Mafia di celluloide

  Cosa Nostra nel cinema: dal Padrino ai Cento Passi. Terminata l'emozione degli anni delle stragi, sembra che la mafia interessi sempre meno l'Italia. La cinematografia Usa ed alcuni registi del nostro Paese hanno rilanciato il tema negli ultimi anni, recuperando tematiche importanti e dimenticate e stimolando il confronto con la produzione dei decenni passati
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Da Chicago anni ’30 agli anni ’70 di Cinisi, da attori eccezionali all’emozione degli eroi civili delle lotte antimafia. I film di mafia sono ormai un vero e proprio genere, difficile contarli tutti, ed hanno proposto luoghi comuni e momenti di alta cinematografia, sono stati successi mondiali o pellicole per pochi, hanno narrato l’epopea della via violenta al capitalismo o hanno semplicemente raccontato un angolo di Sicilia o una storia semplice.

La mafia (e l’antimafia) è sparita dall’agenda politica e dalle inchieste dei maggiori giornali, eppure sopravvive nel cinema, dove l’interesse del pubblico e degli autori è sempre vivo.

Molti film hanno scopi puramente commerciali, altri banalizzano e semplificano. Tutti, però, al di là del valore artistico, del livello ideologico e delle buone (o cattive) intenzioni degli autori, sono spunto per qualche interessante riflessione.

Sommario

La cultura della morte

1. Il film southern

2. Il film impegnato

3. Il film (italo)americano

Stereotipi televisivi: la Piovra

I film sperimentali

La Calabria nel cinema

Schegge e variazioni sul tema

Bibliografia

Filmografia

La cultura della morte

Luna Rossa (2003) è il tipico film di qualità penalizzato dalla distribuzione. È un film estremamente interessante per almeno un motivo: narra una guerra di camorra attualizzando la tragedia greca.

Per la precisione, il regista rilegge l’Orestiade di Eschilo, un’opera che fece dire a Pasolini che si accingeva alla traduzione dal greco:
“Mi sono gettato sul testo, a divorarmelo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo, contro un infimo campo visivo” [Eschilo – Pasolini 1960].

Il titolo si riferisce al classico della canzone napoletana (“Sentivano una canzone, ‘Luna Rossa’, una canzone sul tradimento”), ma la trama ripercorre il testo classico: Oreste se ne va dalla famiglia per sette anni mentre i congiunti si scannano tra loro, mettendo in atto trame di sangue. I legami di sangue così come i delitti sono ripercorsi nella loro assurdità ed oppressività.

Immediato il pensiero al confronto col cinema italo-americano, dove la lunga teoria di assassini di un tipico film di mafia scorre via con la tranquilla naturalezza di un western. Uno sparo, un caduto. La morte è naturale e nulla fa pensare alla tragedia.

Capuano ci riporta alle radici della nostra cultura, dove la morte scuote la comunità, interroga le coscienze ed evidenzia i legami di sangue. Una morte è sempre un lutto da elaborare e le vittime di una (qualunque) guerra non sono equiparabili alle eliminazioni di un videogame.
L’oppressione claustrofobia della villa blindata della famiglia vincente, dove però il tradimento può annidarsi presso il parente più prossimo, evidenzia la sconfitta intrinseca del modello mafioso – sempre sull’orlo di una fine che può arrivare in qualunque momento – e richiama alla ribellione contro la cultura della morte.

Ben diverso il modello dei vari “Padrini”, dove gli uomini della famiglia finiscono per diventare eroi e lo spettatore non avverte alcun senso di ribellione.

1. Il film southern

Non tutti i film sulla Sicilia hanno come argomento la mafia, evidentemente. Ci sono pellicole derivate da romanzi ambientati in Sicilia (“Il Gattopardo” di Visconti è l’esempio classico), film di carattere storico (“Bronte” di Florestano Vancini), commedie, film sull’emigrazione, opere neorealiste e, negli ultimi anni, anche sperimentali.

Ma il filone numericamente più consistente è quello dei film di mafia, che molto schematicamente possono essere distinti in tre tipologie:

1. il film southern
2. il film impegnato
3. il film (italo)americano

“La mafia!” è il grido che scuote le persone cui appaiono, a cavallo e armati di fucile, figure nere e minacciose sullo sfondo del cielo. Sono apparsi all’improvviso sulla sommità di una collina; e se non fosse per il grido iniziale, si potrebbe pensare che il film “In nome della legge” (1949) di Pietro Germi sia ambientato nel selvaggio West americano.

Germi è genovese, il film lo gira nel ‘49: e per lui come per tanti settentrionali molto appassionati ma poco documentati, in quel periodo il Sud è la terra selvaggia dove la legge non esiste. Il film inizia con una voce fuori campo che con toni retorici ed enfatici, annuncia:

“Questa terra, questa sconfinata solitudine schiacciata dal sole, è la Sicilia. che non è soltanto il ridente giardino – aranci, ulivi, fiori – che voi conoscete o credete di conoscere, ma è anche terra nuda e bruciata, muri calcinati di un biancore accecante, uomini ermetici dagli antichi costumi che il forestiero non comprende. Un mondo misterioso e splendido, di una tragica e aspra bellezza”.

Il film deriva dal profondo amore di Germi per la Sicilia. Un amore che non porta alla comprensione: nonostante fosse stato girato in tempi di neorealismo, il film si ferma alla superficie e si abbandona al sentimentalismo. La storia è quella di un giovane pretore che giunge in un piccolo paese siciliano. Crede nella legge e sembra destinato all’inevitabile sconfitta cui corrisponde il trionfo mafioso.

Ma, in un finale inverosimile, il capomafia si toglie il berretto di fonte al giudice coraggioso e gli dice: – è ora di rientrare nella legge. Quindi se ne va a cavallo, alla testa dei suoi uomini. [Vittorio Albano, in Autori Vari 1993, 92 sgg].

Resta comunque uno dei pochissimi film a parlare dello sfondo sociale: la mafia è una criminalità d’ordine rispetto ai banditi comuni. E di questa struttura si serve il barone, una figura parassitaria intorno a cui ruota il potere del paese.

John Ford è il modello esplicito, sia per la struttura del racconto che per alcune scene. Ed anche la morale è quella tipica del western: pochi pionieri coraggiosi lottano contro l’illegalità per conquistare alla civiltà una terra selvaggia. Bene contro Male. E vittoria finale dei buoni.

Questa illusione già pochi anni più tardi viene a cadere: la cronaca non permette più finali consolatori e facili ottimismi. Il genere southern perde così i suoi tratti sentimentali, ma rimane lo stereotipo dell’eroe isolato che combatte il nemico: come nel western americano, le due parti usano gli stessi mezzi, la violenza dell’uno è uguale e contraria a quella dell’altro.
Il prefetto Mori è chiaramente l’eroe di questo modello, l’eroe dell’antimafia di destra, ed a lui è dedicato “Il prefetto di ferro” (1977) di Pasquale Squitieri: Mori è uno sceriffo tutto d’un pezzo, che però finisce sconfitto (con la nomina a senatore ed il trasferimento) anche a causa del regime che lui sostiene.

2. Il film impegnato

Il filone dei film d’impegno civile ha prodotto pellicole di valore diverso. Il migliore esempio è probabilmente “Salvatore Giuliano” (1961) di Francesco Rosi.
Il “secco cronachismo documentaristico di raro vigore drammatico” [Vittorio Albano, in Autori Vari 1993, 95] era il contrario del dramma sentimentale eretorico. Ne veniva fuori un durissimo atto d’accusa:
“E sarebbe bastato fare di Giuliano un personaggio, un triste e feroce megalomane mosso da mani abili, da precisi interessi padronali ed elettoralistici: politici, in definitiva. Relegandolo nell’invisibilità Rosi ha reso più dura l’accusa verso la classe dirigente che lo muoveva” [La Sicilia e il cinema, in Sciascia 1970].

