“Quando Colombo incontrò i primi indigeni
nella piccola isola dei Caraibi da lui
battezzata San Salvador questo avvenne:
l’uomo incontrò sé stesso e non si riconobbe”
Ernesto Balducci, Montezuma scopre l’Europa
Naufraghi. Cronache a Sud della Fortezza
3.2. La strage del Venerdì santo
3.3. Adriatico mare della morte
4.1. Kurdi: l'”invasione” dei perseguitati
4.2. Albanesi: “li prenderemo tutti”
4.3. Il diritto d’asilo e il protettorato italiano
1. Introduzione
Questa inchiesta si apre con due considerazioni. La prima: le frontiere non soltanto sono assurde ma anche omicide. Stanno provocando una spaccatura forse incolmabile tra le due sponde del Mediterraneo. Presto non parleremo semplicemente con migranti e potenziali lavoratori, ma sempre più con parenti delle vittime dei naufragi, che presumibilmente saranno sempre più insofferenti delle nostre ragionevoli argomentazioni (le quote, il reddito sufficiente, la carta di soggiorno) e sempre più legati al ricordo della morte dei loro cari.
Anche le soluzioni ipotizzate dalle istituzioni nazionali ed europee (bloccare i viaggi, pattugliare ogni metro quadro d’acqua, stipulare accordi capestro coi Paesi d’origine) sembrano fatti apposta per scavare un solco ancora maggiore.
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In secondo luogo, i media continuano ad usare un linguaggio stereotipato nel riferirsi alle tragedie dell’immigrazione. Anche a partire dalla notevole ricchezza offerta dal vocabolario della lingua italiana, sarebbe opportuno evitare di usare sempre le stesse espressioni:
– il viaggio della speranza
– l’invasione dei disperati
– le carrette del mare
– l’emergenza clandestini
– etc.
Oltre che banali e ripetitive, queste frasi non rispecchiano assolutamente la realtà e offrono un’immagine vittimizzante, banale ed indistinta.
Molti migranti lasciano il proprio Paese con le ragioni più svariate, e spesso – come autorevoli inchieste hanno dimostrato – con un progetto di vita articolato e la ferrea determinazione a metterlo in pratica.
Di conseguenza, non permettevi mai più di chiamarli disperati.
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Forse il 20 ottobre del 2003 è stato un giorno storico per l’immigrazione straniera in Italia. Non solo per l’ennesima tragedia del mare, 70 africani morti al largo di Lampedusa ed i superstiti disidratati trascinati in porto dal peschereccio “Sant’Anna”. Nemmeno per la proposta di legge di Alleanza Nazionale, che ipotizza per gli immigrati che rispettano stringenti requisiti l’elettorato attivo e passivo alle amministrative.
Il 20 ottobre – finalmente – giornali radio, siti web, telegiornali e carta stampata hanno dedicato di titoli di testa ad una tragedia infinita, uno stillicidio di morti in mare, una serie infinita che da anni ha trasformato il Mediterraneo in un cimitero.
Il nuovo naufragio non ha generato le solite poche righe, i 10 secondi distratti. Un segno importante? Probabilmente no. Vedremo in futuro. Nel frattempo, prevedendo che la “terribile tragedia dei viaggi della speranza” sarà presto archiviata dalla macchina-tritatutto dell’informazione spettacolo, ricostruiamo i naufragi più gravi (anche se questo termine appare improprio? Come si misura la gravità di un naufragio? Dal numero dei morti? Dalla dinamica dell’accaduto?) per ricordare.
Perché la memoria è più importante dei 60 secondi di indignazione preconfezionata dal tubo catodico.
***
Primo agosto del 1997. Mohamed Boughnahmi era un cittadino della Tunisia. Era cieco e voleva operarsi in Italia. E’ morto nella tarda serata di un venerdì, insieme ad altri sette naufraghi, a poca distanza dalla costa di Pantelleria.
Zabihullah Basha è un cittadino pakistano, padre e zio di due delle vittime della strage di Natale. Ha gridato con tutte le sue forze che – nella notte di Natale del ’96 – 289 immigrati asiatici erano stati inghiottiti dalle onde del canale di Sicilia.
Abdul Kheeder è un ingegnere elettronico di 48 anni, con passaporto iracheno. Sentendosi kurdo prima che iracheno, ha rifiutato di mettere le sue capacità professionali al servizio di una società che fabbricava armi pesanti per Saddam Hussein. “Lavoravo già in una società edile, non volevo mettermi con i guerrafondai iracheni”. Kheeder non ha voluto contribuire alla costruzione di armi usate contro il suo popolo ed ha pagato il rifiuto con minacce di morte. La fuga era l’unica via rimasta. Khedeer era tra le centinaia di kurdi sbarcati nell’estate del 1997 a Badolato, sulla costa catanzarese. Il suo viaggio si è interrotto in una triste questura italiana.
Il 19 novembre del 1997 entrava in vigore – mediante la legge sull’immigrazione del governo di centrosinistra – il sistema Schengen. Le frontiere interne ai paesi UE venivano spalancate, mentre quelle con l’esterno devono essere blindate. Tutto ciò significa che, escluse pochissime eccezioni, da allora l’ingresso clandestino è l’unico mezzo per entrare in Italia.
La legge sull’immigrazione si adeguava al modello Ue di Europa-fortezza e sanciva lo status di baluardo sud per le frontiere italiane. Questa impostazione sarà poi confermata e rafforzata in seguito, con la successiva legge Bossi-Fini.
I provvedimenti legislativi e le drammatiche storie degli immigrati sono fatti senza connessione ? Chiaramente no. Ma è sempre più raro ascoltare qualcuno che metta in relazione le leggi sull’immigrazione e le conseguenze reali, concrete, materiali che queste hanno. Alcuni parlano di “coniugare solidarietà e ordine pubblico”, altri di “rispettare gli impegni europei”, altri ancora chiedono di “governare i flussi migratori”.
Sono sempre di meno quelli che parlano dei diritti degli esseri umani.
2. Scheda – Dieci anni di tragedie
Data | Luogo | Morti | Superstiti |
31 dicembre 1992 | Costa di Otranto | 10 | 1 |
12 ottobre 1994 | Capo d’Otranto | 12 | 13 |
18 ottobre 1994 | Cesine (Otranto) | 2 | |
11 settembre 1995 | Canale d’Otranto | 15 | 12 |
30 novembre 1995 | Canale d’Otranto | 19 | ? |
1 dicembre 1995 | Canale di Otranto | 17 | 5 |
25 aprile 1996 | Basso Adriatico, a largo di Vieste | 6 | 14 |
26 aprile 1996 | Lampedusa | 14 | 5 |
24 dicembre 1996 | A sud di Capo Passero,annegano duecento clandestini, soprattutto pakistani, tra Malta e la Sicilia, in seguito allo scontro tra il cargo libanese «Friendship» e la motonave «Yohan». | 289 | 29 |
23 marzo 1997 | Canale di Otranto | 5 | |
28 marzo 1997 | Canale di Otranto. In seguito ad uno scontro con la corvetta della Marina militare italiana «Sibilla» affonda la nave albanese «Kater I Rades». Vengono recuperati i cadaveri di quattro clandestini, mentre 34 di loro vengono tratti in salvo. Nel successivo mese di ottobre viene recuperato il relitto dell’imbarcazione, con a bordo altri 54 cadaveri.
