Mi uccise la democrazia, non l’amaretto

  L'università, i baroni, i soldi e le angherie. Un racconto scritto - con qualche sforzo - dal punto di vista di un docente all'antica. Disprezza l'eguaglianza, ha bisogno di soldi, sfrutta studenti e assistenti. Ma non gli basta il denaro. Vuole umiliare chi proviene da ceti inferiori. Allora costringe i collaboratori alle pulizie e a fare liquori in casa. Quando scoppia lo scandalo decide di suicidarsi
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Ecco come fu. Tutta la vita trascorsi provando a ristabilire la distanza, ovvero la naturale separazione tra la classe alta e il ceto umile. Disprezzo l’orrendo miscuglio prodotto dalla democrazia. Odio l’idea di trovarmi accanto figli di domestici, contadini, idraulici. Ho sempre dovuto nascondere i miei sentimenti, per le orrende conseguenze del ’68. In quell’anno nero nacquero pratiche nefaste, che ogni anno si ripropongono. Quasi sempre a dicembre, nei corridoi delle facoltà, nelle aule. A volte anche nella mia.

E con odio li guardo. Sono sporchi, drogati, maleodoranti. Come i loro padri puzzavano di sterco e olio nero di macchine, così questi odorano di cannabis, vomito, alcolici. Occupano le università, non vogliono i privati. E non sanno che l’università è nostra. Sempre è stata privata, sempre sarà privata. Se talvolta innalziamo uno di loro, è solo per accrescere il nostro potere e dimostrare quanto sono incapaci, coi loro geni deformi e i loro crani dimezzati.

Il mio posto l’ho ereditato. Come è normale che sia. Mio padre avanza, nel corridoio di marmo. Parla in latino. L’eco di Roma, spada e bilancia. Millenni. Citazioni e poltrone di velluto rosso. Portoni di legno massiccio, atri solenni e colonne di antica foggia. Come pensate che qui possano entrare dei bifolchi, se non col terrore che appartiene agli estranei?

Non cederemo mai il nostro potere. Col Rotary e con la massoneria, abbiamo innalzato ostacoli. Con senso dell’appartenenza alla casta del privilegio, eleviamo ogni giorno le mura della fortezza. Lo facciamo anche per loro. L’innesto di sangue malsano nel corpo pieno di energie distrugge l’organismo. Dissi, di fronte a un giornalista pallido mandato dalla tv di Roma: «Il concorso lo vincono i figli dei docenti, perché naturalmente predisposti alla cultura». E risero, infami. Il collega Alberighi, che la pensa come me ma che preferisce vilmente mostrarsi democratico, provò a spiegare le mie parole: «Crescendo in un ambiente colto, i nostri figli apprendono più degli altri».

Cosa avete da ridere? I concorsi sono truccati, falsati, lo sappiamo, ma è una naturale difesa all’imbastardimento. Cosa volete che sappia di procedura penale chi è cresciuto in un appartamento di periferia, nel casolare di un paese di campagna, tenendo compagnia al padre in uno sporco negozio di elettrodomestici?

Mi padre era fascista, io non ho avuto il diritto a esserlo. Ho sempre dovuto fingere. Ma almeno il lusso, dovete concederlo. Non possiamo vivere in una casa popolare, spostarci in autobus, vestire maglioni sdruciti, come fanno i docenti sessantottini. Mia moglie ha voluto molte automobili, vestiti adeguati, una casa storica in centro, restaurata con gusto, una villa sul mare. Viaggi, gioielli.

Ecco: avanzo verso la cattedra. Questi studenti con gli occhi sporgenti, le camicie senza forma, l’abbigliamento preso ai saldi, li disprezzo, li scaccerei. Invece ascolto. E sono costretto a essere imparziale. In realtà boccio quanto più posso. Il giudizio insindacabile è l’unico strumento che ci resta per realizzare la selezione.

Ho bisogno di soldi, per mantenere il prestigio e la distanza. Alberighi ha una moglie di vent’anni più giovane, anche lui mi parla di denaro. È la prima volta che ci capita, è una pratica da bottegai. Ce ne vergogniamo, ma non ci ascolta nessuno. Alberighi ha una bella idea. Un centro di formazione per laureati, bestie che arrivano in massa e poi stanno anni e anni senza fare nulla. Soldi della Regione, abbiamo buoni amici. Formazione professionale, però di alto livello. Almeno diciamo così.

