Non comprare su Amazon? È inutile contro lo sfruttamento

  È contraddittorio scrivere un libro ”anticaporalato” e poi venderlo su Amazon? Oppure usare Google? Fare la spesa in un supermercato? Dipende. In un’ottica liberista sì. Se vogliamo combattere lo sfruttamento, invece, il piano del discorso è un altro. E non è quello morale-individuale
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A volte mi chiedono: hai scritto un libro sullo sfruttamento e poi lo vendi su Amazon. Incoerenza? Proviamo a capire. Per prima cosa, stiamo confondendo due piani. Quello etico-morale individuale e quello della lotta contro la schiavizzazione del lavoro.

Durante il lockdown del marzo scorso ho intervistato alcuni rider. Per loro era un momento drammatico. A uno di loro, un sindacalista di Milano, ho chiesto:

– Spesso si propone di non comprare da Amazon o non ordinare dai rider. Le sembra una scelta valida?

“Non è con il moralismo che aiutiamo i lavoratori a strappare migliori condizioni. Quando chiamiamo gli scioperi all’attenzione pubblica, ci aspettiamo complicità. Poi le persone possono ordinare il servizio. Altrimenti ci danneggiano. Diventa un atto politico quando è un atto rivendicativo collettivo. In un paio di occasioni abbiamo chiamato il boicottaggio del servizio. Abbiamo chiesto la complicità dei consumatori”.

In queste poche parole c’è tutto. Un boicottaggio permanente individuale ha un’efficacia molto prossima allo zero. Serve a farci stare bene, a non sentirci complici. Amazon fattura quasi 90 miliardi di dollari a trimestre. Per un’azienda di queste dimensioni, un gesto singolo e isolato è ininfluente. Continueranno a sfruttare, distruggere le economie locali, imporre un nuovo disegno delle città. Continueranno ad essere disrupting – il terribile fondamentalismo californiano – e a non pagare le tasse. Continueranno ad essere desertificatori.

A questo punto si aprono due strade. Una è perfettamente in linea col “neoliberismo delle coscienze” che ha preso piede all’inizio degli anni ’90, quando le grandi narrazioni hanno lasciato il posto ai piccoli prontuari del quotidiano.

Uno dei più diffusi è il consumerismo. “Si vota anche facendo la spesa, piccolo è bello, di fronte a uno scaffale possiamo cambiare il mondo”. E ancora: le nostre piccole scelte si sommeranno a quelle degli altri ottenendo il cambiamento.

Dopo trent’anni possiamo fare un bilancio. E dire che è andata decisamente male. Non solo il “consumo critico” non ha coinvolto le masse, ma spesso ha assunto il volto dell’egoismo: posso comprare buon cibo biologico per mangiare meglio e proteggere la mia salute, ma questo non incide sullo sfruttamento dei braccianti. Il caso milanese di un’azienda “green” e a km zero che nascondeva lavoro schiavile dovrebbe essere molto istruttivo in questo senso.

“Il boicottaggio deve essere essere organizzato, limitato nel tempo e finalizzato a uno scopo”

Allora qual è la soluzione? Una è quella indicata da chi vive queste situazioni sulla sua pelle, come il sindacalista dei rider. Il boicottaggio è una cosa seria. Deve essere organizzato, collettivo, limitato nel tempo e finalizzato a uno scopo. Per esempio, può accompagnare una lotta dei lavoratori.

Spesso ci sono astensioni dal lavoro nei magazzini Amazon, nelle consegne dei fattorini, persino tra i braccianti nei campi. In questo modo il boicottaggio diventa un atto politico e non un modo per stare bene con la propria coscienza.  

Google e gas

Quando nacque Internet generò grandi speranze. Dalla democrazia diretta alla diffusione senza ostacoli della cultura e dell’informazione. Il panorama attuale, invece, ricorda il feudalesimo digitale. Pochi soggetti che incamerano enormi profitti, non pagano tasse, lucrano sul rancore sociale diffuso e propagano razzismo e odio.

Anche in questo caso, la soluzione spesso indicata è quella di passare ai software alternativi. È un po’ come pensare di sconfiggere i supermercati convincendo tutti a fondare un “gruppo di acquisto solidale”. Anche in questo caso non funziona. Ci proviamo da anni ma i numeri sono sempre troppo bassi. È un tentativo che può essere complementare ma non può sostituire la politica. 

Nel mondo digitale c’è un’aggravante. Google e Facebook, per esempio,  vivono rivendendo dati personali. E possono ricavare i nostri anche se non usiamo i loro servizi. Possono ottenerli dai nostri amici. Possono costruire un profilo analogo al nostro attingendo dall’infinità di ”segmenti” che hanno acquisito. 

Allora non esiste soluzione? Al contrario. Esiste la democrazia. Che nello specifico significa non dare per scontato, per naturale, che le multinazionali non paghino le tasse, che non si possano proteggere le economie locali e promuovere ciò che è importante anche se non regge sul mercato. Si è sempre fatto, prima di pensare che tutto si risolve a livello individuale.

Consumatori contro lavoratori

Quando si parla di agricoltura e cibo, il discorso è molto simile. Occorre ribadire un concetto: fare la spesa è un atto collettivo mascherato da scelta individuale. 

La nostra scelta non è libera. Dipende da quello che abbiamo intorno nel nostro quartiere (un centro commerciale aperto anche di domenica o un mercato dei contadini in funzione poche ore). Dipende dalla nostra capacità di spendere, che a sua volta per esempio dipende dalle politiche salariali imposte dalle aziende. Dipende soprattutto dal tempo che abbiamo a disposizione, che è un altro elemento che deriva dal tipo di lavoro che facciamo: con tempi fissi oppure “a chiamata”.

Negli ultimi anni, ricordiamolo, le scelte politiche sono state decisive: dalla liberalizzazione delle licenze e degli orari dei negozi alle aperture dei festivi, fino al sostegno ai grandi operatori. Parallelamente, le politiche del lavoro hanno creato consumatori con poco tempo a disposizione, senza alcuna educazione alimentare, bombardati dalla pubblicità e dal marketing del sottocosto. 

“Fare la spesa è un atto collettivo mascherato da scelta individuale”

Certo, comprare una cosa anziché un’altra è una scelta che in ultima istanza compete all’individuo. Ma l’individuo è inserito in un contesto, indirizzato e guidato. Alla fine la sua scelta è sempre un gesto “sociale”.

Proprio per questo è fuorviante la contrapposizione tra consumatori e lavoratori. Ci vediamo a volte come persone che acquistano e a volte come persone che producono. Il grande capolavoro del capitalismo contemporaneo non è la contrapposizione tra i lavoratori, né quella tra migranti e autoctoni (un meccanismo vecchio ma sempre funzionante). È quella – nuova – tra l’essere umano e sé stesso. 

Oggi l’uomo consumatore è in competizione, si scontra e si vede separato dall’uomo lavoratore. Anche se si tratta della stessa persona.

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