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85 | 34 |
2 agosto 1997 | Pantelleria | 8 | 32 |
21 novembre 1997 | Basso Adriatico. Sedici clandestini albanesi partiti da Durazzo muoiono nel canale d’Otranto per lo scoppio del gommone. | 16 | 11 |
9 settembre 1998 | Coste del Salento. Tre scafisti gettano in mare nove bambini, tra cui tre neonati, che si trovavano a bordo del loro gommone. Alcuni di loro vengono salvati dai genitori, altri vengono recuperati dai carabinieri. | ||
dicembre 1999 | Affonda un gommone carico di clandestini nel canale d’Otranto. Muoiono 59 immigrati. | 59 | |
16 maggio 1999 | Sei clandestini, tra cui alcuni bambini, muoiono in seguito allo scontro del gommone su cui viaggiavano contro uno scoglio nelle acque di Valona, in Albania. | 6 | |
15 agosto 1999 | Al largo delle coste montenegrine sarebbe naufragata una «carretta del mare» carica di famiglie Rom. Sarebbero oltre un centinaio i morti. | 100 | |
4 maggio 2000 | Un gommone carico di immigrati sperona un’imbarcazione della polizia a quattro chilometri dalla costa del Salento. Muoiono due clandestini e sono almeno dieci i dispersi. | 12 | |
9 luglio 2001 | Quattro clandestini gettati in mare dagli scafisti muoiono mentre tentano di raggiungere a nuoto le coste del ragusano, tra Puntasecca e Scoglitti. Gli immigrati erano stati abbandonati a diverse centinaia di metri dal litorale siciliano. | 4 | |
10 giugno 2001 | Muoiono a Trani, in provincia di Bari, dodici clandestini albanesi, forse gettati in mare dagli scafisti. I superstiti sono 22. | 12 | 22 |
14 gennaio 2002 | Due scafisti, per sfuggire alla polizia di frontiera di Otranto che li aveva intercettati, lanciano sugli scogli un gommone carico di clandestini. Una decina di immigrati cadono in acqua ed un albanese di 25 anni viene ferito gravemente. | 26 | |
7 marzo 2002
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Nel canale di Sicilia, a 65 miglia da Lampedusa, naufraga un’imbarcazione di sette metri. Sono dodici i clandestini morti, mentre è incerto il numero dei dispersi. | 60 | 12 |
11 marzo 2002 | Sei cadaveri di immigrati legati allo scafo di un gommone in avaria vengono recuperati sulla costa di Otranto. Il gommone, che era partito da Valona, in Albania, si era incendiato. Vengono salvati 23 clandestini. | 23 | |
8 giugno 2002 | A poche decine di metri dalla costa di Castro Marina, in provincia di Lecce, degli scafisti albanesi, avvistati dalla Guardia di finanza, gettano in mare 40 clandestini ed accoltellano quelli che oppongono resistenza. Vengono recuperati in mare quattro cadaveri. | 4 | 40 |
12 giugno 2002 | Muoiono a Kelibia, in Tunisia, 11 immigrati che tentavano di imbarcarsi clandestinamente per l’Italia. Le vittime cercavano di raggiungere a nuoto la nave che si trovava ormeggiata al largo. | 11 | |
22 luglio 2002 | A Valona, in Albania, in uno scontro tra un gommone carico di clandestini ed una motovedetta della Guardia di finanza muoiono due immigrati. | 2 | |
18 settembre 2002 | Settantotto immigrati africani ed asiatici vengono soccorsi a 30 miglia da Lampedusa. I clandestini erano a bordo di un’imbarcazione in avaria, forse salpata dalle coste turche. | 68 | |
15 settembre 2002 | Affonda un’imbarcazione a circa mezzo miglio da Capo Rossello, sul litorale agrigentino. Vengono recuperati i corpi di 37 immigrati clandestini sulle coste di Realmonte, in provincia di Agrigento. Si tratta di liberiani, 92 dei quali riescono a scampare al naufragio. I due scafisti vengono arrestati. | 37 | 92 |
22 settembre 2002 | Uno scafista abbandona in mare, a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti, in provincia di Ragusa, un carico di tunisini. Muoiono 14 immigrati, i cui corpi vengono ritrovati a 40 chilometri da Ragusa, mentre una cinquantina di loro si salva. Lo scafista viene arrestato in mare mentre tenta la fuga verso Gela. | 14 | 50 |
1 dicembre 2002 | Vengono recuperati in tutto 44 cadaveri, vittime di due naufragi a largo delle coste della Libia e del Marocco. | 44 | |
19 gennaio 2003 | Al largo delle coste pugliesi, a venti miglia da Capo Santa Maria di Leuca, vengono recuperati sei cadaveri di clandestini, di nazionalità curda irachena. La piccola imbarcazione sulla quale viaggiavano gli immigrati viene intercettata dalla petroliera russa «Brother 4». A bordo ci sono sei uomini sopravvissuti, mentre sono 23 i dispersi. | 29 | 6 |
19 gennaio 2003 | Annegano, al largo del Marocco, 18 clandestini che si trovavano a bordo di un gommone mentre cercavano di raggiungere l’Europa | 18 | |
1 maggio 2003 | Avvistato un cadavere alla deriva al largo di Lampedusa | 1 | |
17 giugno 2003 | Affonda una barca al largo di Lampedusa. Sei i corpi recuperati, ma a bordo dell’imbarcazione c’erano circa 70 persone. Solo tre i superstiti. | 70 | 3 |
20 giugno 2003 | A 20 miglia a sud est delle isole di Kerkenah, al largo della Tunisia, affonda un’imbarcazione con a bordo circa 200 persone. I cadaveri recuperati sono 20. | 180 | 40 |
29 giugno 2003 | Affonda a largo di Cap Bon un’imbarcazione diretta verso Lampedusa, tre persone perdono la vita ed altri 35 vengono salvati. | 3 | 35 |
3 ottobre 2003 | Sempre a largo dell’isola di Lampedusa affonda una piccola imbarcazione con a bordo 30 cittadini nordafricani. Uno di loro perde la vita. | 1 | 30 |
17 ottobre 2003 | Un’imbarcazione con a bordo circa 30 immigrati clandestini è affondata a largo di Lampedusa. Quattro migranti sono morti annegati. | 4 | 25 |
20 ottobre 2003 | Una barca con circa 80 persone a bordo è tratta in salvo da un motopeschereccio. Almeno 13 persone avevano già perso la vita per la fame e la sete. | 13 | 80 |
21 ottobre 2003 | Una barca piena di immigrati clandestini che cercavano di raggiungere l’Italia è affondata al largo delle coste tunisine. La guardia costiera ha recuperato cinque cadaveri e salvato 10 naufraghi. Ma almeno sette persone risultano disperse. Sono tutti di nazionalità tunisina. | 12 | 10 |
tot. | 426 | 223 |
3. I naufraghi
I mari italiani sono stati trasformati in cimiteri, popolati da cadaveri albanesi, kurdi, tunisini, pakistani, somali, indiani. I militari italiani sono diventati assassini, in maniera diretta (come nel caso della corvetta Sibilla in Adriatico) o indiretta. La stampa italiana alterna le lacrime di coccodrillo per “l’ennesima tragedia del mare” ed i silenzi omertosi gonfi di ipocrisia. I politici di tutti gli schieramenti mascherano il loro imbarazzo dando la colpa prima alle “mafie” poi ai “terroristi” (personificazione del male assoluto cui attribuire ogni nostra responsabilità).
Parenti e concittadini delle vittime hanno talvolta scaricato parole di odio, i primi segnali di un muro di rancore destinato ad innalzarsi ed a produrre nuove tragedie, sempre più gravi.
Sono solo alcune delle conseguenze che derivano dalla chiusura della frontiere decisa dalla convenzione di applicazione del trattato di Schengen e dagli altri accordi comunitari ha trasformato le coste spagnole, italiane e greche nel baluardo meridionale dell’Europa-fortezza.
3.1. La strage di Natale
Sono partiti da Istanbul, dall’India, da Antakia (un porto turco), da Colombo, da Karachi e poi da Atene. Provenienze diverse per un’unica destinazione: il porto del Cairo. Lunghi viaggi di fortuna, sistemazioni precarie e disumane, dopo anni di lavoro per racimolare il denaro da consegnare ai trafficanti.
Circa 400 persone, dopo aver versato ciascuno almeno un migliaio di dollari, sono state imbarcate sulla “Friendship”, che ha atteso in porto 12 giorni, per partire a pieno carico. Una attesa vana che si conclude col primo trasferimento: bisogna trasbordare sulla “Yohan”, un cargo da 1500 tonnellate che batte bandiera honduregna.
Stavolta si parte: circa 470 persone rinchiuse in una stiva (due ore d’aria al massimo), a tirare avanti per venti giorni con un litro d’acqua quotidiano ed un pezzo di pane.
Qualche giorno prima di Natale, la “Yohan” entra in un porto siciliano: potrebbe essere la volta buona per lo sbarco, ma il guardacoste intercetta la nave e la costringe alla fuga. A questo punto occorre aspettare un battello maltese per il trasferimento a terra.
Il battello arriva la notte di Natale, si chiama F174 ed è fatto di tavole di legno tenute da corde perché non si sfasci. I passeggeri dello “Yohan” sono esasperati e non danno ascolto a chi consiglia loro uno sbarco scaglionato: salgono in massa sul battello maltese, che è lungo 18 metri e già trasporta una cinquantina di persone.