Capostipite del genere “film-inchiesta” – che avrebbe conosciuto negli anni ’70 e ’80 il suo momento di massima popolarità – il film racconta la vita del bandito Salvatore Giuliano, seguace del separatismo e controverso eroe del popolo siciliano. Colpevole dell’assassinio di un carabiniere, Giuliano si nasconde nella campagna dell’isola ed ivi organizza una banda di fuorilegge, per arruolarsi, spinto da ideali politici maturati dopo la liberazione della Sicilia, tra le file dell’esercito separatista con cui porta in atto delle feroci scorribande in nome della libertà.

Il padre, il figliolo e lo Spirito Santo

Poi, quando il movimento viene sciolto, abbandonato dagli alleati e solo con i suoi uomini più fedeli, Giuliano torna a dedicarsi al brigantaggio macchiandosi di efferati delitti, che culminano nel massacro di Portella della Ginestra nel quale perdono la vita undici persone e ne restano gravemente ferite altre trentatré.

Da quel momento il governo istituisce un corpo speciale di polizia impegnato nella lotta al banditismo, per il quale Giuliano diviene il principale obiettivo: in breve, ogni uomo vicino al bandito è catturato od ucciso fino a quando, il 5 luglio 1950, egli stesso viene trovato morto davanti ad una casa di Castelvetrano.

Dopo la sua scomparsa si diffonderanno notizie del suo coinvolgimento coi principali gruppi di potere nella malavita organizzata, cui faranno seguito i misteriosi decessi di alcuni importanti uomini di mafia.

Il momento culminante del film è sicuramente il processo, in cui vengono ricostruiti minuziosamente i fatti. La denuncia più importante è quella di Pisciotta, fu pronunciata nell’aula del Tribunale e probabilmente fu anche la sua condanna a morte. “Siamo un corpo solo, banditi, polizia e mafia, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo”.

 

Il film di Rosi è solitamente contrapposto a “Il Siciliano” (1987) di Michael Cimino, che tratta lo stesso argomento (Giuliano) con stile e modalità del tutto opposte. Innanzitutto, la sceneggiatura: accurata fino al documentarismo quella di Rosi, generica, romanzata ed hollywoodiana la vicenda narrata da Cimino.

In Sicilia nel ’40, trasportando in una bara grano rubato per sfamare i poveri, Salvatore Giuliano e Pisciotta incappano nei carabinieri: Salvatore spara, ne uccide uno e fugge, inseguito, insieme a Pisciotta. Nella fuga rubano i cavalli dell’americana Camilla, duchessa di Crotone. Ma Salvatore è mortalmente ferito e si rifugia in fin di vita in un convento di frati. Dopo molti giorni Giuliano si riprende, contro ogni logica, e ritorna al suo sogno di dare la terra ai contadini, così come vorrebbe anche il comunista Silvio Ferra, fratello della sua ragazza, Giovanna, e di annettere infine la Sicilia agli Stati Uniti d’America.

Salvatore Giuliano si avventura così in ogni sorta di imprese micidiali “in nome di Dio e della Sicilia”, in aperta rivolta contro quelli che egli ritiene i tre poteri che impediscono la realizzazione dei suo sogno: mafia, aristocrazia e chiesa. Ammirato per le prodezze del bandito, il boss mafioso don Masino Croce cerca dapprima di prenderlo sotto la sua protezione, ma in seguito si serve del professore universitario Ettore Adonis e della duchessa americana, ormai infatuata dell’avvenente bandito, per sfruttarne la popolarità per i propri fini anticomunisti di stampo mafioso. L’occasione gli è offerta dalla festa del 1º maggio 1947, durante la quale mafiosi infiltrati nella banda di Giuliano – che si è frattanto asserragliato in montagna – provocano la strage di Portella delle Ginestre, contro le intenzioni di lui.

Il fatto segna la sorte del bandito, il quale, rimasto isolato, viene assassinato in un battello – stranamente battente bandiera americana – per mandato di don Masino, proprio dall’inseparabile Pisciotta, e, in seguito, crivellato di colpi in una piazza, per simulare uno scontro a fuoco con la polizia. La ricostruzione dei fatti è sommaria, ed in alcuni punti storicamente falsa. In più, il protagonista è trattato in maniera opposta rispetto al film di Rosi.

Lì era praticamente invisibile, la vicenda era la vera protagonista. Qui è un improbabile Cristopher Lambert nelle vesti di un romantico eroe western sconfitto da eventi più grandi di lui e dalla propria ingenuità.

Tante pellicole del filone impegnato si sono risolte in una versione appena più sofisticata del southern: possono essere inseriti in questa categoria i film tratti dai libri di Sciascia, che si limitano a ripercorrere le vicende descritte dai libri (talvolta con qualche cambiamento inutile rispetto alla trama) senza cogliere la complessità e la ricchezza di temi e problemi che i libri contenevano:

“A Sciascia rimprovereremo sempre […] di aver permesso che il cinema ‘romano’ facesse [dei suoi romanzi] un uso magniloquente e distorto, tutt’altro che illuminista e illuminante come i romanzi avrebbero richiesto” [Fofi 1997, 27].

“A ciascuno il suo” (1967) di Elio Petri e “Il giorno della civetta” (1968) di Damiano Damiani sono due gialli di ambientazione siciliana e poco più. Il primo è più complesso, il secondo maggiormente schematico, ma entrambi risultano convenzionali, sembrano seguire le regole già codificate di un genere, al pari del western o del film di fantascienza.

Del tutto diversi dai libri sciasciani, che pur ispirandosi alla struttura del giallo, risultavano alla fine opere originalissime e non catalogabili in nessun genere particolare.

Damiani girerà altre pellicole – la principale è “Pizza connection” (1985) – che rappresentano una Sicilia violenta e cupa, con ampie concessioni ad esigenze spettacolari, secondo uno stile didascalico che non accorda però spazio alle possibilità di riscatto collettivo ed ama concentrarsi su pochi isolati eroi quasi inesorabilmente votati alla sconfitta ed alla morte violenta. Questo genere di impostazione contribuirà a determinare nell’immaginario collettivo l’equazione antimafioso = morto potenziale.

Identico discorso per i film di Giuseppe Ferrara, “Cento giorni a Palermo”(1984) e “Giovanni Falcone” (1993), brutti esempi di istant film in cui il cinema si affanna ad inseguire la cronaca, assumendosi inutilmente una funzione che non gli è propria.

Solo a partire dai primi anni ‘90 la Sicilia inizia ad essere prevalentemente raccontata da autori siciliani. Appartengono ad un filone “neo-neorealista” i film sceneggiati da Aurelio Grimaldi, che rappresentano nella forma più vera possibile, e talvolta con attori presi dalla strada, la disperazione dei ragazzi di Palermo, “Mery per sempre” (1990) e “Ragazzi fuori” (1991).

Qui siamo a Cinisi, non sull’isola di Wight

I cento passi (2000) è un viaggio all’interno della memoria degli Anni ’70, partendo dalla storia di un ragazzo di Cinisi, figlio di un mafioso, che rifiuta i valori paterni. Bello, intenso, per nulla retorico, il film ha avuto un valore “extra-cinematografico” enorme riportando d’attualità le vicende quasi dimenticate dell’antimafia radicale e proponendo alle nuove generazioni il valore della lotta senza compromessi contro le ingiustizie e la criminalità.

La memoria della lotta alla mafia viaggia sull’onda di “A Whiter Shade of Pale” dei Procol Harum: e questa scelta musicale spiega l’operazione tentata da Marco Tullio Giordana in “I cento passi”. I temi tipici degli anni ’70 (il mondo nuovo delle radio private, le radio libere, la contestazione con le sue tensioni e le sue incertezze, la rivolta di una generazione contro i propri padri) assumono un significato da affresco a contrasti intensi proprio a causa del contesto in cui sono collocati: la provincia palermitana dove la mafia diventa imprenditrice, controlla la droga nei due mondi e possiede la politica, le forze dell’ordine, parte della magistratura. In più, è invisibile e l’opinione pubblica nazionale – anche la più colta, pensosa e di sinistra – non si pone assolutamente il problema.

I ragazzi di Cinisi saranno sempre soli e sono estremamente significative le scene sull’incomprensione con gli alternativi venuti dal Nord Italia e dal Nord Europa (“qui siamo a Cinisi, non sull’isola di Wight”).

