ed invitava a pratiche di autoproduzione/autoconsumo (tipo “farsi da soli il burro”) che possono essere – nuovamente – pratiche consolatorie per gente con molto tempo libero ma hanno un aspetto palesemente reazionario, per quanto non molto diffuso all’interno dei movimenti.
Piazza: “Come dicevo prima, non sono un esperto (nè un paladino) del movimento per la decrescita. Abbiamo soltanto rilevato nel corso della ricerca come nell’elaborazione degli schemi interpretativi vi sia stata, da parte di alcune aree dei movimenti, una critica al consumismo, una rivendicazione e pratica di un differente stile di consumi ecocompatibile, un’attenzione al risparmio energetico, una concezione della “vita a bassa velocità”, cioè dell’uso del tempo e del lavoro “per vivere bene” più che per produrre profitti; certo potrebbe essere un’ideologia consolatoria per ricchi dalla pancia piena, anche se dubito che alcuni degli attivisti, come gli occupanti del centro sociale Askatasuna di Torino, lo siano. Sono anche a conoscenza di esperimenti di scambi di beni e servizi senza l’ausilio della moneta nei quartieri poveri di Buenos Aires durante la crisi argentina, ma non saprei dire se si tratta di un modello esportabile. Non metto in dubbio, inoltre, che esista chi auspica un ritorno al modello dei monasteri medioevali, ma non ho letto né ascoltato niente del genere nel corso della ricerca, però potrebbe essermi sfuggito. Per quanto riguarda l’accrescimento dei posti di lavoro, i movimenti sociali di solito non ne producono, credo che lo facciano gli imprenditori (certo, ci sono alcuni esperimenti come quelli dell’impresa sociale o del welfare dal basso praticati dai centri sociali “disobbedenti” di Milano e del nord-est, ma mi sembrano alquanto marginali). Si potrebbe sempre votare per chi promette milioni di posti lavoro e poi sperare che mantenga le promesse…”
Mi sembra che dalle risposte precedente emerga una netta distinzione tra Nord e Sud. Nel Meridione sarebbe necessario che i cittadini si attivassero per far osservare il rispetto dei tempi di consegna nei cantieri delle opere pubbliche, specie quelle ordinarie, per l’efficienza dei servizi collettivi a partire dalla sanità, per arginare la crescita del potere mafioso, per chiedere controlli sul lavoro nero di massa. Secondo te è possibile una evoluzione in tal senso dei movimenti oppure sono destinati all’opposizione occasionale rispetto ad un obiettivo specifico?
Piazza: “La distinzione tra Nord e Sud c’è, ovviamente, ma è meno netta, a mio parere, di quanto sembri, anzi gli elementi in comune (tipi di attori coinvolti, schemi di riferimento, repertori d’azione) sono più rilevanti di quelli di differenziazione. È uno dei risultati innovativi – almeno credo – e sorprendenti della ricerca, proprio perché si parte da contesti sociali, culturali, economici e politici differenti (diverse culture politiche, tradizioni di lotta, patrimoni associativi e capitale sociale). Detto questo, non mi sento in grado di prevedere quale direzione e quale evoluzione prenderanno questi movimenti. Di sicuro è più semplice reagire a decisioni ritenute ingiuste che essere “proattivi”, dare vita cioè a mobilitazioni che sin da subito propongono soluzione alternative ai problemi, prima ancora che questi esplodano nelle loro “continue” emergenze. Vedo alcuni timidi segnali nella direzione da te indicata anche in Sicilia e nel Meridione, ma mi sembrano (ancora?) troppo timidi e deboli. Personalmente non sono molto ottimista, ma è un mio parere personale, non un’argomentazione su basi empiriche. Ti ripeto, il mio compito di ricercatore è quello di studiare, analizzare e tentare di spiegare ciò che accade nella realtà politica e sociale, non quello di prevedere come essa si evolverà.”
Infine, nel tuo libro parli spesso di un modello alternativo proposto dai movimenti. In estrema sintesi, puoi descriverlo?