Quando l’F174 si allontana ha circa 400 persone a bordo ed un foro a prua, frutto di un urto con la “Yohan”. Si tenta di raggiungere la costa siciliana, distante 30 km. Il battello imbarca acqua, e non bastano gli sforzi dei passeggeri per ricacciarla in mare con i secchi. Mentre la nave più piccola inizia ad immergersi di prua, giunge la “Yohan”, chiamata per prestare soccorso. Le due imbarcazioni finiscono per scontrarsi, il battello si spacca in tre ed affonda. Una ventina di persone si salvano sui mezzi di soccorso lanciati dalla “Yohan”, per gli altri c’è la morte.
La nave riparte per la Grecia, rischia un nuovo naufragio, scarica i sopravvissuti e gli altri passeggeri. I trafficanti minacciano tutti di non parlare dell’accaduto. Qualcuno fugge e racconta alla polizia greca, altri vengono arrestati ed ugualmente raccontano. La “Yohan” viene bloccata il 28 febbraio dopo aver sbarcato 150 asiatici a sud di Reggio Calabria. I beni dei naufraghi rimasti sulla nave, una serie di testimonianze convergenti ed alcuni cadaveri ritrovati giorni dopo in mare hanno contribuito a dimostrare ciò che è accaduto.
Le autorità italiane avevano a lungo espresso dubbi sull’accaduto. La stampa inglese ha dimostrato più interesse alla vicenda di quella italiana. L’ambasciata del Pakistan ha trasmesso la lista degli scomparsi alla Farnesina, senza ricevere risposta.
Ci sono volute le inchieste di pochi giornalisti, le indagini della polizia greca, della Procura di Reggio Calabria e di alcuni parenti delle vittime (tra cui Zabihullah Basha) per affermare una verità spaventosa: quella notte 289 tra indiani, cingalesi e pakistani morirono annegati al largo di capo Passero.
3.2. La strage del Venerdì santo
La politica dell’Europa-fortezza spinta alle estreme conseguenze.
E almeno 85 persone sepolte in fondo all’Adriatico. La tragedia avvenuta la notte del 28 marzo nel canale d’Otranto è stato solo l’ultimo e più drammatico atto dei rapporti neocoloniali intessuti tra Italia ed Albania.
Tuttavia, il 28 marzo sarà probabilmente ricordato anche come una data importante non solo per i rapporti tra i due paesi, ma anche per quelli tra Nord e Sud del mondo. Nella notte in cui l’egoismo dei benestanti è diventato assassino, dall’Albania sono giunte parole cariche di odio e desiderio di vendetta.
I fatti sono noti, ma vale la pena ricordarli in un’epoca di informazione usa-e-getta. Era il periodo della rivolta contro il presidente-criminale Berisha (grande amico dell’Italia) e le finanziarie truffa. Era il periodo in cui l’esodo verso le coste italiane si era fatto ancora più intenso ed i media gridavano all’invasione dei criminali venuti dai Balcani.
Già il 23 marzo cinque albanesi partiti da Valona erano morti nel tentativo di raggiungere la costa italiana. Non avevano commosso nessuno, anzi era quasi unanime la volontà di fermare l’arrivo dei profughi con qualunque mezzo.
Il governo decideva quindi di predisporre il blocco navale denominato in codice “Operazione bandiere bianche”: il compito affidato alle navi della marina militare era di fermare tutte le imbarcazioni dei profughi.
Il dragamine “Kater I Rades” parte dall’isoletta di Saseno, luogo di raccolta dei profughi. Si tratta di una vecchissima imbarcazione militare riadattata per traghettare i profughi. A 35 miglia dalle coste leccesi, in acque internazionali, il Kater è individuato dalle unità italiane ed inseguito per un breve tratto.
La nave italiana che più si avvicina è la corvetta Sibilla, che intima l’alt agli albanesi e continua ad avanzare. Non si ferma neanche la nave dei profughi, perché ignora il pericolo o semplicemente perché il mare forza sette non glielo permette. La Sibilla sperona sulla fiancata il Kater. Decine di persone annegano nelle acque gelate, donne e bambini per la maggior parte.
Dal 29 marzo, per qualche giorno, è il tempo delle lacrime di coccodrillo. Berlusconi va a Brindisi a fare le sceneggiata, dimenticando che il suo quotidiano (Il Giornale) è stato il più violento nella campagna razzista contro gli albanesi. Il governo farfuglia scuse confuse, e non ricorda le profetiche parole dell’Unhcr, l’organismo Onu che si occupa dei rifugiati.
Infatti, appena appresa la decisione del blocco navale, dalle Nazioni Unite erano arrivate pesanti critiche contro un’azione che mirava a fermare i profughi in acque internazionali. E’ bene ricordare che l’accoglienza dei rifugiati era un dovere per il governo Prodi, in ossequio alla Costituzione (art. 10) ed ai trattati internazionali.
Il 30 marzo, domenica di Pasqua, i primi superstiti giungono a Brindisi. Alcuni parenti delle vittime urlano “italiani assassini” di fronte alle telecamere. E’ il momento di massimo sconcerto anche per i razzisti più duri. Rimane imperturbabile solo il vertice della Marina militare: l’ammiraglio Mariani spiega ai giornalisti che la colpa è degli irresponsabili albanesi, “perché sono loro che sono venuti addosso a noi”.
Ma anche i volti commossi e le facce corrucciate mostrati subito dopo la tragedia erano falsi ed ipocriti, e la prova è nei dati riassunti nella tabella: l’Adriatico e gli altri mari che circondano l’Italia continuano ad essere mari della morte, anche senza speronamenti e stragi di massa. Uguale discorso per i mari greci e spagnoli. Purtroppo, lo stillicidio di naufragi non interessa i media né il governo italiano, troppo impegnato a predisporre i mezzi più efficaci per le espulsioni e per la “blindatura” delle frontiere.
A novembre, a circa sette mesi dalla strage, le salme sono state recuperate e trasportate in Albania, per i funerali svolti alla presenza della autorità albanesi ed italiane. Si è detto da più parti che è stato questo l’epilogo delle vicenda.
Non è vero, la strage non è finita. Poco più tardi, il 21 novembre, avviene l’ennesimo naufragio nel basso Adriatico. Due gommoni affondano, cinque albanesi muoiono, undici sono dichiarati dispersi ed altrettanti sono i superstiti. Partiti da Durazzo, sono rimasti per quattro giorni in balia del mare in tempesta. Una imbarcazione si è danneggiata già a poche ore dalla partenza, e quando i soccorsi sono giunti hanno trovato solo pochi superstiti stremati dalla fame e dal freddo. Tra le vittime una bimba di cinque anni morta di freddo tra le braccia della madre, aggrappata come gli altri al relitto del gommone. I sopravvissuti hanno denunciato atti di sciacallaggio da parte del traghettatore e l’omissione di soccorso da parte di alcune navi: “ci avevano avvistati ma nessuno si è fermato”.
3.3. Adriatico mare della morte
Gli albanesi deceduti nella serata del primo dicembre 1995 sono affogati quando il sogno era a portata di mano e già si vedevano le luci della costa salentina. Un’onda più violenta delle altre ha sbriciolato la barca lunga sei metri ed ha gettato in mare 22 persone. Due sono morti, cinque sono riusciti a salvarsi, gli altri sono stati dichiarati dispersi.
“Ognuno pensava per sé”, ha affermato uno dei superstiti, che è rimasto avvinto per otto ore ai resti del gommone distrutto. Insieme ad altri quattro compagni è stato individuato e tratto in salvo dalla nave militare tedesca “Köln”, quindi è giunto con gli altri al centro di accoglienza di Otranto.
Limi Balabani, 24 anni, un altro dei superstiti, racconta quei momenti: “Aiuto, Dio mio, dicevano [gli altri], qualche imprecazione e si staccavano da noi che non potevamo fare nulla per loro. Uno dopo l’altro. Io non li conoscevo, non li avevo mai visti prima di giovedì quando ci siamo imbarcati per l’Italia. Io sono stato fortunato e ringrazio Dio”.
E’ difficile capire cosa succede, quando si rimane sospesi tra la vita e la morte. “Non so cosa sia successo, è accaduto tutto all’improvviso, siamo caduti insieme tutti in mare. L’acqua era fredda, è stato davvero un miracolo che sto qui a raccontarlo”.