“A far la differenza, a trasformare “I cento passi” in tragedia, è il contesto. Chi fondava una radio privata e sfotteva i poteri forti rischiava, a Milano o a Roma, un’irruzione della polizia. A Cinisi, Sicilia, la posta in gioco era diversa: era la morte.”

[Alberto Crespi, FilmTV.it]

Peppino Impastato gioca la propria scommessa fino in fondo: figlio di un mafioso di piccolo cabotaggio, nega il sistema di valori paterni e si rifiuta di percorrere “i cento passi” che separano la sua casa da quella di Tano Badalamenti, il boss che può decidere il suo destino.

L’aspetto che colpisce è l’assoluta diversità del film rispetto a tutti i film “di mafia”, specie rispetto a quelli che narrano di eroi dell’antimafia. Forse perché la storia di Peppino è diversa dalle altre (non un giudice né un poliziotto, in più nato in ambiente mafioso e aderente alla sinistra antagonista), forse perché – come dice lo stesso regista – “I cento passi” non è un film di mafia. Non è un film di mafia, se con questo termine ci si riferisce a gangster movies magari tecnicamente eccelsi ma privi di contenuti e di umanità e ideologicamente ammiccanti all’eroe noir che percorre con la violenza la strada che conduce al sogno americano del successo individuale.

Il film ha riproposto all’opinione pubblica nazionale una vicenda dimenticata. Molti particolari erano rimasti insabbiati, e tra questi va senza dubbio segnalato il ruolo preciso che assunsero la magistratura e le forze dell’ordine. Ciò emerge in parte dal film, in realtà la vicenda fu ancora più grave. Le istituzioni erano pesantemente colluse e depistarono consapevolmente le indagini, al fine di chiudere la vicenda e non coinvolgere Badalamenti. La famiglia Impastato, i compagni della radio e il centro di documentazione antimafia che era stato costituito già nel 1977 e che poi successivamente – nel 1980 – sarà intitolato alla memoria di Peppino svolsero un’opera incessante di indagine e denunciarono i risultati delle loro inchieste nel dossier “Notissimi Ignoti”, che significativamente portava in copertina una foto di Badalamenti.

Per venti anni le denunce furono pressoché ignorate, finché nel 1998 la procura di Palermo chiede il rinvio a giudizio per colui che tutti conoscono come il mandante dell’omicidio.

Nell’ordinanza, le istituzioni si autoassolvono per il lungo periodo di silenzio:

“L’auspicabile collaborazione da parte di chi, per quieto vivere era indotto a rispettare i segni di un ambiente dove il culto della sopraffazione e dell’omertà regnano sovrani, avrebbe certamente impedito quei ritardi che, uniti ai depistaggi iniziali e a segnali fuorvianti, hanno negativamente segnato le indagini su questo gravissimo fatto di sangue” [Cit. da Santino 1998]

La contorta prosa del GIP, ideale per la voce fuoricampo di un documentario Luce su una Sicilia da fichi d’india e sciccareddu, rovescia la realtà di 360 gradi.

Fu la famiglia, la società civile a denunciare per iscritto quanto sapeva e – come se non bastasse – a condurre indagini supplementari sostituendosi a quanti avevano il dovere di servire lo Stato e non “don Tano Seduto”.

Furono le istituzioni – per quieto vivere – a preferire la legge dell’omertà e a non ascoltare la voce dei familiari della vittima che – per una volta – si mettono a gridare la loro verità anziché elaborare il lutto al chiuso delle persiane, nella penombra di una casa siciliana.

Placido
Rizzotto (2000)
è un film per certi versi analogo a “I cento passi”, ma che
ha avuto minore notorietà. Il regista Scimeca narra con la cadenza del racconto orale, la storia del sindacalista ucciso dalla mafia alla fine degli Anni ’50. Placido Rizzotto osserva, dall’alto, la sua amara Corleone. Scruta quei tetti e quelle vie. Rizzotto conduce una duplice lotta, contro i mafiosi e contro le regole feudali imposte dai proprietari terrieri. Le due lotte diventano una sola, perché proprietari e mafiosi sono alleati. Il segretario della Camera del Lavoro è un eroe tragico (interpretato, con una stupefacente ed emozionante adesione, che sfiora l’identificazione, da Marcello Mazzarella) e va incontro alla morte con la consapevolezza di chi conosce i nomi di tutti i morti e di tutti i carnefici. Sparirà la sera del 10 marzo 1948 e il suo corpo non sarà più trovato. Pasquale Scimeca (autore di ”Il giorno di San Sebastiano“ e ”Briganti di Zabut”) dedica a questo morto senza tomba un film molto bello che sottrae la cronaca e i personaggi al realismo, all’inchiesta televisiva e alla tradizione del cinema civile. La cadenza narrativa è quella della favola, del racconto orale, del patrimonio drammaturgico dei cantastorie, di un’esistenza racchiusa in piccoli quadri, dei paesaggi maestosi, di scene laceranti evidenziate dalla struggente colonna sonora del gruppo palermitano Agricantus.

3. Il film (italo)americano

Il più celebre dei film Usa sulla mafia è senza dubbio “Il padrino” (1972) di Francis Ford Coppola. Il grande successo della pellicola inaugura un genere che avrà tantissimi epigoni, in genere imitazioni di scarsa qualità, ma disegna anche l’immagine della Sicilia del mondo (Sicilia = mafia nasce sostanzialmente qui) e impone modi di parlare, accenti, comportamenti all’immaginario collettivo. La Sicilia diventa luogo comune: il suo dialetto è quello dei doppiatori che trascinano un cantilenante pseudo-palermitano, i suoi paesaggi quelli dei monti che circondano la capitale siciliana, i suoi atteggiamenti quelli delle poche parole dense di significati nascosti e pronte a sottintendere una violenza senza freni. Tutto il resto della Sicilia, geograficamente e culturalmente, semplicemente non esiste più, con l’eccezione di Little Italy, la proiezione newyorchese dell’isola, frutto di un incrocio bastardo tra la selvaggia determinazione di uomini arcaici e la modernità della metropoli. Tutto questo – è il caso di dirlo per non caricare ulteriori responsabilità sulle spalle di Ford Coppola – va ben aldilà delle intenzioni del cast, che è composto in gran parte da italoamericani (tra l’altro tutti professionisti di grandissimo livello: Pacino, De Niro, …) che non fanno altro che raccontare ciò che è con buona approssimazione e molta onestà la storia della loro comunità (non così altri, con panni altrettanto sporchi: ebrei, russi, irlandesi…).

“Dice la storia che all’ultimo banchetto d’onore prima di essere espulso dagli Stati Uniti, Lucky Luciano aveva a tavola Joe Adonis, Willie Moretti […] ma anche il ‘tedesco’ Benjamin ‘Bugsy’ Siegel, l’irlandese Owney ‘The Killer’ Madden […], gli ebrei di origine russa o polacca Meyer Lansky e Longy Zwillman, più un avvocato dal nome inconfondibile: Moses Polakoff” [Stella 2002].

Insomma, i criminali appartenevano a tutte le comunità immigrate; tra l’altro i vari immigrati ebrei erano la vera comunità rivale degli italiani nell’amministrazione dei bordelli, delle distillerie e dei casinò illegali. Secondo Ben Lawton, docente alla Purdue University dell’Indiana ed autore di monografie sul cinema, gli ebrei controllavano quasi tutte le mayor di Hollywod (MGM, Paramount, RKO, Warner Bros, 20th Century Fox, Columbia, Universal) e non avevano nessuna intenzione di diffondere un’immagine negativa della loro comunità [cit. in Stella 2002].

Hollywood Italians

Il Padrino è stato definito come il capostipite di altri autoritratti di comunità, operati in genere da italoamericani. Prima di allora, erano stati già numerosi i film sul tema: il primo è addirittura del 1906, e significativamente porta il titolo The Black Hand, pellicola muta che racconta le prime bande di estortori siciliani, che firmavano “timbrando” con la mano sporca di carbone le lettere minatorie. Da allora è una lunga teoria di film sulle comunità italiane, fino alle opere dirette o interpretate dai tanti italoamericano: Danny Aiello, Frank Capra, Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Brian De Palma, Leonardo Di Caprio, James Gandolfini, Ray Liotta, Dean Martin, Vincente Minnelli, Al Pacino, Joe Pesci, Martin Scorsese, Frank Sinatra, Marisa Tomei, John Travolta, Rudolph Valentino).