Piazza: “Penso che, in qualche misura, sia già emerso dalle risposte precedenti. Certo, è naturalmente difficile trovare una descrizione dettagliata del “modello alternativo”, un programma in punti specifici, assimilabile a quello di un partito in campagna elettorale: non è una caratteristica tipica dei movimenti sociali (e neanche di quelli del No) e dei “gruppi senza potere”, i quali elaborano visioni alternative soprattutto sulla base di principi, valori, credenze, modelli di comportamento, meno su precise procedure atte a realizzarli (anche perché senza potere). È per molti un punto di debolezza dei movimenti, per altri invece uno di forza. In ogni caso, a costo di ripetermi, il “modello di sviluppo alternativo” dei Notav e dei Noponte si basa non solo sulla difesa dell’ambiente, della salute e della qualità della vita dei cittadini (tutti, non solo quelli che vivono vicino alle grandi opere), ma anche sulla promozione di economie locali eco-compatibili, caratterizzate da “buona occupazione”, sul consumo critico, equo e solidale, sui processi decisionali pubblici partecipativi, sulle nuove forme di democrazia diretta e deliberativa.”
I movimenti territoriali sono di destra o di sinistra?
Intervento di Luigi Sturniolo (Rete No Ponte)
Si commette molto spesso l’errore di identificare i movimenti sociali con le soggettività militanti che li animano. Anche le ricerche di Gianni Piazza (1) e Valentina Raffa (2), in modi differenti, corrono questo rischio. L’utilizzo, infatti, come fonti della ricerca, di interviste ai promotori delle mobilitazioni, dei documenti da questi prodotti e dei resoconti giornalistici se non incrociato con un’inchiesta sui partecipanti alle iniziative può dare un’idea falsata dei movimenti. Sono convinto, ad esempio, che una parte non irrilevante dei partecipanti ai cortei contro il ponte non avesse alcuna contezza e, probabilmente alcun interesse, riguardo alle divergenze presenti tra gli organizzatori delle manifestazioni e che una certa parte dell’apparato estetico-politico messo in campo dalle reti di militanti risultasse abbastanza incomprensibile a tanti. Per quanto riguarda i giornalisti, poi, è già un miracolo se non sono in cattive fede. Il più delle volte non si rendono ben conto di cosa sta succedendo e confezionano gli articoli sulla base di interviste ai personaggi più conosciuti (che molto spesso hanno un ruolo marginale nella promozione dell’evento). Penso, in sostanza, che i movimenti abbiano un corpo centrale (le cui dimensioni fanno del movimento un fenomeno significativo o no) che agisce sulla base dell’interesse nudo e crudo (sia esso l’opposizione alla discarica, al ponte sullo stretto o alla presenza del campo rom) e una soggettività militante (quasi sempre pre-esistente) che fornisce prima, durante e dopo gli strumenti e le competenze organizzative. Mi sembrano delle idealizzazioni, in ugual misura, quelle che vedono questi fenomeni come espressioni spontanee della società civile o frutto della volontà di una serie di organizzazioni politiche.
I cosiddetti movimenti territoriali non sono né di destra né di sinistra. Possono avere un verso oppure un altro. Il loro significato è intrinseco ad ogni loro singola manifestazione. La loro qualità è determinata, oltre che dall’obbiettivo che si pongono, dalle modalità che usano nei loro meccanismi di funzionamento. Non sarà certo la presenza di soggetti politici organizzati di sinistra a garantirne il buon fine, ma è chiaro che il messaggio che producono è spesso segnato dalle componenti organizzate che ospitano. C’è da sperare che dentro i percorsi che questi movimenti compiono possano avere luogo delle sperimentazioni capaci di intravedere il comune di tutte queste singole vertenze (o almeno di quelle che girano per il verso giusto). A questo proposito l’esperienza del Patto di mutuo soccorso rappresenta una novità non da poco proprio perché propone un modello di attivazione dei conflitti territoriali che si basa sulla centralità delle comunità interessate (prefiggendosi l’obbiettivo di metterle in relazione) piuttosto che sulle strutture organizzate (partiti, sindacati, associazioni ambientaliste …).