E’ lunghissima la lista dei morti nel canale di Otranto. Tra le tante tragedie: il 31 dicembre del 1992 una imbarcazione si scaglia contro una scogliera: muoiono 9 albanesi ed un greco, solo una persona si salva.
Nella notte tra mercoledì 12 e giovedì 13 ottobre del ’94 l’ennesima tragedia, a dieci miglia nautiche a sud-est di Capo d’Otranto. L’imbarcazione di un gruppo di albanesi naufraga, giungono i mezzi di soccorso, che traggono in salvo 13 persone e recuperano i cadaveri di due donne. I dispersi sono circa 10 (tra cui un bambino), quasi certamente morti in mare. Il gruppo aveva lasciato l’Albania nella tarda serata di mercoledì, nella speranza di raggiungere le coste del basso Salento, con una barca in vetro-resina di sette metri, dotata di motore fuoribordo, ma senza alcun mezzo di salvataggio.
Contemporaneamente viene salvata un’altra imbarcazione, che rischiava di affondare con 25 albanesi a bordo. Il trafficante, avvertita la tragedia imminente, aveva chiamato i soccorsi col suo cellulare. Mezzi civili e militari pattugliavano la zona col mare in tempesta. Dopo alcune ore (il tempo è stato perduto a causa della segnalazione sbagliata) venivano individuate le due barche. Per alcuni la salvezza, per altri era già troppo tardi.
Il 18 ottobre del 1994 vengono ritrovati sulla spiaggia delle Cesine, nei pressi di Otranto, i resti di due neonati semi-sepolti dalla sabbia. Si tratta probabilmente dell’unica, drammatica traccia di un naufragio di kurdi di cui nulla si è saputo.
Alla fine del 1995 altri morti albanesi: un gommone affonda il 30 novembre (trascinando con sé 19 persone), un altro si incendia l’11 settembre (15 morti). La tragedia è stata causata da un tentativo maldestro di segnalare la propria posizione, bruciando stracci bagnati di benzina. Tutto il gommone prese fuoco, ed i dodici superstiti riportarono gravi ustioni.
Il primo dicembre del ’95, un altro albanese è stato trovato in gravissime condizioni sul litorale tra Torre Vado e Santa Maria di Leuca. Era caduto sugli scogli mentre sbarcava da un gommone.
La notte di giovedì 25 aprile 1996 6 cingalesi sono stati inghiottiti dal mare nel basso Adriatico, al largo di Vieste. Nei giorni successivi erano ancora ufficialmente ‘dispersi’, ma le ricerche condotte dai mezzi della capitaneria di Bari e dagli elicotteri dell’aeronautica non hanno dato esito.
I 14 superstiti hanno raccontato l’accaduto ai militari della Marina olandese, agli uomini della polizia di frontiera di Bari e della Capitaneria di porto.
Durante il naufragio, sono giunti miracolosamente dei mezzi di soccorso, un gommone di salvataggio sul quale salivano 13 uomini ed una donna. Altri quattro uomini e due donne, invece, non riuscivano a salvarsi.
Pochi giorni dopo la sciagura, la Procura di Foggia disponeva l’arresto di due italiani trovati su una nave russa nella zona del naufragio. Per i due, oltre alle solite accuse di omicidio plurimo e di introduzione di clandestini, anche quella di omissione di soccorso.
3.4. Lampedusa e Pantelleria
Queste storie sembrano tutte uguali ma non lo sono. Ognuna raccoglie dinamiche e speranze diverse, sentimenti come la solidarietà istintiva della gente di mare: i pescatori siciliani sempre più spesso impegnati – anche di notte e col mare in tempesta – in drammatiche operazioni di soccorso. Il 7 marzo del 2002 una barca carica di migranti si rovescia nel canale di Sicilia, 72 miglia a sud-est di Lampedusa.
Un elicottero militare imbarcato sul pattugliatore Cassiopea aveva avvistato una piccola imbarcazione di una decina di metri. Era notte fonda, ma l’allarme permetteva all’unità ed al motopeschereccio Elide di tentare il soccorso.
Sembrava una conclusione felice, con l’Elide che provava a trainare la barca. Le onde proprio in quel momento rovesciavano la barca, generando una tragedia. I pescatori riuscivano a trarre in salvo una decina di persone, almeno 60 sono morte in mare.
Altri due migranti erano stati salvati dalla Cassiopea, e il mattino dopo tutti venivano soccorsi alla guardia Medica di Lampedusa.
Nelle stesse ore l’unità militare e alcuni pescherecci procedevano al triste lavoro di recupero dei cadaveri. Triste anche il lavoro di stima dei morti destinato agli uomini della Capitaneria di Porto e raccolto dei giornalisti.Erano 60, le persone a bordo? Erano di più? C’erano donne e bambini? E soprattutto, quante speranze ci sono di salvare i dispersi?
Quando interrompere i pattugliamenti e dichiarare che non c’è più nessuna speranza?
***
Venti ottobre 2003. Ennesima strage, ma stavolta i raccapriccianti racconti dei soccorritori e dei sopravvissuti commuovono per qualche giorno la tele-platea: al largo di Lampedusa, un moto-peschereccio incrocia un barcone alla deriva, al cui interno vedono “scene da inferno dantesco: cadaveri e corpi scheletriti, donne assiderate e disidratate, uomini devastati dalla fame incapaci anche di parlare”.
Spaventosi anche i racconti dei sopravvissuti del “viaggio dell’orrore”: “gettavamo in mare i corpi, con alcuni ci coprivamo per difenderci dal freddo”.
Il sindaco di Lampedusa Bruno Siragusa lancia un appello: “Aiutateci siamo in emergenza. Sull’isola mancano pure le bare”.
Poi i soccorsi per i sopravvissuti, i pescatori aiutati da una unità militare. Quindi, per le tredici vittime somale, i funerali a Roma.
***
Qualche giorno prima, sempre nei pressi di Lampedusa un piccolo scafo in vetroresina era stato avvistato da un aereo della Marina Militare.
Dall’isola erano partite altre unità della Guardia costiera, ed ha partecipato ai soccorsi anche la nave “Chimera”, della Marina militare, che incrociava nel Canale di Sicilia.
Secondo una prima ricostruzione, quando le due motovedette si sono avvicinate, gli immigrati hanno cominciato ad agitarsi per la gioia, o per rendersi più visibili, ma l’imbarcazione, in pessime condizioni, non ha retto l’eccessivo movimento e si è capovolta.
Il bilancio fornito dai superstiti parla di sette morti: 3 bambini e 3 adulti che avrebbero cercato di raggiungere a nuoto un mercantile in transito, ed una donna recuperata dalla nave della Marina militare.
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Nella tarda serata di un venerdì d’agosto, il primo agosto del ’97, un nutrito gruppo di tunisini era quasi riuscito a raggiungere l’isola di Pantelleria. A poche miglia dalla costa, il naufragio.
Tre di loro sono stati subito ripescati, identificati e restituiti alle famiglie. Gli altri cinque sono rimasti in acqua per quindici giorni. I cadaveri decomposti sono stati posti nell’obitorio di Pantelleria.
I carabinieri hanno fotografato i resti, hanno messo insieme le foto e le hanno spedite a Palermo. Al consolato tunisino erano intanto giunti i parenti delle vittime, per il riconoscimento. Dopo la visione delle fotografie, la procura di Trapani (competente per territorio) ha finalmente autorizzato il rimpatrio delle salme, per la sepoltura. I resti sono giunti in Africa con un traghetto di linea partito da Trapani.
Tra i morti c’era Mohamed Boughnahmi, cieco. Cercava di raggiungere l’Italia per operarsi. Avrebbe di certo voluto farlo per vie legali, ma le leggi europee non glielo hanno permesso.
Il naufragio si è concluso con 8 vittime e 32 superstiti, tra cui il comandante ed il direttore di macchina del battello: i due sono stati rinchiusi nel carcere di Marsala (nei pressi di Trapani) con l’accusa di omicidio plurimo, naufragio colposo e agevolazione dell’immigrazione clandestina.
L’isola di Lampedusa si trova a sud della Sicilia, più giù anche rispetto alla Tunisia, ed è il primo lembo d’Europa che incontra chi viene dall’Africa. Gli sbarchi sono continui, e la sorveglianza militare viene continuamente rafforzata. La mattina del 26 aprile 1996, 14 persone sono sparite nel mare di Lampedusa, naufragate nel tentativo di raggiungere la terraferma.
