La vera misura antiterrorismo? L’inclusione

  L'Italia ha deciso di negare i documenti e quindi espellere "chi non ha diritto a restare". È una seria politica antiterrorismo? La biografia dell'attentatore di Berlino ci dice che la marginalizzazione lo ha portato verso il fondamentalismo. Il governo sta creando un bacino di persone che non potrà espellere e che sono destinate all'illegalità
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Anis Amri arriva in Italia nel 2011. La primavera araba apre le frontiere della Tunisia e l’intero paese ha voglia di vedere “cosa c’è dall’altra parte”. Prima, gli accordi col dittatore Ben Alì rendevano le partenze più difficili, bisognava almeno passare dalla Libia. La rotta era molto più lunga. Lampedusa, e quindi l’Europa, adesso sono proprio lì di fronte.

La stampa riporta una biografia complicata: dopo aver partecipato all’incendio di un centro d’accoglienza a Belpasso, vicino Catania, Amri trascorre cinque anni in Italia. Quasi tutti nelle carceri di Palermo e del capoluogo etneo.

Qui si sarebbe radicalizzato. In carcere. Poi la Germania e l’attentato di Berlino. Non proprio una pedina addestrata dal califfato. Piuttosto un emarginato che sfoga nel nichilismo e nella distruzione la sua frustrazione.

Pedine addestrate dal califfato? Piuttosto emarginati che trovano una risposta nel nichilismo

Il Wall Street Journal nota che le biografie dei terroristi hanno in comune un particolare: lo spaccio di stupefacenti. I piccoli crimini sono un tratto ricorrente. Uomini ai margini delle società europee  finiscono per essere attratti dal fondamentalismo. In vari modi: dai video su internet alle moschee di periferie. Fino alle carceri.

Sia la Germania che l’Italia hanno espulso Amri, ma senza successo. Perché? Nei discorsi da bar l’espulsione è una cosa da niente: “Li prendiamo e li portiamo al loro Paese”.

Ma nulla può avvenire senza accordi tra stati sovrani. Per prima cosa bisogna sapere dove riportarli.  In secondo luogo, a quale autorità consegnarli. Poi l’espulsione ha un costo, dal volo (di linea? Charter?) alla scorta. Per questo Unione Europea e Italia (insieme e separatamente) stringono freneticamente accordi con i paesi di provenienza, per rendere effettive e logisticamente realizzabili le espulsioni.

Un’espulsione dipende sempre dalla volontà di due stati sovrani

Nessun paese ha un particolare interesse a riprendersi cittadini che sono andati via. Gli emigrati sono una fonte di rimesse. Se sono criminali (o se lo sono diventati in Europa), l’interesse è ancora minore.

Allora i paesi europei offrono una contropartita in denaro, spesso nella forma di programmi di cooperazione. Dall’altra parte non ci sono quasi mai governi democratici, ma regimi “cleptocrati”. Che interpretano questi tavoli come un mercato: chiudere il rubinetto delle espulsioni significa aprire con più forza quello del denaro europeo, specie quando i politici sono sotto pressione.

Le espulsioni non sono procedimenti automatici e neutrali. In una intervista del 2012, Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio, mi disse che a volte “capita che un paese accetti cento irregolari subito, mentre un altro dica di poterne ricevere due al mese (o all’anno). Nel secondo caso si vuole segnalare un problema. Così gli espulsi entrano a far parte di una trattativa più ampia tra i due Paesi”. Non sono soltanto indesiderati, quindi. Possono anche diventare una merce di scambio tra Stati.

Siamo a un bivio. Includere o marginalizzare. Cosa ci conviene?

I Cie sono andati in crisi esattamente per questo. Nel limbo dell’espulsione che non avviene mai, diventavano gabbie senza una data di uscita. Gli uomini rinchiusi erano così disperati da lasciarsi andare all’autolesionismo. Le labbra cucite col filo di ferro hanno scosso l’opinione pubblica, ma sono solo un caso tra i tanti.

Adesso si torna indietro. I cittadini sono preoccupati dal terrorismo. È una domanda di sicurezza legittima. Ma i politici stanno rispondendo in modo sbagliato. Creando “clandestinità” ed espulsioni. Sarà utile nell’immediato a raccattare qualche consenso, ma produrrà i soliti effetti: una nuova fascia di emarginati destinato ai piccoli crimini. O peggio.

Siamo di fronte a un bivio. Includere (permessi di soggiorno, programmi seri di integrazione) oppure escludere (negare l’asilo e ogni altra possibilità di regolarizzarsi; creare Cie ed espulsioni che non funzionano).

Ci sono alcune nazionalità che storicamente non hanno accesso all’asilo. Chi ha difficoltà a ottenere un permesso di soggiorno finisce più spesso nella microcriminalità. La biografia italiana di Amri è fatta soltanto di carcere. Che non è servito a niente, ha solo peggiorato le cose. Se diciamo che è meglio includere, siamo spaventati dei costi. Ma, alla fine dei conti, non è più pesante il costo totale dell’esclusione?

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