Trovare un passeur, bruciare la frontiera, vincere la guerra. Per tanti giovani africani la vita è racchiusa in questi tre obiettivi. Individuare un trafficante che ti dia modo di partire, superare la distanza tra il pianeta della miseria e quello delle opportunità, vivere o morire in quella che è una personale lotta contro la miseria.
Nessuno è convinto di trovare il paradiso, o che sarà tutto facile. Ma tutti sono convinti che l’Africa può offrire solo una non vita. Dove non c’è la guerra c’è la corruzione, o una classe politica di ladri e arraffoni, o una società chiusa, tradizionalista, rassegnata, immobile.
Mamadou va a morire: bruciare la frontiera
Se non è miseria nera, comunque non ci sono opportunità e prospettive, se non quella di invecchiare tra la polvere e la noia dei tavolini all’aperto dei caffè, trascorrere gli anni migliori a vendere acqua fredda in sacchetti di plastica ai passanti, e poi strade polverose, piatti di riso o di cuscus, i proverbi sempre uguali dei parenti. Partire. Nessuno ignora i rischi che corre, e sempre ha nella testa le storie raccontate ed ascoltate mille volte.
Gente asciugata dal sole mentre attraversava il Sahara a piedi, uomini morti in fondo all’Atlantico nel braccio di mare che divide il Senegal o il Saharawi dalla Canarie, giovani neri uccisi dai proiettili delle guardie mentre saltavano le barriere tecnologiche del muro di Ceuta, eritrei sfracellati contro gli scogli mentre provavano a raggiungere Lampedusa dalle coste libiche, pachistani mangiati vivi dal sale nel fondo del Canale di Sicilia, profughi derubati dai poliziotti ad ogni cambio di frontiera, donne violentate da gendarmi, passeurs, compagni di viaggio, maliani rinchiusi nei campi del Senegal o del Marocco ed espulsi alla frontiera, che spesso è solo una linea infinita di sabbia bruciata dal sole impietoso.
Lo sa chi parte che i trafficanti non hanno pietà, e meno che mai le guardie ed i governi, europei ed africani, che giocano da anni un’amichevole partita di pallone, “e la palla siamo noi”, dice uno dei migranti respinto da un capo all’altro dell’Africa nord-occidentale. Lo sanno le donne che prima o poi capita, una violenza o una serie che non finisce mai, e c’è persino chi preferisce partire incinta, per evitare gli stupri, per intenerire la Guardia costiera italiana, per trasferirsi all’arrivo in ospedale ed evitare il CPT, per avere più tempo prima che arrivi l’espulsione.
I vincitori
Guardano gli adventurers, gli avventurieri, come sono chiamati da quelli che restano, la noia infinita dei villaggi, i bambini che crescono giocando a pallone nella polvere indossando la maglietta di Zidane, il lamento del muezzin, le donne sepolte nei veli. E vedono anche le ville a schiera, le parabole, le Fiat, le Renault e le Peugeot.
Sono “loro”. Quelli che tornano d’estate, ed iniziano tre mesi di racconti favolosi. Le periferie di Torino, lo stadio di Madrid, i viali di Parigi e Barcellona, le fabbriche che danno lavoro, le auto sempre nuove, i centri commerciali splendenti, le donne libere e bellissime si trasferiscono nelle parole e nei sogni di ogni villaggio. Spariscono in quei momenti i ricordi cupi, le ombre dei naufraghi, i musi lunghi dei falliti, quelli rimpatriati, respinti, riaccompagnati alle frontiere.
Quelli che alla vista dei “vincitori” vorrebbero sparire, e non di rado sprofondano nelle case, non vogliono uscire, si lasciano morire, ogni sguardo è condanna e derisione, un monumento al loro fallimento. Solo una piccola percentuale di immigrati in Europa arriva tramite gli sbarchi. La maggior parte giunge – da sempre – via terra e con l’aereo. La stragrande maggioranza giunge in piena regolarità e con i mezzi di trasporto più comuni, con un visto turistico stampato sul passaporto. Poi rimane, in attesa di una sanatoria.
Gli sbarchi sono la parte più televisiva, coreografica, drammatica, ed unitamente alle tragedie e ai naufragi sono la parte più visibile del “fenomeno”. Procurano sensi di colpa, lotte tra generosità ed egoismi, suscitano allarmi. Danneggiano per alcuni il turismo, ci ricordano che al mondo non tutti hanno da mangiare, che quello che per noi è banale e scontato per altri è un privilegio. Quelli che sbarcano sono dannatamente visibili.
Forse per un problema psicologico, forse per fini politici ed elettorali l’Unione Europea ha deciso che questa gente non solo non deve arrivare a nessun costo, ma soprattutto non deve più partire. Rimanga in Africa a sognare lunghe passeggiate negli Champs-Elysées, a tifare davanti a vecchi televisori per l’AC Milan o il Barcellona, a comunicare via Skype con le amiche francesi conosciute d’estate a Marrakech ma non vengano a toglierci il sonno con i loro naufragi, il lavoro con la loro voglia di farcela, i voti con le loro facce provate.
I progessisti
E per Unione Europea si intende l’area progressista, i governi della destra e quelli del centro. La Spagna di Zapatero, quello che a cui in Italia si inneggiava, viva Zapatero, è complice e sodale del Marocco nella militarizzazione della costa Atlantica e delle frontiere di Ceuta e Melilla, di fronte a Gibilterra.
Il Marocco incassa i lauti fondi della cooperazione allo sviluppo, i bravi cittadini spagnoli sono tranquilli e votano compatti la loro sicurezza, la Guardia Civil spara democratici proiettili di caucciù, la gendarmerie del re quelli di piombo, che ammazzano. I poliziotti derubano, violentano, picchiano. I camerunesi, i maliani, i ghanesi e gli ivoriani muoiono.
Essere migranti neri in Marocco non è oggi molto piacevole, ed il razzismo e la cattiveria gratuita, la crudeltà e la stupidità possono assumere forme molteplici, dimensioni complesse, in un mondo, che sia Europa o Africa, dove nascere povero è davvero una colpa irrimediabile.
Il libro “Mamadou va a morire” ha il grande merito di cambiare punto di vista. Abbiamo ascoltato per troppo tempo i rigurgiti di Le Pen, le ragioni di Zapatero, i grugniti di Calderoli, la rabbia futile della provincia settentrionale che vuole stare tranquilla o la lagna infinita gli albergatori di Lampedusa che vogliono cacciare i “turchi”, nemici giurati del bilancio della stagione balneare.
Disperati e no
“Mamadou va a morire” racconta le storie, le voci, le delusioni e le ragioni di quelli che tutti i telegiornali italiani chiamano senza riflettere “i disperati”. E alla fine capiamo che Mamadou, Omar, Paco, Walid e tutti gli altri e tutte le altre possono aver perso gli euro o i dollari arrotolati sotto la maglietta, il passaporto falso comprato al mercato nero, il biglietto che gli dà diritto ad una traversata rischiosissima sullo scafo in vetro-resina, uno o più figli morti di fame o finiti contro uno scoglio. Possono aver perso la ragione, la dignità, i ricordi ma c’è solo una cosa che perderanno prima della vita. La speranza. Per quella partono. A quella non rinunceranno mai.