“From the silent era and The Black Hand (1906) to The Sopranos, Hollywood has had a love-hate affair with Italian Americans”. [Bondadella 2004]

Un’altra pietra miliare è il film del 1930 Little Cesar”, in cui il killer italiano insapora all’aglio le pallottole prima dei delitti. Curiosamente, al di là del “Padrino” le due produzioni sul tema di maggiore successo sono due telefilm: uno risale al 1959, The Untouchables, è ambientato nella Chicago di Al Capone e servirà da spunto molti anni dopo al celebre film di De Palma con Robert De Niro. Il serial suscitò numerose proteste contro il buon nome della comunità italiana: il figlio di Al Capone, che viveva in Florida, chiese un milione di dollari per risarcire il danno d’immagine fatto alla famiglia. I camalli italiani di numerosi porti, insieme ad altre organizzazioni di italoamericani, minacciarono di ostacolare, non fumandole o non scaricandole sui moli, le Chesterfield colpevoli di comprare spazi pubblicitari all’interno del telefilm [cit. in Stella 2002].

Spesso le proteste contro l’immagine negativa degli italiani nei cinema ed in Tv partivano dall’Unione Siciliana, accusata fin dagli inizi del secolo di fare da intermediaria con i nuovi arrivati, e centro di reclutamento per le bande della Mano nera prima e di Cosa Nostra poi. La seconda serie, The Sopranos, è invece recentissima (in questo momento la tv via cavo HBO, produttrice della serie, sta trasmettendo la puntata 65: “Tutto il rispetto dovuto”), ha avuto un successo eccezionale (“an international-television phenomenon”) pur riproponendo la solita saga di una famiglia mafiosa infarcita di luoghi comuni: dalla pizzeria “Nuovo Vesuvio” ai capelli impomatati, dalla giacche sgargianti fino alla cappa sempre presente, la perenne sensazione di un omicidio imminente.

Molti pensavano il b-movie italoamericano avesse perso di interesse: invece tantissimi americani non solo guardano la serie, ma ne scaricano le suonerie sui propri cellulari, dibattono sul forum ed addirittura acquistano nello store on line olio d’oliva imported from Italy, griffato dai personaggi della serie.

 

All’epoca della sua uscita, la prima parte de “Il Padrino” ebbe in Italia un’accoglienza critica molto negativa. Numerosi recensori stroncarono senza pietà il film: l’autorevole Tullio Kezich lo bollò come “un condensato di luoghi comuni sui gangster italoamericani virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”, definendo l’episodio siciliano “di una cialtroneria offensiva”. L’accusa al film è sostanzialmente una: la trama si regge sul più classico dei luoghi comuni sulla mafia; da un lato la “famiglia” all’antica, rispettosa dei valori e dell’onore, dall’altro la moderna mafia cinica e spietata. Se la prima talvolta arriva a dispensare giustizia, la seconda produce sangue e morte, ed esalta le caratteristiche del gangster movie prediletto dal cinema americano.

Guardando il sequel insieme alla prima parte, si vedono in realtà numerosi elementi di continuità:

· La violenza è patrimonio sia dei “padri” che dei figli, con lo stesso culto inflessibile della vendetta

· Tradimenti e violazione di qualunque codice d’onore sono comportamenti di tutti

Probabilmente, all’epoca della sua uscita il film presentava una conoscenza sul fenomeno mafioso molto superiore alla media, e ciò che colpì fu la doppia morale di personaggi che potevano essere “virtuosi in famiglia e feroci sul lavoro”.

Passerà ancora del tempo e vedremo covi di latitanti arrestati in preghiera con le immaginette della Madonna, pluriassassini che si definiscono onorati, e mille altre testimonianze di quella doppia morale che è tale solo per noi e non per un mafioso.

Tra gli elementi per l’epoca “avanzati”, vanno segnalati:

· Il ruolo del capomafia ebreo come capo dei capi (la comunità ebraica ebbe un ruolo importante e sottovalutato nel panorama della criminalità nordamericana)

· La corruzione della polizia e dei politici

· La fratellanza tra persone “normali” e mafiosi (cantanti famosi, etc)

· Il sostanziale inserimento nell’economia americana (Las Vegas è il caso più indicativo) ed i numerosi riconoscimenti “ufficiali” ottenuti dalle imprese mafiose

· Il ruolo delle comunità immigrate e la genesi del fenomeno (tra i tanti esempi, i primi guappi che si fanno strada con le estorsioni ai danni dei connazionali)

· Il ruolo della criminalità a fianco dell’imperialismo Usa (episodio di Cuba)

· Il ruolo del Vaticano e dei centri finanziari in genere

In più la trilogia propose un’analisi fino ad allora poco esplorata del concetto di famiglia nell’Italia meridionale: intesa cioè in senso stretto, oppure allargata a clan tramite l’acquisizione di “compari”, con inerente sistema di presunti valori (un sociologo anglosassone s’inventò per essi la definizione di “familismo amorale”).

Dark side of the moon: il volto criminale del capitalismo

La parte migliore del film è di gran lunga la descrizione di Little Italy. Coppola parla dei suoi padri, con lucidità e bravura. Mossa dal desiderio di riscatto d’una contrada povera del Sud nei confronti della grande America, la vicenda della famiglia Corleone narra della trasformazione metastatica di tale spinta vitale in crimine organizzato: l’identificazione tra mafia e politica della seconda parte chiarisce il punto di vista del regista sugli Usa e sulla natura del capitalismo.

La violenza è l’arma in più in mano ai poveri immigrati (non solo italiani, ma anche russi, irlandesi, …) per partecipare alla corsa verso il sogno americano: il successo e la ricchezza. Momento cruciale di questa svolta è il proibizionismo descritto da De Palma ne “Gli Intoccabili” (1987).
Durante gli anni del proibizionismo, un agente del Ministero del Tesoro americano, Elliot Ness, per combattere il crimine e riuscire a “incastrare” Al Capone, forma una squadra non ufficiale di agenti.

Ne fanno parte un giovane tiratore, un poliziotto in pensione saggio e incorruttibile e un contabile. Due di loro ci rimettono la pelle, ma il gruppo degli “intoccabili” vince la sua battaglia.

Al di là delle eccezionali scenografie, delle citazioni dalla storia della cinematografia (persino “La Corazzata Potemkin”…) della ricostruzione dell’ambiente di Chicago anni ’30, di attori incredibili come Robert De Niro nel ruolo di Al Capone, il film descrive bene l’ambiente Usa, nel quale gli anormali sono i (pochi) poliziotti che vogliono contrastare l’illegalità e che si trovano letteralmente circondati da giornalisti, politici ed altri poliziotti che riconoscono in Capone e nel suo sistema il loro ambiente naturale.

Alla fine, anche il gruppo di onesti – oltre a pagare un prezzo di sangue – finirà per uniformarsi nella ferocia e nei comportamenti ai criminali, concludendo il tutto con la filosofia secondo cui non solo bisogna sparare, ma soprattutto bisogna sparare per primi. Naturalmente, è l’ambiente che costringe, darwinianamente, a questa scelta. Ma ancora una volta il film di mafia si riduce all’immorale logica del western, dove tutto è violenza e la morte diventa banale.

Del tutto opposta la filosofia di alcuni film italiani dedicati ai nostri eroi dell’Antimafia, eroi nonviolenti che mai accetterebbero di utilizzare le stesse armi (non solo metaforiche dei loro avversari).

“Madre di Peppino: – E perché non ti prendi una pistola?

“Peppino: – E per farne che? Io la pistola non la so usare. E poi le pistole non mi sono mai piaciute…”

(“I cento passi”, 2003).

In questa frase c’è tutta la distanza con le migliori intenzioni dell’altra parte dell’Oceano.

Alla fine – il merito del “Padrino” – “Parte seconda” (1974), premiato con 7 Oscar, è proprio evidenziare questo  – la società americana premia allo stesso modo il vincente, indipendentemente dai mezzi che ha utilizzato. Il parallelo mafia-capitalismo (non mondi contrapposti ma universi complementari) giunge così alla conclusione già accennata nel primo film della serie.