È proprio la centralità data alla categoria della comunità ad aver generato non poche discussioni. Alcuni c’hanno visto il pericolo di aprire la strada a tesi care alla destra. E’ vero, peraltro, che le micro-organizzazioni dell’estrema destra e qualche brandello di AN hanno preso posizione contro il ponte. Anche in questo caso, le interpretazioni possono avere un senso oppure un altro. Interrogarsi sulla comunità significa interrogarsi sulle relazioni che gli abitanti di un territorio intrattengono tra loro e che insieme intrattengono con la natura. E’, in sostanza, un terreno di battaglia politica, sociale, culturale. Si tratta di provare a dire la propria su quello che sarà il destino di un territorio e delle persone che vi ci abitano. Si tratta, inoltre, di farlo a partire dal basso, dando voce ai diretti interessati: gli abitanti di questi luoghi. Si tratta di affrontare il tracollo della rappresentanza politica attraverso la messa in funzione di istituti auto-rappresentativi.
Come non si può governare contro il popolo, non si può neanche praticare il conflitto contro il popolo. Non si può prescindere da un allargamento del consenso. E’ vero, ad esempio, che il movimento contro il ponte ha finora visto una partecipazione marginale dei ceti più popolari. Questo è in parte dipeso da una congiunturale riduzione di lotte di lavoratori, disoccupati ecc. In parte, però, è stato causato da un certo snobismo degli attivisti. L’avere esaltato gli aspetti ambientali, paesaggistici o addirittura tecnici è stato percepito da tanta gente come una noncuranza nei confronti di un disagio sociale estremamente diffuso fatto di disoccupazione, precariato, sfruttamento, assenza di servizi, difficoltà abitative. Le componenti del movimento che hanno cercato di introdurre questi elementi sono state a volte criticate di voler forzare una politicizzazione che avrebbe nuociuto all’unità della lotta. Non ci si è, in realtà, resi conto che per molte persone non è importante stabilire se il ponte sia utile o meno, devastante o gradevole, quanto il fatto che farebbe confluire un certo flusso di denaro da cui molti trarrebbero vantaggio. Non si tratta di argomenti da trattare con superficialità. Si tratta di smascherare il furto di denaro pubblico, di dimostrare che lo scambio tra welfare e grandi opere avvantaggia costruttori e mafia mentre svantaggia la popolazione e, possibilmente, rilanciare le lotte sociali.
Il progetto di costruzione del Ponte sullo Stretto è parte di una strategia più generale che mira a trasferire risorse dal pubblico al privato. Accettare di farsi schiacciare nella tipizzazione dell’ecologista difensore della natura che però frena il progresso e lo sviluppo è quanto di più sbagliato si possa fare. Il ponte e le grandi opere in genere, così come le politiche di guerra, con il portato di privatizzazioni che le attraversano, hanno a che fare con la crisi e non con lo sviluppo. Non c’è alcun bisogno di auspicare una decrescita per il semplice motivo che questa sta dandosi da sé e a tutto discapito dei più poveri. Proprio la crisi induce politiche che tendono a trovare nuovi mercati e nuovi beni da trasformare in merce. Finanziatore diventa lo stato che paga le infrastrutture con risorse che altrimenti potrebbero rappresentare reddito differito per la grande massa della popolazione. Intanto i beni comuni vengono trasformati in merce obbligando i cittadini a comprare servizi in precedenza offerti a prezzo sociale. Tutto ruota intorno alle partnership pubblico-privato con evidente vantaggio per i grossi contractor internazionali e per i componenti dei consigli di amministrazione delle agenzie chiamate a gestire la realizzazione delle grandi opere. Altrettanto evidente, invece, è lo svantaggio per la società, visto che tutti gli ambiti attraversati dai processi di privatizzazione hanno evidenziato un peggioramento delle prestazioni e che la monetizzazione dei servizi ha amplificato le disuguaglianze sociali.
Se i movimenti territoriali possano essere un antidoto a tutto questo non lo sappiamo ancora. Per il momento hanno rappresentato un punto di resistenza. Hanno ospitato la polemica politica tra tesi ecologiste e/o anticapitaliste, della decrescita felice e/o della democrazia partecipata. Di certo, lontano dagli equilibri politici hanno dato vita ad esperienze di auto-organizzazione. Ed è su questo elemento che è possibile giocare un’opzione di alternativa al presente.
- D. Della Porta, G. Piazza, Le ragioni del no, Milano, Feltrinelli, 2008.
- V. Raffa, L’azione sociale in riva allo Stretto di Messina : Il movimento no ponte in A. Cammarota, M. Meo (a cura di), Governance e sviluppo locale, Milano, F. Angeli, 2007.