Pubblicato su “Dossier immigrazione 2021“
Premessa
Oltre 260 inchieste giudiziarie aperte dalle Procure di tutta Italia. È il risultato di cinque anni di applicazione della legge n. 199/2016 contro il grave sfruttamento lavorativo. Nata in seguito all’emozione per la morte di Paola Clemente e alla pressione della società civile, la legge è generalmente giudicata come efficace sul piano repressivo.
In particolare, permette di identificare il fenomeno sulla base di tre indici:
- salari palesemente difformi rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali;
- orari di lavoro eccessivi e mancanza di pause e ferie;
- condizioni igienico-sanitarie inadeguate e situazioni alloggiative non idonee.
Rispetto all’approccio delle leggi precedenti, il focus non è più sull’intermediazione illecita (il cosiddetto caporalato) ma sullo sfruttamento tout court. Inoltre, il grave sfruttamento viene perseguito anche in assenza di violenza e intimidazione, mentre in precedenza erano elementi importanti per arrivare a un processo.
La giurisprudenza parla sempre più spesso di “approfittamento dello stato di bisogno” per definire l’elemento chiave della schiavitù moderna. Quali sono gli esempi di “bisogno”? Per i migranti la minaccia più frequente è quella di perdere il permesso di soggiorno e – di conseguenza – essere espulsi insieme alla famiglia nel Paese di origine. In questo caso, la stessa legge “Bossi-Fini”, legando contratto di lavoro e permesso di soggiorno, crea le condizioni per lo sfruttamento. Come osserva Federico Oliveri [1], c’è un grave problema di coerenza dell’ordinamento. Da un lato, alcune leggi rendono ricattabile e vulnerabile la forza lavoro immigrata (la causa), dall’altro viene punito l’effetto, cioè l’uso da parte degli imprenditori di un bacino di persone “sfruttabili”. In numerosi processi, infatti, emerge che gli sfruttatori reclutano persone vulnerabili provenienti da luoghi di conflitto del pianeta.
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