Solo una leggera diffidenza accompagna “i vestiti sgargianti”, i matrimoni sfarzosi, le processioni melodrammatiche e le abitudini grossolane di questi italiani arricchiti. Las Vegas è il monumento a questo modello, una città dove il confine tra illegale e legale non esiste. L’ultimo della serie – “Il Padrino. Parte terza” (1990) – è invece un grottesco melodramma denso di riferimenti precisi a protagonisti e fatti della nostra storia recente (Calvi, Marcinkus, la morte misteriosa di papa Lucani, ma anche Andreotti e la finanza cattolica) tratteggiano un ritratto della corruzione tipico dell’Italia e concluso dalla infinita teoria di esecuzioni sullo sfondo del Teatro Massimo di Palermo. [Vittorio Albano, in Autori Vari 1993,103 sgg].

Goodfellas – Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese è l’ennesimo film italoamericano di ottima fattura ma ideologicamente controverso. Anche questo mostra la mafia dall’interno, dall’ottica di un irlandese che fin da piccolo aderisce ad una banda. Henry Hill racconta la sua storia di gangster da quando, ragazzetto, guardava i boss del quartiere. Incomincia così a frequentare l’ambiente dove James, Tommy e Paul lo introducono al crimine. Henry nel frattempo si è sposato con una ragazza ebrea, che ignora la sua vera professione, ma che a poco a poco verrà irretita nei traffici del marito. Caduto in disgrazia e temendo di essere eliminato, Henry decide di “cantare” con l’FBI.

Costruito sul tempo sincopato delle canzoni della colonna sonora che si susseguono a raffica, il film scarta, deformandoli, i luoghi comuni del genere, mescolando paranoia e violenza per restituirci un quadro, paradossalmente, più vero del reale. Tour de force per l’occhio e la mente dello spettatore, Goodfellas mette in scena un’abilità tecnica e un’intelligenza di regia magistrali.

L’obiettivo del protagonista? La vita, cioè lusso, divertimenti, soldi e poco lavoro. Nella colonna degli aspetti negativi, invece, la violenza, i tradimenti ed il rischio della morte o – in seconda battuta – dell’arresto. Molti americani, in un rapido calcolo costi-benefici hanno scelto di stare da quella parte. L’importante è saltare a pié pari l’esistenza dei normali, che si ammazzano di lavoro per poco o nulla e subiscono ogni giorno umiliazioni. “La vita è quello che più di tutto mi mancherà”, dice il protagonista in tribunale, all’epilogo della sua vicenda.

Un approccio simile è quello tentato da Sergio Leone in C’era una volta in America (1984), film cinematograficamente notevolissimo (grandi attori, scene splendide, ottima sceneggiatura) che narra la vicenda di una banda di ragazzi ebrei, che cominciano giovanissimi (appena bambini, nei primi del ‘900 in una New York brulicante di attività e densa della violenza delle tante comunità di immigrati) le loro attività criminali fino a diventare una temuta banda. Dal proibizionismo (alcol, prostituzione, gioco d’azzardo) fino alla mediazione tra padroni e operai, non c’è questione in quest’America che non possa essere affrontata e risolta con una sventagliata di mitra.

Nel film, contrariamente alla tradizione cinematografica Usa, i buoni non esistono e tutto, dai poliziotti ai politici, dai sindacalisti fino ai baristi sembra immerso nella corruzione e soprattutto in una violenza che alla fine sembra normale e quasi necessaria. Ancora una volta il gangster-mafioso è un americano come tanti che usa la violenza come la corsia di sorpasso sull’autostrada che porta al sogno del successo. “Lei è una vincente, lo si vedeva subito. Anche tu mi sembravi un vincente. Avrei puntato senza pensarci su di te”, dice uno dei protagonisti, affiancando due carriere, una andata male e una bene, una di attrice ed una di criminale.

La prima recita sul palcoscenico, l’altro ammazza innocenti ma in quest’America mitica e tanto realistica ciò che conta è il fine, il mezzo è secondario. La massima maledizione è “to be a looser”, molto peggio che essere un assassino. E del resto gli assassini sono bene inseriti nella società, vestono meglio di tutti, smoking nero con la gardenia all’occhiello, hanno donne bellissime che si fanno poche domande, e i loro locali sono frequentatissimi. È gente ammirata, che vive bene. E poco importa che tutto sia costruito sul sangue degli innocenti.

Stereotipi televisivi: la Piovra

La Piovra 8 – lo scandalo. Regia di Giacomo Battiato. Coproduzione Rai – Zdf – SVT Sveriges television. Italia 1997. Andato in onda domenica 5 ottobre 1997 e lunedì 6, Raiuno. La televisione italiana ha proposta almeno una serie di grande successo dedicata al tema mafia. Qui analizziamo l’ottava serie, per mettere in evidenza come argomenti drammatici siano stati spesso banalizzati a fini esclusivamente commerciali. La trama è estremamente semplice. Il barone Francesco Altamura discute un suo progetto davanti ad un gruppo di persone, comprendenti l’assessore locale ai lavori pubblici, l’uomo d’onore del luogo ed il suo tirapiedi, ben presto destinato a prendere il suo posto. Il barone viene dall’America, il padre è invece siciliano e legato alla ‘vecchia‘ mentalità. La moglie, al contrario, è americana e si permette persino di parlare d’affari in mezzo agli uomini. La proposta del barone riguarda una diga che dia sviluppo e lavoro. La sua intenzione è di trasformare la Sicilia in “una nuova California”. I boss locali (siamo nell’immaginario paese di Tre Torri alla fine degli anni ‘50) gli prospettano invece speculazioni, varianti ai piani regolatori e appalti truccati.

Il barone non si piega. Il tirapiedi dell’uomo d’onore, Pietro Favignana, gli fa rapire il figlio all’insaputa del vecchio boss, che presto farà una brutta fine. Il barone non si piega neanche di fronte al rapimento del bambino, mentre la moglie si mette in contatto con un tenente dei carabinieri che arriva in incognito e salva il bambino, riportandolo alla madre. La prima puntata si conclude con una retata dei mafiosi coinvolti nel rapimento e con l’immagine di Favignana che fugge a bordo di una nave. La seconda parte dell’opera abbandona il tono ideologico per rifugiarsi nel romanzo. Favignana torna dall’America e, grazie ad armi e droga, conquista prima i vecchi mafiosi conservatori, quindi il potere perduto sia a livello economico che politico.

Tutti cedono, dal deputato regionale fino al barone Altamura, che sopraffatto dalla pressione ambientale s’incontra e si accorda col mafioso. A fargli fare questo passo contribuisce la gelosia per la storia d’amore tra la moglie ed il carabiniere-eroe salvatore del figlio. Finale drammatico con l’uccisione di Favignana, con un coltello, da parte della moglie e riunione forzata tra i coniugi Altamura.

Tutta l’opera è giocata su una serie di dicotomie:

· barone-imprenditore

· mafiosi parassiti

· il barone è stato in America

· i mafiosi non si sono mai mossi dalla Sicilia

· il barone ha sposato un’americana (la sua mentalità si è emancipata)

· il padre del barone non ha viaggiato (la sua mentalità è rimasta bloccata)

· modernità

· tradizione

· sviluppo

· sottosviluppo

.

La mitologia dell’imprenditore, in voga a partire dagli anni ‘90, trova una rappresentazione in questa figura, che lascia l’America per tornare alla sua terra e salvarla tramite investimenti economici (il sud come “california” è una trovata di quel periodo). L’imprenditore assume così una funzione escatologica, quasi taumaturgica. L’unico ostacolo alla salvezza è la mentalità arcaica della comunità siciliana. Non sono considerati ostacoli di ordine strutturale-economico. Il mercato è una pianta che, se nessuno ne impedisce la crescita, porta inevitabilmente i suoi frutti.

