Giusto salario, metodi di lotta, rapporti di forza. Parlando di caporalato e sfruttamento lavorativo, dovremmo discutere di temi sindacali. L’ordinaria cassetta degli attrezzi degli oppressi. Invece il dibattito è egemonizzato dai problemi degli agricoltori e dalle scelte dei consumatori.
Come possono i primi avere ricavi sufficienti, che non li portino ad approfittare di chi sta peggio di loro?
Come possono i secondi premiare le aziende virtuose e punire tutte le altre?
Domande lecite, ma non c’entrano nulla con lo sfruttamento. Sono un altro argomento. Per questi motivi:
- un agricoltore ricco può sfruttare come e più di uno povero. È quello che accade in molte aree del Nord Italia, dal Piemonte alla Toscana;
- un consumatore che trova produttori etici da cui fare la spesa, starà in pace con la sua coscienza. Ma senza con questo intaccare di una virgola un sistema strutturalmente fondato sullo sfruttamento.
Tre casi esempio. Quando l’etica si ferma ai diritti del lavoro
Uno. Un’impresa modello, pluripremiata, ecosostenibile. Si era inventata la vendita diretta – a impatto zero – di cestini di fragole agli impiegati del centro di Milano. Tutto fantastico, se non fosse che i lavoratori africani erano pesantemente sfruttati e insultati.
Due. Un panificio modello, specializzato nel riscoprire i grani antichi, nell’uso di pomodoro anti-caporalato e nell’attenzione alla qualità degli ingredienti. Peccato che il proprietario è stato denunciato e poi assolto per atteggiamenti anti-sindacali. Nulla di penalmente rilevante, è stato appunto assolto.
Tre. «Che cosa ci rende così buoni? Frutta a km0 maturata sulla pianta. Produzione artigianale e ricette della tradizione. Infine, “nessun tipo di additivo, addensante o colorante». Così si leggeva sul sito dell’azienda protagonista del processo noto come “Momo”. Al di là dell’esito giudiziario, il processo offre uno spaccato importante sul territorio tra Lagnasco, Saluzzo e Cuneo. Uno dei distretti agricoli più ricchi e organizzati d’Europa, capaci di produrre ed esportare tonnellate di frutta l’anno ma desiderose di presentarsi ancorate alla tradizione, come impone oggi il marketing.
La voce dei piccoli produttori
Esistono sicuramente molti produttori etici, fornitori dei GAS, persino “giovani agricoltori” che hanno fatto del lavoro in campagna una scelta di vita. Recuperano i grani antichi, rispettano i dipendenti, non usano anticrittogamici, praticano la vendita diretta a chilometro zero. Altri riscoprono antiche tradizioni, propongono produzioni “come una volta”, lavorano col biologico e scrivono sulle etichette “macinato a pietra”.
Esistono. Ma non sono, tuttavia, rappresentativi degli agricoltori italiani. I piccoli produttori italiani aderiscono in gran parte a Coldiretti. Per la precisione, 568.000 imprese agricole, che rappresentano il 52% di quelle iscritte alle Camere di Commercio.
In parole povere, la voce dei piccoli agricoltori italiani è quella di Coldiretti. E non dice cose piacevoli. In un comunicato del 10 marzo 2023, Coldiretti scrive sul suo sito ufficiale:
«Nelle campagne con l’arrivo dell’estate c’è posto […] per pensionati, studenti, disoccupati, percettori di Naspi, reddito di cittadinanza, ammortizzatori sociali e detenuti».
Come dire: in mancanza di migranti, usiamo le fasce deboli della popolazione italiana.
E quella dei grandi
Se questi sono i piccoli agricoltori, cosa dice la grande impresa agricola? In una intervista a Tv2000, il dirigente di Confagricoltura Caponi afferma che «la stragrande maggioranza del tessuto produttivo agricolo è costituito da imprese sane», che nulla hanno a che fare con il caporalato.
Tuttavia, aggiunge, «l’imprenditore agricolo spesso si trova pressato da un lato dalla GDO che scandisce tempi, regole e prezzi, dall’altro dai cicli biologici naturali che dettano i tempi delle lavorazioni agricole. Questo può metterlo in una situazione di debolezza contrattuale, nel momento in cui va a reclutare manodopera. Un problema molto attuale e urgente sia proprio la sempre crescente difficoltà da parte delle imprese agricole a reperire manodopera qualificata. Questo costituisce un ulteriore elemento di debolezza per l’imprenditore e può spingere a fenomeni distorsivi».
Una mezza ammissione, quindi. Ci sono i supermercati, le stagioni e le difficoltà. Tutti fattori esterni che portano verso la “distorsione”.