Dal giorno successivo una motovedetta della Guardia di finanza si è attivata per cercare i superstiti, o almeno i cadaveri. Successivamente sono entrate in azione altre unità militari, ed anche numerosi pescherecci. Ma solo il corpo di un uomo è stato ritrovato, gettato dal mare sull’isola, in contrada Baia Galera. Per gli altri, nessuna possibilità di soccorso visto che il forte vento impediva l’uso degli elicotteri. Il gruppo di nordafricani era partito da Sfax, sulla costa tunisina. Cinque i superstiti, ospiti per un notte nell’albergo “Vega”, a spese dell’amministrazione comunale.
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Gli affondamenti avvengono talvolta in acque internazioni, a metà strada per così dire, e questo rende spesso impossibili i soccorsi.
Il 30 giugno del 2003 una strage spaventosa, una nave con 250 immigrati a bordo affondava al largo delle isole Kerkenah, di fronte alla Tunisia.
Venti morti accertati, ma 190 dispersi e 41 persone salvate dei soccorsi nei giorni successivi, con un mare in tempesta. La nave era diretta in Italia.
3.5. Immigrati a Puntasecca
La spiaggia di Puntasecca ha un fascino particolare: acque cristalline, sabbie rosse e finissime ed il vento incessante che crea e sposta piccole dune ricordano che siamo nell’ultimo lembo dell’Europa e nel primo del Nord Africa. Siamo nella parte meridionale della provincia di Ragusa, o – se preferite – a sud di Tunisi.
Negli spacci di Scoglitti – cemento disordinato e seconde case costruite coi proventi dell’“oro verde”, le primizie da serra esportate in tutta Italia – si trovano salse piccanti e cuscus direttamente prodotti in Nord Africa. Marocchini e tunisini sono parte importante della popolazione e componente fondamentale della forza lavoro super-utilizzata nelle serre di Vittoria che rendono questa zona tra le più importanti per l’economia della Sicilia.
Qui – su queste spiagge “africane” rese celebri dai tele-sceneggiati di Montalbano – nel settembre del 2002 si sono consumate tragedie da film horror.
Cadaveri trascinati in spiaggia a tarda sera dalle onde, gonfi e putrefatti. L’attesa estrefatta di pescatori, abitanti della costa e marinai. Forse per la vicinanza con la Tunisia, forse per punti di appoggio in luogo, questa zona era stata scelta dagli scafisti tunisini come un punto di sbarco preferenziale.
Il 24 settembre del 2002, uno scafista abbandona in mare, a 300 metri dalla spiaggia di Scoglitti un carico di tunisini.
Dopo mezzogiorno, il vento di scirocco è diventato ponente forte e le onde si sono levate alte impedendo l’attracco alla battigia di Costa Fenicia.
Muoiono 14 immigrati, i cui corpi vengono ritrovati a 40 chilometri da Ragusa, mentre una cinquantina di loro si salva. Lo scafista viene arrestato in mare mentre tenta la fuga in direzione di Gela.
Come detto, nei giorni successivi, il mare restituirà alcuni dei corpi dei dispersi. I sommozzatori dei Vigili del fuoco, più altre imbarcazioni ed elicotteri hanno condotto ricerche per diverso tempo.
I superstiti sono stati portati in Commissariato ed identificati. In genere, a loro è riservato un destino di detenzione nei centri di permanenza a Caltanissetta, con schedatura e successiva espulsione.
Per sfuggire a questo destino, alcuni hanno preferito la clandestinità, incamminandosi per le campagne o nascondendosi presso connazionali.
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Il primo maggio del 2003 una paradossale e lugubre vicenda ha come protagonista un cadavere alla deriva avvistato al largo di Lampedusa da un peschereccio tunisino.
“E’ sconcertante che, a poche miglia dalle coste italiane, si consumi un simile rimpallo di responsabilità tra Paesi che, non avendo potuto impedire l’ennesima morte in acqua, non riescono a mettersi d’accordo neanche per il recupero del corpo”, afferma il deputato della Margherita Donato Mosella in una interrogazione al ministro dei Trasporti.
Si riferisce al rimpallo di responsabilità tra Roma e La Valletta, che si attribuiscono a vicenda ripetutamente il compito di ripescare il corpo di un immigrato che tentava di attraversare il canale di Sicilia ed era morto in mare.
Nel frattempo, 167 clandestini sbarcavano a Porto Empedocle, presso Agrigento e una ventina presso Punta Secca, a sud di Ragusa. Si trattava in quest’ultimo caso di 17 palestinesi e cinque iracheni.
3.6. Le tragedie sfiorate
Il 25 aprile del 1996, presso Siracusa, un mercantile libanese andava a fuoco. La tragedia viene evitata: sarebbe stata immensa, visto che a bordo c’erano 275 immigrati e 12 marinai. La causa dell’incendio era un missile tracciante sparato dalla vigilanza costiera.
Oltre alle tragedie avvenute ci sono quelle sfiorate: non avvenute per caso, per una serie di coincidenze e – in qualche caso – per l’arrivo di soccorritori.
L’11 agosto del ’95, un gruppo di 26 albanesi in difficoltà nel canale di Otranto è stato tratto in salvo da una motovedetta della capitaneria di Porto. Nello scafo c’erano anche due bambini di pochi mesi.
Nel gennaio del ’97, una nave turca scarica 31 persone nell’isola di Rodi. A causa del mare in tempesta non era possibile continuare il viaggio. Gli immigrati, per 24 ore, rimangono soli e senza aiuti.
Alla fine di maggio dello stesso anno, la motobarca “Manyolia 1” viene salvata dall’affondamento sulla costa salentina. Alcuni dei passeggeri sono già feriti o intossicati dai vapori della sala macchine. Ci sono in tutto 154 persone, in prevalenza pakistani, ma anche kurdi e burundesi. Un metro quadro di spazio a testa, migliaia di dollari pagati ai traghettatori della mafia turca, infine la vita salva per miracolo.
Il 5 giugno una vicenda dai contorni poco definiti: in provincia di Catanzaro, al largo di Botricello, la Finanza intercetta la motonave “Salimah”, che batte bandiera libanese, proviene da Cipro e trasporta 250 kurdi digiuni da almeno 24 ore. In 50 si gettano in mare per evitare la cattura: solo 12 saranno recuperati. Gli altri o sono riusciti a sbarcare in qualche modo o sono morti.
Molte volte i trafficanti abbandonano gli immigrati in mare, al minimo segnale di pericolo. Nella notte del 4 maggio ’95, 30 uomini vengono buttati in mare dai trafficanti, che così possono scappare. Avevano incrociato una motovedetta della Guardia di Finanza nel canale di Otranto.
3.7. Per i morti in silenzio
I dati riportati nella tabella “Dieci anni di tragedie” parlano di alcune centinaia di morti in 10 anni. Questa cifra è già drammatica, ma riguarda solo i naufragi accertati, cioè una piccola parte del totale.
Chi pagherà per i morti di cui non si sa nulla? Chi sarà chiamato a rispondere per coloro che se ne sono andati in silenzio, inghiottiti dalle onde? Per i naufragi citati, c’è almeno un capro espiatorio, qualche trafficante incriminato in un tribunale italiano.
Naturalmente, non saranno mai rivolte accuse agli eurocrati che vogliono blindare il benessere. Nessuno lancerà accuse contro le leggi xenofobe o contro militari troppo zelanti nell’applicarle.
Almeno per ora. Un giorno qualcuno dovrà rendere conto di queste morti e di quelle che verranno. E, continuando per questa strada, saranno quelli che oggi sono soltanto gli “extracomunitari disperati” ad alzare la voce e chiedere giustizia per tutti.
Giustizia per Mohamed che voleva operarsi in Italia, per i kurdi che sfuggono ai torturatori, per i trecento annegati nel naufragio di Natale e per gli uomini, le donne e i bambini uccisi in mare dalla corvetta Sibilla.
4. I profughi
Molti dei migranti che tentano di raggiungere le nostre coste sono profughi da paesi come il Kurdistan, e come tale sarebbero protetti dalle convenzioni internazionali in tema di rifugiati.
I provvedimenti sul diritto d’asilo, in linea con quanto avviene in altri paesi europei, si muovono invece verso una sostanziale impossibilità di accesso ai benefici di legge anche per chi sfugge da regimi oppressivi e situazioni di guerra. E del resto, ciò che è accaduto parla da sé.