Ma l’imprenditore, nella fantasia degli sceneggiatori, è anche un barone. Perché? Il padre rappresenta bene l’aristocrazia siciliana: è conservatore, ammette di aver utilizzato i mafiosi perché altrimenti le sue terre se la sarebbero prese i comunisti (verissimo). Il figlio, pur legato a residui del passato (si rivolge al vecchio uomo d’onore per riavere il figlio), rompe inizialmente con la mafia. Successivamente sarà fagocitato dall’ambiente e si comporterà come tutti gli altri.

Si sentono di certo gli echi di Sonnino e Franchetti e di tutti quelli che lamentano la mancata rivoluzione borghese meridionale. In tanti, nel passato e ancora adesso, desiderano un potere borghese al sud senza intermediazione alcuna. Se poi si pensa che questa intermediazione (violenta e “sporca”) è fonte di imbarazzo, si capisce ancora di più tale desiderio.

Ma un conflitto tra la borghesia liberale (di stampo anglosassone, legalitaria, “imprenditrice”) e la borghesia parassitaria (filomafiosa, “arcaica”) in Sicilia c’è stato solo in fase embrionale, in alcuni brevi momenti. Meno che mai si è visto un conflitto tra i rampolli dell’aristocrazia isolana ed i propri padri.

Ma le stranezze non sono finite. Marginalmente, si osservano i piccoli proprietari e i contadini che parteggiano per il barone-imprenditore. Lo applaudono in consiglio comunale quando espone il suo progetto, stanno dalla sua parte. Alla fine degli anni ‘50, in Sicilia i rapporti tra grandi e piccoli proprietari talmente conflittuali da rendere abbastanza inverosimile la vicenda. Gli aristocratici rappresentavano quanto di più conservatore si potesse immaginare. I loro rampolli erano impegnati a dilapidare i patrimoni del casato nelle grandi città.

I contadini occupavano le terre dei feudatari assenteisti. I feudatari assenteisti davano ordine ai mafiosi di sparare sui contadini. I carabinieri, in genere, facevano altrettanto. La mistica dell’imprenditore-taumaturgo distorce la realtà storica.

Don Albanese, uomo d’onore

Io sono un uomo dd’onore. Un uomo dd’onore non rapisce i bambini“. Il barone, dopo la scomparsa del figlio, si rivolge al vecchio capomafia, che nega di sapere alcunché ostentando che la sua cultura non prevede atti “disonorati”. A rapire il bambino è stato invece Pietro Favignana, tirapiedi di don Albanese. Favignana ucciderà Albanese, tradito da tutti i suoi uomini. Ancora una rappresentazione del più resistente tra i luoghi comuni sulla mafia: la vecchia schiera degli uomini d’onore è fatta di gente con un codice morale. Ad essi è lecito rivolgersi per vedere rispettate “le regole di giustizia” , sono “meglio di uno squadrone di carabinieri”, osserva il barone-imprenditore.

I nuovi invece non hanno vincoli morali e compiono qualsiasi atto senza timore: a conferma della perversità dei nuovi arrivati, Pietro Favignana aggredisce la figlia del vecchio boss di fronte al cadavere del padre. La sposerà pochi giorni dopo, di fronte ad un prete estrefatto. Nessuna regola, nessun rispetto della tradizione. Il console americano apprende che il barone-imprenditore si è rivolto al vecchio uomo d’onore ed afferma: “Sono qui dalla fine della guerra, mi sarei rivolto anch’io a Don Albanese”.

Difficile non cogliere un riferimento allo sbarco Usa, quando i militari d’oltreoceano “si rivolgono” ai capimafia che assicurano il controllo dell’isola. E’ difficile non leggere tra le righe un tentativo di revisionismo, come a dire: allora era lecito rivolgersi alla mafia, perché costituita da uomini d’onore.

I siciliani. Regole ed eccezioni

I siciliani nella Piovra 8 si dividono in regole ed eccezioni. Le regole sono gli appaltatori/speculatori/mafiosi e i contadini primitivi e violenti che picchiano i figli e non vogliono mandarli a scuola. I mafiosi sono, è ovvio, rappresentati con coppola e lupara. Sono gelosi delle proprie figlie e delle proprie mogli. Sono più che diffidenti di fronte ai forestieri. L’immagine è così convenzionale che non merita altre considerazioni. Merita soltanto un accenno la figura di Tano, piccolo carceriere del figlio del barone-imprenditore che si ribella al mondo in cui è nato e salva il piccolo rapito.

La ricompensa è l’ingresso nel mondo dei signori, dove innanzitutto veste in maniera completamente diversa (gli abiti che portava prima sono segno di arretratezza), impara a leggere (la cultura orale appartiene agli inferiori) e viene educato a modelli di ragionamento opposti a quelli che gli avevano insegnato. Tano è un piccolo selvaggio da civilizzare. Le eccezioni. Dei piccoli (inverosimili) proprietari che stanno col barone si è già detto. Il carabiniere in incognito che salva il bambino dichiara appena arrivato che “sono tanti i siciliani che credono nello Stato”. Si è già detto della figura del Leviatano e della contrapposizione mafia (antistato !) / stato.

Il carabiniere è simbolo della necessità del Leviatano, il Leviatano che garantisce la proprietà ed i beni. Esigenza identica a quella rappresentata da don Albanese (viene in mente una frase del film “Tano da morire”: la mafia è come lo Stato, solo che non è autorizzata).

I film sperimentali

Lo zio di
Brooklyn,
di Daniele Ciprì e Franco Maresco (1995) Tano da morire, di Roberta Torre, (1997). Il cinema di Hollywood ha rappresentato la Sicilia con semplificazioni e spettacolarizzazioni; gli autori centro-settentrionali hanno evidenziato gli aspetti western e raramente hanno colto la complessità dei problemi; ma è anche vero che luoghi comuni e retorica hanno avuto buona accoglienza presso il pubblico siciliano. Da qualche anno, sono gli autori siciliani (o, nel caso di Roberta Torre, trapiantati in Sicilia) i principali artefici della rappresentazione dell’isola. I due esempi che seguono sono l’esatto contrario della retorica, del convenzionalismo, del sentimentalismo e del cinema dei luoghi comuni.

“Lo zio di Brooklyn” rappresenta in uno splendido bianco e nero una Palermo “post-atomica” abitata da soli uomini (che nel film interpretano anche le parti femminili), seminudi e grotteschi, col linguaggio ridotto a poche frasi essenziali, ed anche il paesaggio è spoglio e denso di macerie e rifiuti. L’ingiustizia è simboleggiata dal funerale dei poveracci che cede il passo al funerale dei signori. La mafia appare nel film grottesca ridicola rivoltante e volgare. La trasfigurazione apocalittica della realtà è la raffigurazione più fedele della realtà, della violenza, della mafia stessa.

“Tano da morire” è stato scorrettamente titolato ‘il primo musical sulla mafia’ ed è stato di conseguenza visto come un film comico, dando origine ad un inutile dibattito incentrato sul tema: si può ridere della mafia?

La stessa regista nega che si tratti di un film comico , ed effettivamente i problemi posti sono infiniti e di difficilissima soluzione. L’ambiente sociale è quello del degrado umano, di una cultura popolare violentata dalla modernità? La cultura mafiosa è figlia della mentalità popolare o strumentalizza ed estremizza elementi già presenti? Oppure si tratta di una cultura vera e propria, da osservare senza razzismi e pregiudizi, come sembra suggerire la regista? E’ una realtà immodificabile, su cui avviare processi di cambiamento o da non cambiare proprio (e qui mi sembra che ci siano le maggiori ambiguità)? Il film guarda compiaciuto questo mondo, lo ridicolizza o addirittura lo esalta? Le risposte possibili sono molteplici. Le due citazioni che seguono forniscono ulteriori spunti di riflessione:

“Ora la cosa che mi irrita di più è un’altra, è l’ossessione con cui si legge il film in termini di trash […]. Chiamano trash quella che è una verità e una cultura. […] C’è un razzismo latente persino fisico: si dice che i miei attori sono mostruosi”. “A me è sembrato un’apoteosi del plebeismo palermitano. […] Non mi pare il caso di parlare di satira e ricordare l’irrisione di Peppino Impastato per un altro Tano. Nel film gli stereotipi della subcultura rionale sono più corteggiati che ridicolizzati”.