Affittiamo i locali, mettiamo gli assistenti all’organizzazione, in segreteria, qualcuno alle pulizie. Non li paghiamo. La distanza diventa più grande, il mio piacere aumenta. Li disprezzo. C’è un problema, le ragazze. Hanno vent’anni, sono fresche. Lucrezia è mia moglie, ma è avida, figlia di baroni, fredda. Non dovrei neppure paragonarla a quelle figlie di lavandaie. Però le desidero, sono troppo vicine. Io sono debole.

ARRSAP

È il nome dell’ente di formazione, si studierà diritto nei locali che abbiamo preso in comodato da un palazzo dell’arciprete. Non abbiamo vere spese. Gli insegnanti saranno i nostri collaboratori, giovani che ci ruotano attorno e che già lavorano per poco o niente. Pensano di costruirsi un avvenire, ma a quarant’anni piangeranno i tre lustri trascorsi come servi.

Le selezioni sono molto dure. Abbiamo allestito un’aula ad anfiteatro. Nel corridoio ci sono busti romani e lapidi con scritte in latino. La poltrona del docente è in stile settecentesco. La pedana solleva la cattedra dal terreno calpestato dai figli dei bottegai e dei bifolchi.

Uno piange e va via. Non si aspettava una traccia così difficile. Gli altri ridono mentre il compagno abbandona l’aula. Ma saranno felici per poco. Agli orali li umiliamo. «Pensi che qui sarai mantenuto? È un`area di parcheggio per pezzenti? Come ha fatto a laurearsi una bestia simile?».

Piangono e soffrono, finalmente capiscono. Ne selezioniamo quaranta, sono solo quelli i posti finanziati. Sono figli di nostri amici e belle ragazze. Alberighi mi ricorda che si tratta di modi di comportarsi antidemocratici, ispirati alla fratellanza aristocratica e finalizzati all’angheria. Pacche sulle spalle, sorrisi. Ho un solo fratello.

Uno ha rifiutato. Dice che fa il ricercatore di diritto costituzionale, non può pulire la sede. L’ho cacciato subito. Purtroppo temo che dovremo prendere un filippino, nessuno vuole pulire. È stata una sconfitta. L’ARSSA però funziona, incassiamo tanti soldi. Questa storia delle pulizie non riesco a digerirla.

Maria Paola è figlia di contadini. I genitori hanno un’impresa florovivaistica in provincia. Sono molto ricchi. La disprezzo, i suoi genitori vogliono farne un avvocato. Ma sono molto attratto da lei. L’ho invitata a casa, dovevo trovare una scusa. Maria Paola sa fare molto bene l’amaretto, ho detto a mia moglie. Era perplessa. Siamo a conoscenza dei rispettivi tradimenti, ma cerchiamo di mantenere le apparenze, di garantire le forme. Però tra noi una regola non scritta dice che la casa è territorio sacro.

Così Maria Paola ha proposto: possono venire anche due mie colleghe? Bene, ho confermato con trasporto. Ogni sera, d’inverno, dopo aver fatto lezione e sbrigato le pratiche di segreteria, suonano al mio citofono, alle 19. È un diritto feudale. Ieri Maria Paola mi ha tradito. Per un diverbio, una incomprensione stupida. Ha parlato con un giornalista. Domani tutti sapranno la storia dell’amaretto fatto in casa.

Finale

Il primo giorno è andato bene. I colleghi mi hanno salutato con rispetto, i sottoposti con timore. È accaduto il terzo giorno. Ormai ne parla anche la televisione. E i colleghi in corridoio. Ho sentito di sfuggita, secondo me c’è troppo alcol, secondo me c’è troppo zucchero. E risate soffocate.

Tra poco mi getterò dal quarto piano dell’Istituto. Scrivo queste poche righe per spiegare che non mi uccise la vergogna o quelle risate dei plebei, ma la democrazia, di cui sono l’ennesima vittima. E lascio la mia ultima volontà: che sulla mia lapide sia chiaramente indicato il nome del mio carnefice. «Lo uccise la democrazia», scrivete. Saluto tutti. E a tutti dico che non ho paura. Ho solo il timore di non morire sul colpo e di andarmente con  dolore.

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