È curioso che nessuno, grande o piccolo che sia, immagini un modello diverso. E non accadrà mai, finché resterà disponibile un bacino di manodopera a costo zero a cui attingere, fosse anche soltanto la massa di richiedenti asilo “ospiti” dei centri d’accoglienza. O, in mancanza, “pensionati e detenuti”.
Meno grani antichi, più sindacato
Giusto salario, metodi di lotta, rapporti di forza. Parlando di caporalato e sfruttamento lavorativo, dovremmo discutere di temi sindacali. L’ordinaria cassetta degli attrezzi degli oppressi. Invece il dibattito è egemonizzato dai problemi degli agricoltori e dalle scelte dei consumatori.
Come possono i primi avere ricavi sufficienti, che non li portino ad approfittare di chi sta peggio di loro?
Come possono i secondi premiare le aziende virtuose e punire tutte le altre?
Domande lecite, ma non c’entrano nulla con lo sfruttamento. Sono un altro argomento. Per questi motivi:
Tre casi esempio. Quando l’etica si ferma ai diritti del lavoro
Uno. Un’impresa modello, pluripremiata, ecosostenibile. Si era inventata la vendita diretta – a impatto zero – di cestini di fragole agli impiegati del centro di Milano. Tutto fantastico, se non fosse che i lavoratori africani erano pesantemente sfruttati e insultati.
Due. Un panificio modello, specializzato nel riscoprire i grani antichi, nell’uso di pomodoro anti-caporalato e nell’attenzione alla qualità degli ingredienti. Peccato che il proprietario è stato denunciato e poi assolto per atteggiamenti anti-sindacali. Nulla di penalmente rilevante, è stato appunto assolto.
Tre. «Che cosa ci rende così buoni? Frutta a km0 maturata sulla pianta. Produzione artigianale e ricette della tradizione. Infine, “nessun tipo di additivo, addensante o colorante». Così si leggeva sul sito dell’azienda protagonista del processo noto come “Momo”. Al di là dell’esito giudiziario, il processo offre uno spaccato importante sul territorio tra Lagnasco, Saluzzo e Cuneo. Uno dei distretti agricoli più ricchi e organizzati d’Europa, capaci di produrre ed esportare tonnellate di frutta l’anno ma desiderose di presentarsi ancorate alla tradizione, come impone oggi il marketing.
La voce dei piccoli produttori
Esistono sicuramente molti produttori etici, fornitori dei GAS, persino “giovani agricoltori” che hanno fatto del lavoro in campagna una scelta di vita. Recuperano i grani antichi, rispettano i dipendenti, non usano anticrittogamici, praticano la vendita diretta a chilometro zero. Altri riscoprono antiche tradizioni, propongono produzioni “come una volta”, lavorano col biologico e scrivono sulle etichette “macinato a pietra”.
Esistono. Ma non sono, tuttavia, rappresentativi degli agricoltori italiani. I piccoli produttori italiani aderiscono in gran parte a Coldiretti. Per la precisione, 568.000 imprese agricole, che rappresentano il 52% di quelle iscritte alle Camere di Commercio.
In parole povere, la voce dei piccoli agricoltori italiani è quella di Coldiretti. E non dice cose piacevoli. In un comunicato del 10 marzo 2023, Coldiretti scrive sul suo sito ufficiale:
Come dire: in mancanza di migranti, usiamo le fasce deboli della popolazione italiana.
E quella dei grandi
Se questi sono i piccoli agricoltori, cosa dice la grande impresa agricola? In una intervista a Tv2000, il dirigente di Confagricoltura Caponi afferma che «la stragrande maggioranza del tessuto produttivo agricolo è costituito da imprese sane», che nulla hanno a che fare con il caporalato.
Tuttavia, aggiunge, «l’imprenditore agricolo spesso si trova pressato da un lato dalla GDO che scandisce tempi, regole e prezzi, dall’altro dai cicli biologici naturali che dettano i tempi delle lavorazioni agricole. Questo può metterlo in una situazione di debolezza contrattuale, nel momento in cui va a reclutare manodopera. Un problema molto attuale e urgente sia proprio la sempre crescente difficoltà da parte delle imprese agricole a reperire manodopera qualificata. Questo costituisce un ulteriore elemento di debolezza per l’imprenditore e può spingere a fenomeni distorsivi».
Una mezza ammissione, quindi. Ci sono i supermercati, le stagioni e le difficoltà. Tutti fattori esterni che portano verso la “distorsione”.
È curioso che nessuno, grande o piccolo che sia, immagini un modello diverso. E non accadrà mai, finché resterà disponibile un bacino di manodopera a costo zero a cui attingere, fosse anche soltanto la massa di richiedenti asilo “ospiti” dei centri d’accoglienza. O, in mancanza, “pensionati e detenuti”.
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