Rimangono tuttavia alcuni meriti del film:

1. La rappresentazione delle “feste” dei mafiosi, che ballano tra loro in pose effeminate, rimane comunque una immagine fortemente satirica dell’omofobia e del virilismo mafioso, in cui emerge la componente grottesca del mito del maschio.

2. L’utilità di una visione da dentro: “la mafia è come la legge, solo che non è autorizzata: per me è uguale”, afferma uno dei protagonisti. E’ una mentalità sbagliata finché si vuole, ma presente e diffusa.

3. La satira dell’antimafia perbenista e retorica, simboleggiata dalla scena in cui “Stella Marina poetessa antimafia” legge un suo componimento gonfio di parole inutili. Quante volte, nelle manifestazioni dell’antimafia ufficiale, si sono viste scene del genere!

Il giudizio sulle recenti sperimentazioni palermitane rimane comunque positivo, ed indica una vivacità culturale che altre aree del paese (molto più lodate e pubblicizzate, si pensi al famoso nord-est) non possiedono. Anche il confronto con le produzioni del passato (v. il precedente paragrafo sui film-stereotipo) fa risaltare i meriti del cinema palermitano più recente, capace di offrire produzioni differenziate e comunque – e questa è forse la cosa più importante – di suscitare discussioni e dibattiti, di porre problemi in un mondo dove anche il film è merce e segue i principi dell’usa e getta. La rappresentazione grottesca della mafia (senza ambiguità nel caso dello “zio di Brooklyn”, in maniera discutibile nel caso di “Tano da morire”) è senz’altro da preferire alle visioni “western” del cinema “impegnato”.

Il limite maggiore di questi film è da rintracciare nell’assenza di vie d’uscita: il primo film termina con immagini metafisiche e induce ad un pessimismo cosmico. Il secondo sembra addirittura compiacersi della realtà che osserva.

La Calabria nel cinema

“Un paesaggio di aspra bellezza, tra laghi azzurri e boschi impenetrabili, dove la gente vive lontana dal mondo e dalle sue leggi e le passioni elementari – l’odio e l’amore – divampano come un fuoco che distrugge e purifica”. E’ un brano tratto dalla presentazione della Lux Film per “Il lupo della Sila” [cit. in Scarfò 1990, 34].

I temi prevalenti del cinema che ha come soggetto la Calabria sono sempre gli stessi: le passioni elementari – l’onore, l’odio, l’amore – e la violenza che ne consegue. I calabresi nel cinema del dopoguerra sono generalmente briganti o fuorilegge, uomini passionali o donne passive. E’ un genere che viene determinato dal successo di ‘Cavalleria rusticana’ (non tanto la novella di Verga quanto piuttosto l’opera di Mascagni): la Sicilia è lo sfondo ideale per questo tipo di passioni, ma col passare degli anni (così come per Napoli) le tematiche diventano più complesse e diversificate. La Calabria, invece, è il sud del sud, sfondo ideale per ambientare il film southern, dove si confrontano – in maniera cruenta – fuorilegge e “forze dell’ordine”.

Dal ‘42 al ‘90, i principali film che hanno come soggetto la Calabria sono:

– “Patto col diavolo” [1949, regia di Luigi Chiarini]: storia dell’amore impossibile tra la figlia della vittima ed il figlio dell’assassino.

– “Il lupo della Sila” [1950, regia di Duilio Colletti]: sagre campestri, zampogne, sangue e onore: Rosaria ha visto da bambina la morte del padre e del fratello, uccisi da un uomo che non voleva sopportare di essere disonorato: divenuta grande, cerca vendetta facendo innamorare di sé l’assassino ed il figlio e poi mettendoli l’uno contro l’altro (!).

– “Il brigante Musolino” [1956, regia di Mario Camerini]: storia, a brevi tratti, del celebre bandito, tra carcere fughe carabinieri e vendette.

– “Il brigante di Tacca del Lupo” [1952, regia di Pietro Germi]: ambientato negli anni successivi all’unità, narra dello scontro tra i briganti e l’esercito venuto da Nord.

– “Il coraggio di parlare” [1986, regia di Leandro Castellani]: un ragazzo s’impiglia nello spaccio di droga e nella ‘ndrangheta, che gli uccide il suo migliore amico. Convinto da un parente prete, si decide a parlare per sfuggire alle minacce.

– “Un ragazzo di Calabria” [1987, regia di Luigi Comencini]: un ragazzo sogna di diventare un atleta e di fuggire dal piccolo paese dove quasi tutti ostacolano la sua ambizione, ritenuta folle. [Scarfò 1990, 196 sgg]

Gli altri film sono ‘brutte copie’ delle pellicole citate o rientrano comunque nelle tipologie che adesso vedremo.

Abbiamo dunque tre tipi di film:

– Genere onore e vendetta, in stile ‘cavalleria rusticana’. La Calabria è una specie di ‘arcadia selvaggia’ isolata rispetto all’Italia che si avvia verso l’industrializzazione (nel caso dei film del decennio ‘50-’60) o rimasta arretrata nei confronti del resto del Paese (come nei film degli anni ‘70 e ‘80).

– Film sul brigantaggio, distinti in due categorie: da una parte una versione rozza e semplice, il brigante eroe e demonio, buono per raccontare storie da romanzo d’appendice; dall’altro lato il brigante eroe sociale (o comunque inserito nella problematica del dopo-Unità).

– Film sulla ‘ndrangheta (o comunque sulla criminalità): anche questo filone segue la ripartizione del precedente (ed in effetti ne è la prosecuzione): da un lato le pellicole di sangue e violenza (del tipo: “Milano: il clan dei calabresi” [1975]), dall’altro le opere dell’impegno civile, spesso però piatte e didascaliche (‘i criminali sono cattivi, ma ci sono i calabresi onesti che parlano e non sono omertosi”).

Evidentemente, l’aspetto più rilevante è che il cinema sulla Calabria è opera di autori che vengono da fuori (o comunque, il regista vive lontano dalla regione d’origine, la troupe è prevalentemente esterna, mentre la produzione è sempre centro-settentrionale). Ciò spiega almeno in parte i limiti esposti in precedenza. Esiste però almeno una importante eccezione: “Faida”, regia di Paolo Pecora, 1988. Si tratta probabilmente della peggiore opera prodotta dal cinema calabrese. Tuttavia occorre fare alcune considerazioni, in modo da evitare semplificazioni e giudizi sommari.

Faida

Infatti, nessuno si sarebbe aspettato, all’uscita nelle sale, un minimo successo per “Faida”. Sentimentalismo “malavitoso” e storie da fotoromanzo sembravano del tutto inadatte ad attirare un pubblico ormai ritenuto maturo o comunque indifferente a richiami di questo tipo. Ed invece “Faida” ha avuto un notevole riscontro presso il pubblico calabrese: ed è un fatto significativo che sia stato visto, oltre che nella regione di provenienza, anche in Svizzera e Canada, ovviamente dagli emigrati, che hanno accolto calorosamente la pellicola. La trama è estremamente semplice: un ragazzo sfida il boss, gli uccide uno dei suoi uomini, mentre il fratello è costretto a tornare dalla Francia per salvarlo dalla vendetta della cosca. Alla fine “don Salvatore” riacquista il suo prestigio, evidenziato dall’ultima scena del film in cui si vede la celebrazione del boss – affacciato al balcone di casa sua – da parte della gente. Il film è
importante per almeno due motivi:

·
La risposta del pubblico popolare conferma che i valori comunemente definiti mafiosi (anche se la questione è più complessa) sono in qualche misura sentiti presso ampie fasce della popolazione calabrese (nel caso specifico), oltre che presso gli emigranti (di prima e seconda generazione, nel caso in questione).

·
Dal film (in particolare da alcuni dialoghi e dalla locandina) emergono i tratti della weltanschaung mafiosa. “Una storia drammatica che amaramente propone figure e vicende di uomini violenti e teneri. Passionali e feroci. Orgogliosi e sentimentali. Carichi di umanità e privi di pietà. Dignitosi e vili. Uomini di una terra che la sofferenza e la miseria hanno indurito. Incapaci forse di sperare ma capaci di rassegnarsi”. Dal testo del manifesto pubblicitario di “Faida” emerge la solita Calabria selvaggia e passionale, ma stavolta è un ritratto interno, non fatto da “forestieri”.