4.1. Kurdi: l’“invasione” dei perseguitati
Sono partiti in 50 dalle città di Karkuk e Halbcha – nord dell’Iraq abitato dai Curdi perseguitati dal regime di Saddam Hussein, che nel 1986 uso le armi chimiche proprio contro queste località uccidendo decine di migliaia di persone e segnando la vita di tutti.
Ma l’Occidente che ha saputo scatenare o sostenere la guerra contro il dittatore ha pure negato – nel corso degli anni – l’accoglienza alle sue vittime. Ecco che l’unica speranza per questi profughi è un viaggio da “clandestini” dal costo esorbitante. Dal nord iracheno a Smirne, in Turchia. Il viaggio in mare si trasforma in una odissea ad eliminazione. Il mare in burrasca inghiotte decine di persone.
“Sono morti almeno in 53”, dicono i sopravvissuti. “ E’ il 20 gennaio del 2003. Una cinquantina di persone è il numero minimo per riempire una barca, altrimenti lo scafo nemmeno parte”.
Muoiono tutti tranne cinque superstiti e lo scafista greco avvistati in Adriatico dalla petroliera russa “Brother”. I curdi sono trasportati all’ospedale di Trifase, in provincia di Lecce, e ringraziano Allah per averli salvati. “Lo abbiamo tanto pregato in quei momenti. Ma quando abbiamo visto che la morte era salita sulla nostra barca abbiamo perso la speranza. In quel momento, ci siamo abbracciati e abbiamo gridato ‘Allah, sia fatta la tua volontà’. Adesso che siamo vivi ringraziamo Allah, ma la nostra non è vera gioia. Partire in 53, scappare tutti insieme e poi ritrovarsi qui in cinque è spaventoso”.
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Non è facile raccontare queste storie. Trovare parole non banali, sfuggire i luoghi comuni, rendere la specificità di ogni vicenda. Non è facile sfuggire al resoconto sterile, e ricordarsi che dopo il naufragio i superstiti sono persone, esseri umani la cui vicenda ha spesso assunto toni grotteschi e drammatici e non quelli del lieto fine.
Alcuni sono stati accolti e rifocillati, altri trattenuti in centri di permanenza, altri ancora piantonati in ospedali. A volte rifocillati con calore dalla popolazione, in genere del Sud Italia, altre volte guardati con diffidenza: “ora dobbiamo mantenere anche questi…”.
Nello specifico, i superstiti curdi sono profughi che fuggivano – in quanto oppositori politici e “minoranza” perseguitata – le angherie e i tentativi di sterminio di un regime che tutto il mondo ha definito dispotico e antidemocratico.
Per un incredibile paradosso che è anche una chiave di lettura della nostra epoca sciagurata, i curdi dicono di scappare sia dalla repressione di Saddam Hussein, sia dalla guerra a Saddam Hussein, che come al solito colpirà la popolazione civile. “Il fatto è che non si vede nessuna speranza”, qualunque cosa accada.
In teoria, per questo tipo di migranti si dovrebbero aprire senza problemi le porte dello status di rifugiato, riconosciuto dal diritto internazionale. Nella realtà, non è nulla semplice. Nemmeno superare lo sbarramento che vorrebbe loro impedire, nei letti d’ospedale, di parlare ad un giornalista e ricordare di essere carne e desideri, percorsi di vita e speranze, diritti negati in patria e diritti da acquisire in un Paese europeo.
Ascoltiamo il racconto dell’inviato del Corriere della Sera:
“Camera 108. Quattro letti e quattro curdi iracheni che invece che in ospedale sembrano finiti in carcere. Non sono imputati e non sono sotto sorveglianza. Sono uomini liberi. Eppure il vicedirettore sanitario, i carabinieri, il magistrato e persino una giovane suora che pretende di cacciarci fuori dall’ospedale, vorrebbero impedir loro di parlare e di ricevere visite. Peccato per loro che i curdi invece vogliano dire, raccontare, far capire.
Anche Lak il barbiere, che appare il più provato, e che quando viene servita la cena preferisce starsene steso sotto il lenzuolo, si sforza di parlare. Lak Juna ha 22 anni e fa il barbiere: per guadagnare un dollaro, che equivale a tremila dinari, deve fare seicento tagli di capelli, a cinque dinari l’uno.
Abdul Karim, 34 anni, lavora come tassista e ha una moglie e tre figli. Abdul ha il corpo e il viso segnato da cicatrici: non solo coltellate, ma anche il foro di un proiettile alla gola.
Dissentiva, si faceva sentire, veniva punito. Poi c’è Ali Azad, 19 anni studente, all’ultimo anno della scuola secondaria. Lui vorrebbe continuare a studiare, fare medicina all’università, magari in Olanda, o in Inghilterra. Infine ecco Aso Anur, vent’anni, panettiere, quello che sembra tener su il morale della camerata con una battuta, un sorriso, una fantasticheria sui Paesi che gli piacerebbe visitare.
Parlano tutti il ‘surani’, un dialetto, diciamo così, della zona di Sulaimaniya, la ‘capitale’ del Kurdistan che non c’è. Ma il nostro interprete, che è un professore di filologia semitica nato dalle loro parti, li capisce e ne ottiene subito la fiducia come un ‘fratello’.
Raccontano di essersi incamminati a piedi sulle montagne irachene e poi di aver proseguito in macchina fino a Smirne, in Turchia. Da lì, sono partiti in 53, con uno scafo in vetroresina che loro chiamano ‘yacht’ e che era guidato da due turchi. Spiegano che lo scafo non parte con meno di 53 persone, perché gli scafisti mettono in conto anche la «perdita» che subirebbero se l’imbarcazione venisse sequestrata. Disegnano il tragitto con una matita: da Smirne su un’isoletta greca dell’Egeo, «disabitata» dicono, dove dallo scafo sono stati fatti salire su un gommone. Il trasbordo consente di far prima. La portata di carburante di un solo scafo non è sufficiente a coprire l’intero tragitto e «l’alternativa sarebbe stata di dover attendere sull’isola l’arrivo del carburante dalla Grecia».
Cinque giorni e cinque notti di sete e di fame – Abdul dice ai medici di aver divorato dei biscotti inzuppati di cherosene – e l’illusione di avercela fatta. Poi, sabato scorso, la burrasca. E le onde che aggrediscono il gommone e sembrano quasi divertirsi a strappargli i passeggeri uno alla volta.
«Non finiva mai – dice Ali Azad -. Vedevamo i nostri compagni scaraventati in acqua a uno a uno, da una parte e dall’altra, come catturati da un pendolo infernale. Si sono staccati persino i motori. Non so come siamo riusciti a resistere.
Piangevamo e pregavamo». Ma non sarà nemmeno questa strage a fermare quelli come loro. «Tutti noi, adesso, scappiamo sia da Saddam, sia dalla guerra a Saddam», dicono.
«Perché la guerra al raìs potrebbe andar bene se a farne le spese non fosse il popolo iracheno. Ma invece accadrà che a pagare saranno ancora una volta gli innocenti».
E là in Iraq sembrano esserne convinti, se è vera quest’altra rivelazione dei sopravvissuti:
«Centinaia di migliaia di persone scapperanno dall’Iraq. Anzi, decine di migliaia sono già scappate e hanno già raggiunto la Turchia, dove aspettano solo il loro turno per imbarcarsi. Non vedono speranza, capite?, e quindi si giocano tutto». Dice Abdul: «Certo che non vorrei che mia moglie e i miei figli mi raggiungano qui con un viaggio come quello che ho fatto io. Ma mi chiedo anche cosa succederà se resteranno lì. Li rivedrò, vivi, un giorno?».
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La sera di una domenica di mezza estate, il 24 agosto 1997, circa 460 immigrati asiatici sbarcano sulla costa di Badolato, un paese della costiera jonica catanzarese. Tra loro ci sono 266 kurdi, provenienti dalla Turchia e dall’Iraq.
I giornali gridano all’invasione. La questura si allarma, dal Viminale arrivano precise indicazioni: non accogliere eventuali richieste d’asilo, procedere rapidamente con le espulsioni.
Già tre mesi prima, circa 200 kurdi sbarcarono a Guardavalle, sempre sulla jonica catanzarese, e trenta di loro chiesero asilo politico al governo italiano dichiarandosi perseguitati in fuga. Tutte le domande furono respinte. Si avviarono subito le procedure d’espulsione.
