Da nord a sud, lo sfruttamento in agricoltura si estende e adesso riguarda in maniera estesa anche i rifugiati.
Ma la situazione appare frutto della “necessità” e non delle scelta, grazie a un luogo comune sempre più diffuso. “Se pagassimo di più i raccoglitori, le arance rimarrebbero sugli alberi”, è una frase spesso rilanciata dai media. Lo dicono i piccoli produttori interrogati sulle paghe dei braccianti.
Che non si possa pagare di più è falso per questi motivi: i salari bassi ci sono sempre stati, anche in tempo di “vacche grasse”. A Rosarno, per esempio, erano molto diffuse le truffe all’Unione Europea. Le “arance di carta” permettevano redditi alti – anche se fraudolenti – ai produttori calabresi. Ma la paga degli africani era la solita, all’epoca 20mila lire. Oggi, invece, sono abbastanza diffusi i kiwi, una coltivazione molto più redditizia delle arance. Ma anche in questo caso le paghe non sono più alte.
Infine, anche in Piemonte (Saluzzo e Canelli) ci sono forme di grave sfruttamento pur in presenza di economie ricche.
In Toscana, nelle ricche zone del Chianti, aziende di alto livello usavano i rifugiati.
Lo sfruttamento, quindi, non è un prodotto della “necessità”, ma dall’assenza di contrappesi. Quando il “padrone” opera senza controlli, impone le condizioni che preferisce.