Dai dialoghi del film, emerge soprattutto tanta rassegnata disperazione (il fatalismo, ancora una volta): il dialogo tra il boss ed il giovane ‘sfidante’ si conclude così:

– E dell’avvenire cosa pensate?

E don Salvatore:

– Questo paese non ha avvenire. L’avvenire sarà come il passato.

Schegge e variazioni sul tema

Il film di mafia è ormai diventato un genere, dicevamo, al pari del western, e come il western possiede ormai delle regole codificate. Ma non basta: sembra che alcuni topos del genere vadano ad estendersi, a contaminare, in qualche caso ad infettare altri generi ed altre produzioni. Troppi film made in Usa mostrano una violenza sciocca, banale e normale, senza senso e solo a fini spettacolaristici. Le pistole, i ferimenti, gli inseguimenti, gli schizzi di cervelli e le canne puntate alle tempie sono sempre più spesso espedienti per produrre adrenalina, distrarre o coinvolgere lo spettatore, propinargli roba “che funziona” e assicura sempre buoni incassi.

Purtroppo, in tal modo si legittima il criminale che in tante pellicole finisce per diventare un eroe. In Italia, e speriamo che sia ancora così nei prossimi anni, la situazione è diversa: un mafioso non è un eroe. Il termine gangster, che poi equivale a mafioso, sembra ormai avere un’accezione quasi positiva: uomini eleganti, Cadillac nere lucenti, il ritmo del rag-time. Ascoltiamo un “insospettabile”, Woody Allen intervistato qualche anno fa:

– “Ha di nuovo usato un gangster, anche se in un contesto poco adatto”.

– “Sapete che mi piacciono i gangster. Li ho già utilizzati di quando in quando ma mi piacerebbe girare un vero film di gangster, un altro tema classico americano”.

Intervista a Woody Allen, Positif, 432/febbraio 1997.

Il cinema è anche un’industria, e il film di mafia “funziona” ancora molto. Molti registi, pur non girando gangster movies in senso stretto, affrontano comunque alcuni temi del genere. Tra i tantissimi, va segnalato La 25a Ora (2002) di Spike Lee, ennesimo film ambientato a New York ed ancora uno sguardo sulle comunità di migranti. Adesso, accanto ai soliti italiani, irlandesi, cinesi sono arrivati i russi, con i loro metodi e la vecchia-nuova brutalità.

Dogville (2003)  del regista sperimentale Lars Von Trier è un film del tutto diverso, che mostra la brutalità che si nasconde dietro l’apparente tranquillità di una pia comunità della provincia americana, un villaggio (la città dei cani, appunto) ai piedi delle Montagne Rocciose. Qui i gangster arrivano solo alla fine del film e svolgono una curiosa funzione, quella di “angeli vendicatori” della donna seviziata dagli abitanti della cittadina. Al posto di spade sfolgoranti hanno i mitra, e puniscono senza pietà tutti gli abitanti, i quali ignoravano che loro vittima era la figlia del potente boss in fuga da un ambiente in cui non si riconosceva.

Ennesima variazione sul tema, City of God (2002) del regista brasiliano Fernando Meirelles. Siamo nella favelas più malfamata di Rio, “la città di Dio” appunto, dove la violenza non è come a New York un metodo per arricchimenti facili e veloci ma uno strumento per sfuggire alla fame. Le bande sono composte sia da adolescenti che da bambini piccolissimi. Il protagonista non fa parte di nessuna banda, vorrebbe solo fare il fotografo, ma non si contrappone all’ambiente in cui è nato ed alla fine appare spaesato nel crescendo parossistico di violenze contrapposte (meninos contro spacciatori, polizia contro bande, trafficanti contro altri trafficanti).

L’unica “speranza” sembra una fuga perenne, nel tentativo di evitare una pallottola che nella insensata guerra finale di tutti contro tutti può sempre colpirti. Senza alcun motivo, senza che tu ti sia contrapposto ad alcuno.

Bibliografia

Autori vari (G. Bufalino, S. Gesù  e altri)

1993
La Sicilia e il cinema, Maimone editore, Catania.

Peter Bondanella

2004
Hollywood Italians – Dagos, Palookas, Romeos, Wise Guys, and Sopranos,
Continuum, New York

Alberto Crespi

2003
Recensione su “I cento passi”,

http://www.film.tv.it/recensione.php?film=20274

Eschilo – Pierpaolo Pisolini (traduzione)

1960        Orestiade,
INDA, Siracusa.

Goffredo Fofi

1997        ‘Fuori il
rospo!’ – cinema e mafia, in Narcomafie, n.10/5 ottobre.

Massimo Onofri

1996        Tutti a cena
da don Mariano – letteratura e mafia nella Sicilia, Bompiani, Milano.

Giuseppe Pitrè

1978        Usi, costumi,
credenze e pregiudizi del popolo siciliano,    Il vespro,
Palermo (prima edizione 1887).

Umberto Santino

1998        Delitto
Impastato. Vent’anni dopo, in Città d’Utopia, Catania.

Giovanni Scarfò

1990        La Calabria
nel cinema, Periferia, Cosenza.

Leonardo Sciascia

1970        La corda
pazza, Einaudi, Torino.

1989        La Sicilia
come metafora, Mondadori, Milano (prima edizione 1979).

Gian Antonio Stella

2002
L’Orda – Quando gli albanesi eravamo noi, Rizzoli, Milano.

Filmografia

In ordine cronologico

“The Black
Hand” (Usa 1906)

Mervyn
LeRoy,  “Little Cesar” (Usa 1930)

Pietro Germi,
“In nome della legge” (Italia 1949)

“The
Untouchables” – serial – (Usa 1959)

Francesco
Rosi, “Salvatore Giuliano” (Italia 1961)

Elio Petri,
“A ciascuno il suo” (Italia 1967)

Damiano
Damiani, “Il giorno della civetta” (Italia 1968)

Francis Ford
Coppola, “Il padrino” (Usa 1972)

Francis Ford
Coppola, “Il Padrino – Parte seconda” (Usa 1974)

Pasquale
Squitieri,  “Il prefetto di ferro” (Italia 1977)

Damiano
Damiani,  “Pizza connection” (Italia 1985)

Giuseppe
Ferrara, “Cento giorni a Palermo” (Italia 1984)

Sergio
Leone, “C’era una volta in America” (Italia – Usa 1984)

Brian De
Palma, “Gli intoccabili – The Untouchables” (Usa 1987)

Michael
Cimino, “Il Siciliano” (Usa 1987)

Aurelio
Grimaldi, “Mery per sempre” (Italia 1990)

Francis Ford
Coppola, “Il Padrino – Parte terza” (Usa 1990)

Martin Scorsese,
“Goodfellas – Quei bravi ragazzi” (Usa 1990)

Aurelio
Grimaldi, “Ragazzi fuori” (Italia 1991)

Giuseppe
Ferrara, “Giovanni Falcone” (Italia 1993)

Daniele Ciprì
e Franco Maresco, “Lo zio di Brooklyn” (Italia 1995)

Roberta
Torre, “Tano da morire” (Italia 1997)

Pasquale
Scimeca, “Placido Rizzotto” (Italia 2000)

Marco Tullio
Giordana, “I cento passi” (2000)

Spike Lee,
“La 25a Ora” (Usa 2002)

Fernando
Meirelles, City Of God (Brasile – Usa – Francia 2002)

Antonio
Capuano, “Luna Rossa” (Italia 2003)

Lars Von
Trier, “Dogville” (Danimarca – Germania – Italia 2003)

“The
Sopranos” – serial – (Usa 2004)

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La Spoon River dei braccianti

Otto eroi, italiani e no, uomini e donne.
Morti nei campi per disegnare un futuro migliore. Per tutti.
Figure da cui possiamo imparare, non da compatire.

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Laterza editore

Lo sfruttamento nel piatto

Le filiere agricole, lo sfruttamento schiavile e le vite di chi ci lavora


Nuova edizione economica a 11 €

Lo sfruttamento nel piatto

Ricominciano le presentazioni del libro! Resta aggiornato per conoscere le prossime date