I “clandestini” di Badolato (oltre ai kurdi c’erano pakistani e cingalesi) sembrano suscitare allarme più sulle colonne dei grandi quotidiani, nei salotti televisivi e nelle sedi dei partiti che nella popolazione. A Badolato, in una zona dove certo i problemi non mancano, parte invece una vera e propria gara di solidarietà.
I profughi – oltre 70 i bambini con meno di 10 anni – sono stati accolti nelle scuole elementari e medie del paese, rifocillati ed assistiti non solo dai volontari delle associazioni ma anche da semplici cittadini. E’ solo uno dei molti segnali che indicano una solidarietà sentita da parte della società civile meridionale: a Monasterace, all’estremo nord della provincia di Reggio Calabria, i 240 kurdi sbarcati all’alba del 19 novembre sono stati accolti con calore ed ospitati nella locale scuola, dove sono quotidianamente assistiti dai volontari.
A luglio, 65 profughi kurdi sono stati ospitati a Lamezia Terme (Catanzaro) dalla cooperativa “Malgrado tutto”, in origine impegnata nel recupero di ragazzi tossicodipendenti e successivamente lanciata nel “business” dei campi di “accoglienza”, gestendo un appalto del famigerato campo “Arcobaleno” riservato a Comiso ai kossovari (finiranno sotto inchiesta per irregolarità) e quindi sempre a Lamezia un “Centro di permanenza temporanea” oggetto di lamentele per continui soprusi e cattiva gestione.
Tra i kurdi, arrivati in Italia con la speranza di ottenere asilo politico, ci sono muratori, studenti, infermieri, ingegneri. Alcuni hanno subito torture.
La borghesia locale, invece, si conforma al razzismo violento del Nord. Il quotidiano messinese “Gazzetta del Sud” – che “copre” l’intera Calabria – nei giorni precedenti lo sbarco di Badolato aveva pubblicato una serie di violenti editoriali dai toni xenofobi, comparsi in contemporanea su quello che fu il “network Monti”, la rete di giornali come “Il Tempo” e il “Resto del Carlino” da sempre vicina alle posizioni della destra.
Se la destra ama i toni forcaioli, dall’altra parte le parole hanno coloriture più morbide ma identici significati: dopo lo sbarco di Badolato, il catanzarese Massimo Mauro, deputato per l’Ulivo, ex calciatore, chiedeva ai ministri dei Trasporti e dell’Interno “il potenziamento e il coordinamento delle forze dell’ordine in materia di pattugliamento delle coste e d’avvistamento e controllo dei natanti in alto mare”. L’interrogazione, firmata anche dagli onorevoli Giuseppe Giulietti e Pietro Ruzzanti, lamentava l’eccessiva vulnerabilità delle coste calabresi e chiedeva se sia previsto un rafforzamento della guardia costiera, eventualmente con l’impiego dei militari di leva.
E i kurdi? In mezzo a tante preoccupazioni, in pochi hanno ricordato le persecuzioni, le torture, le esecuzioni, le carcerazioni e lo sterminio di una popolazione che in Turchia non ha neanche il diritto di usare la propria lingua e che in Iraq è stata sottoposta ad un autentico genocidio. E nessuno ha mai ricordato che le armi che l’esercito turco usa per sterminare il popolo kurdo sono le stesse che la Nato fornisce ai suoi alleati: tedeschi, statunitensi ed italiani i maggiori fornitori [v. per esempio Guerre & Pace Dossier “Dollari e cannoni – Come l’Italia arma la Turchia contro i kurdi“, giugno 1995].
Negli ultimi giorni del 1997, centinaia di kurdi sbarcano sulle coste calabresi. Momenti di imbarazzo per il governo italiano. Si riparla di diritto d’asilo. Ma dalla Germania arrivano urla di protesta: che nessuno entri in Europa ! A Soverato e Badolato la gente accoglie i profughi. Il governo turco promette agli europei: impediremo altri sbarchi.
4.2. Albanesi: “li prenderemo tutti”
Da un lato la campagna di stampa esemplificata dai titoli dell’Espresso e del Giornale (“più mafiosi/delinquenti che profughi”); dall’altra le decisioni del governo che contro ogni principio giuridico e di umanità procedeva alle espulsioni degli “indesiderabili” ed al blocco navale per impedire nuovi arrivi.
Tra febbraio ed aprile si era creata una sitazione disperata, una guerra civile vera e propria scoppiata all’indomani del crollo delle finanziarie. Ma nonostante ciò l’Italia ha negato il diritto all’accoglienza.
All’inizio di maggio, l’Acnur (l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) criticava pesantemente la politica italiana di respingimento dei profughi. Una voce del tutto opposta si è levata dal rappresentante italiano all’Onu. L’ambasciatore Fulci arrivava infatti ad affermare che “gli albanesi vedono la televisione e pensano che il nostro sia il paese del bengodi. Bisogna spiegargli invece che devono restare a casa per dare una mano alla ricostruzione del loro paese. […] Sono clandestini, non persone che fuggono persecuzioni religiose, repressioni politiche, guerre guerreggiate. Non vedo perché l’Italia dovrebbe assumersi l’onere di accoglierli…” [cfr. quotidiani del 7 maggio 1997].
L’ambasciatore, pur di eludere gli obblighi giuridici che impongono l’accoglienza dei rifugiati, ha negato sia le repressioni operate dal regime di Berisha (su cui esistono decine e decine di testimonianze) sia la situazione di guerra e di pericolo in cui era precipitata l’Albania.
A ferragosto il dibattito si riaccende. Il dramma dell’estate è l'”emergenza profughi albanesi”. Il governo propone di far slittare i termini del rimpatrio, suscitando le ire del Polo e della Lega. Non è assolutamente in discussione l’accoglienza: per tutti è scontato che debba essere negata. L’unico oggetto della discussione sono i termini per il ritorno dei profughi in Albania. Tra l’altro, il governo dell’Ulivo si è affannato a chiarire che la proroga serviva solo per rendere più efficace il rimpatrio, non derivava certo per ragione umanitarie. E la polemica prosegue con l’opposizione che grida al ‘ricatto di Tirana’ ed il governo che si affanna a mettere in chiaro che a decidere del destino dei profughi albanesi è il governo italiano, non altri.
Il ministro dell’interno Napolitano, alla fine di agosto, propone che i campi profughi si facciano direttamente in Albania. Quasi tutti i media scatenano la psicosi della fuga dell’albanese clandestino, destinato a rimanere in Italia. Si grida di fare in fretta, ogni minuto perso è un potenziale delinquente in libertà. Diecimila persone vengono descritte come un grande esercito di barbari invasori.
Al fine di evitare la ‘dispersione’ dei profughi e dei “clandestini” in attesa di espulsione, la Lega propone l’istituzione dei “campi di raccolta e di lavoro” per gli immigrati. La proposta di chiaro stampo nazista non suscita grandi reazioni. Al contrario, alcuni editorialisti iniziano a considerarla con una certa simpatia:
“Qualcuno ha proposto di organizzare campi di sosta e di lavoro in modo da esercitare un controllo più minuzioso su coloro che entrano in Italia e permettere l’espulsione di chi non è in regola. L’idea, ricalcata dai modelli dei civilissimi e democratici Stati Uniti, non è piaciuta. Anzi ha contribuito a riscaldare la polemica di Ferragosto.” [R. Berti, 17 agosto 1997, Il Tempo]
La polemica diventa sempre più aspra ed il governo si affanna a rincorrere la destra: “Albanesi, il Viminale insiste: ‘Riusciremo a prenderli tutti'” [titolo de “Il messaggero”, 20 agosto 1997].
L’ultimo giorno di novembre scade la proroga per il rimpatrio. Gli albanesi innalzano cartelloni e striscioni di fronte alle telecamere. Sono parole che rimangono nella memoria e nalla coscienza di tutti: “meglio morire che tornare in Albania”.
Il governo non si lascia commuovere. Si rivede la stessa tragedia del ’91, quando i poliziotti prelevarono i profughi e li costrinsero al rimpatrio. Allora il ministro degli Interni era il democristiano Scotti, adesso è un uomo del Pds. Ma nulla è cambiato. I metodi sono gli stessi, il risultato uguale. Anche la scia di rancore è identica alle esperienze precedenti: molti degli albanesi trascinati a forza sulle navi hanno giurato vendetta.
Il 22 dicembre, a pochi giorni dall’ennesimo Natale amaro per profughi ed immigrati, il ministro Napolitano dichiara che “in Italia non ci sono più profughi”, ed i pochi che eventualmente fossero sfuggiti alla cattura saranno rimpatriati presto.
4.3. Il diritto d’asilo e il protettorato italiano
L’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite afferma che “ogni individuo ha diritto di cercare e godere in altri paesi diritto dalle persecuzioni”. L’articolo 10 della Costituzione italiana afferma che “lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’esercizio delle libertà democratiche […] ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”.
Sono numerose le convenzioni internazionali che garantiscono il diritto d’asilo. Ma l’Europa ha deciso, da alcuni anni, di negare l’accesso a chiunque, compresi (come abbiamo visto) i kurdi torturati dalla polizia turca e gli albanesi che scappavano dalla guerra civile.
Fatos Nano, il premier albanese, ha chiarito in una lunga intervista a Repubblica [10 dicembre 1997, 15] come funzionano le cose nel nostro continente: “qualche poliziotto forse avrà esagerato con le mani, ma l’Italia ha fatto ciò che doveva: gli albanesi dai campi se ne devono andare. Gli accordi sono accordi. I miei concittadini devono impararlo se vogliono entrare in Europa”.
Nano chiarisce anche quali aiuti sta fornendo l’Italia: “ci sta aiutando moltissimo con esperti militari e di polizia, con programmi di collaborazione in tutti i ministeri chiave”.
La tipologia del rapporto viene definita in maniera inequivocabile: “L’Italia è un paese europeo. E l’Albania ha bisogno esattamente di un protettorato europeo per ricostruire le proprie istituzioni. Se la penetrazione italiana nei nostri ministeri è capillare significa che è efficace. Dimostreremo di essere capaci di accettare ‘protezione’ per diventare rapidamente un paese della Ue”.
Nano aggiunge che il programma di aiuti prevede anche la ricostruzione degli edifici, anche perché “gli unici ancora decenti qui sono quelli costruiti sotto il fascismo…”
5. I poveri
L’Europa di Schengen è un universo su misura per i ricchi. Di conseguenza, può spostarsi liberamente solo chi ha sufficiente denaro. Le leggi in materia d’immigrazione sono informate a questo aberrante principio.
Nell’Europa dei banchieri, gli affetti e i sentimenti vengono dopo il denaro. Nell’Italia di Dini, Prodi, D’Alema, Berlusconi gli immigrati hanno diritto al ricongiungimento familiare solo se dimostrano di possedere una casa ed un reddito da mezzo milione fino ad un milione e mezzo, a seconda dei familiari da accogliere.
Ovviamente, questa logica produce odi e rancori, ingiustizie e – talvolta – disperazione. La strage di Luxor (gli integralisti egiziani che uccidono i turisti) e l’affondamento degli albanesi (la corvetta Sibilla che sperona la nave dei profughi) sono probabilmente due facce della stessa medaglia, due episodi opposti ed uguali, prefigurano un mondo chiuso e violento. Anche se apparentemente non presentano legami diretti, sono due mentalità che si alimentano a vicenda.
I principi del diritto non valgono per chi è povero. Le grida dei garantisti non si levano per gli immigrati. E così una vecchia legge promulgata sull’onda di una delle tante “emergenze immigrazione” pompate dei telegiornali prevedeva l’espulsione anche per persone “abitualmente dedite a traffici delittuosi” (?), con la sola possibilità di un ricorso al pretore che decide entro 10 giorni.
Per gli espellendi, venivano istituiti i famigerati “centri di permanenza temporanea” sorvegliati dalla polizia.
L’Unione Europea ha spesso preso iniziative anno contro il razzismo. Molte associazioni hanno da allora usufruito dei fondi europei per iniziative di facciata e di rara inutilità, ed alcune sono arrivate a gestire in prima persona i campi di permanenza, spesso in maniera criminale.
Molti gruppi impegnati sui temi dell’immigrazione (dall’Arci fino a tante aggregazioni locali) hanno da allora scelto la strada del silenzio e della rinuncia alla politica, per poi scoprirsi improvvisamente “no-global”, senza però la possibilità di recuperare subito il tempo perduto a giocare al “progettificio”, quando l’apoliticità e l’appiattimento filo-governativo diventavano di fatto pre-condizione per l’approvazione dei progetti.
Finora in pochissimi hanno avuto il coraggio di dichiarare che un partito xenofobo come la Lega non deve avere diritto di cittadinanza in un sistema democratico.
Le violenze contro gli immigrati, il respingimento dei profughi, le stragi dei naufraghi, le campagne xenofobe dei media hanno scandito gli ultimi anni, e sono state spesso alimentate e legittimate dalla politica.
L’Unione Europea ama prendere iniziative d’immagine, finanziare progetti gonfi di buoni sentimenti. Da un lato le iniziative formali contro il razzismo, dall’altro le leggi razziste e l’Europa-fortezza. Belle parole e fatti orrendi.
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“Non ci sentiamo granché tranquilli vedendo i centri storici delle nostre belle città invasi da marocchini, slavi, sudamericani […], guardando le periferie delle città, grandi o piccole poco importa, trasformate in bivacchi ed accampamenti di gente senza scrupoli pronta ad uccidere per una manciata di spiccioli” [R. Berti, 17 agosto 1997, Il Tempo].
“Ai vù cumprà la Casa delle Libertà” [titolo di prima pagina a nove colonne del Tempo, 9 ottobre 2003, dopo la proposta di Fini di concedere il voto ai regolari].
Un titolo volgare e allarmistico ed uno dei tanti scenari apocalittici disegnati dai media italiani.
Alla fine del 2003, oltre che vittime del gigantesco “monopoli” dell’economia globale, gli immigrati diventano ostaggio e pedina del gioco politico italiano, che sull’emotività che la questione suscita nell’opinione pubblica provano a ridisegnare equilibri di governo: Lega da un lato, Alleanza Nazionale e Udc dall’altro si lanciano in una partita a scacchi in cui gli argomenti (gli sbarchi, il diritto di voto, il lavoro, la religione, …) non sono trattati in maniera razionale ma scatenando senza responsabilità le paure recondite delle persone (l’invasione, la civiltà, l’identità, l’aggravarsi della crisi economica,…).
Un fenomeno complesso viene ridotto a slogan e prese di posizione, dove più volte i telesalotti si popolano di razzisti ed antirazzisti che contrappongono luoghi comuni e banalità.
Tra i tanti temi meritevoli di discussioni approfondite e serie:
1) la laicità dello Stato, non confessionale rispetto a tutte le religioni, che non possono essere indicate come fondamentaliste solo perché diverse;
2) la diversità tra singole comunità (cinesi, albanesi, senegalesi, mauriziani, filippini, ucraini: mondi diversi che non è possibile catalogare grossolanamente sotto la rubrica extracomunitari);
3) la diversità di genere tra immigrazione maschile e femminile;
4) l’immigrazione di seconda generazione, ormai realtà ed impossibile da affrontare con gli strumenti tipici del primo impatto (non centri di accoglienza e permanenza, ma bambini che vanno a scuola, lavoratori che hanno diritto alla pensione, plurilinguismo, etc.);
5) il fenomeno della tratta, da analizzare nella sua complessità ma senza rinunciare ad affrontare il problema per non “criminalizzare l’immigrazione”;
6) alcune fasce “estreme” di immigrazione, come le prostitute straniere, le cui vicende reali sono del tutto diverse da quelle presentate dai media e non di rado espongono progetti di vita e sogni da realizzare.
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In uno dei suoi libri più belli, “Montezuma scopre l’Europa” [Ecp, 1992], Ernesto Balducci descrive lo sbarco di Colombo sull’isola di San Salvador: in quel momento grandioso e tragico c’è la storia di un fallimento, perché “l’uomo incontrò sé stesso e non si riconobbe“. La Storia sarebbe stata diversa se l’uomo venuto da Occidente “avesse riconosciuto sé stesso nell’indigeno nudo e inerme che si trovò davanti”.
Allo stesso modo, oggi l’uomo occidentale vede nel profugo kurdo e nell’immigrato marocchino un essere diverso, nemico, barbaro, distante. I poliziotti alle frontiere, i ministri dell’Europa, i razzisti della Lega incontrano ogni giorno sé stessi ma non si riconoscono.
Cinque secoli di storia e nulla è cambiato.