Se c’è un elemento che ha rovinato le nostre vite, quello è il debito. Ha determinato la politica europea, quella nazionale e degli enti locali. Ha imposto il blocco delle assunzioni e degli stipendi nel pubblico impiego. Ha deciso la distruzione del welfare e del ruolo dello Stato nella programmazione economica. In poche parole, ha trasformato il liberismo in un destino indiscutibile.
Di contro, ha determinato le reazioni sovraniste, populiste e nazionaliste alle politiche europee, che hanno assunto derive xenofobe, complottiate, semplicistiche.
Per un elettorato sempre più deluso, l’offerta politica è diventata sempre più misera. Per gli elettori di sinistra, è diventato frustrante votare per i difensori dell’austerità, spesso sostenitori di governi tecnici.
Tutto è nato ormai trent’anni fa. Dagli anni ’90 in poi, infatti, la riduzione del debito è diventata un dogma. Tanto da entrare in Costituzione attraverso il pareggio di bilancio. Si è invece discusso pochissimo di come ridurre il debito. Perché la ricetta data per scontata è quella liberista: riduzione della spesa, privatizzazioni, sostegno alla crescita economica, aumenti dell’età pensionabile, compressione dei salari e precariato lavorativo.
Dopo trent’anni di applicazione di queste politiche, possiamo serenamente affermare che sono fallite. Oggi abbiamo bassa crescita, aumento delle disuguaglianze e un’enorme massa debitoria.
Ragionare sul tema
Il libro «Lo strano caso del debito italiano» prova a ragionare sul tema. Per prima cosa, nota che il caso italiano, fino a poco tempo fa anomalo, è ormai considerato ordinario: quasi tutte le maggiori economie sono alle prese con il problema, senza riuscire a ridurlo. Quello che ai tempi di Maastricht era assolutamente inaccettabile, oggi è la normalità.
In secondo luogo, prova a raccontarne la storia. L’esplosione del debito pubblico in Italia è sempre stato legato alla guerra: d’indipendenza, coloniale oppure ai due conflitti mondiali.
Negli anni ’80 arriva la prima grande esplosione non legata a un conflitto. È stato raccontato come «aver vissuto al di sopra dei propri mezzi», assecondati da una classe politica corrotta e incosciente: «L’idea era che l’inefficienza dell’economia italiana fosse dovuta alla politica assistenzialista dello Stato, alla corruzione e al lassismo».
In realtà si è trattato piuttosto di un patto sociale che accontentava tutti: la grande industria che aveva a disposizione un mercato interno ancora florido, le classi lavoratrici che godevano di sostegno e servizi. In parole povere, «una scelta a sostegno dell’industria e tesa alla pace sociale».
Del resto l’indebitamento in quel periodo non suscitava allarme: «Nei Settanta e Ottanta, il debito pubblico era sostanzialmente finanziato internamente». Il periodo successivo sarà invece dominato dalla finanza internazionale, «con il risultato di avere una quantità di creditori esteri più sensibili allo stato di salute e alle prospettive del paese che emetteva titoli di debito».
Un capitale assistito
La politica del debito parte da una esigenza fondamentale. Con un’industria privata fragile, poco competitiva, incapace di innovazione e attenta principalmente al basso costo del lavoro, il sostegno pubblico diventava fondamentale.
Un “capitale assisistito” che si è concretizzato per anni nell’assorbimento pubblico di imprese decotte, nel pre-pensionamento di massa per evitare licenziamenti (quindi comunque sostegno al mercato interno), nei sussidi per le imprese concessi a pioggia e con generosità.
A questo si aggiunge la tolleranza per l’evasione fiscale, anche questa in ultima analisi una “misura” che favorisce gli imprenditori e il capitale privato. L’evasione si stima in 100 miliardi di euro l’anno di mancate entrate per lo Stato.
Questo ha permesso “il più basso tasso d’indebitamento delle imprese di tutti i principali paesi industrializzati”, sia per la scarsa propensione a investire e innovare, sia per il sostegno statale. Tutto ciò, ovviamente, al prezzo di un colossale indebitamento pubblico.
Persino il boom degli anni ’60 si è basato sulla grande abbondanza di manodopera a basso costo, in genere operai provenienti dal Sud. Da allora è rimasta una costante del sistema produttivo italiano: la concorrenza sul prezzo e della specializzazione in settori a basso valore aggiunto.
Ecco perché l’Italia ha sofferto più di altri la crescita della Cina, specie nella fase in cui è diventata “fabbrica del mondo”. Ecco perché molti gruppi di interesse guardano con favore al ritorno dei blocchi, a nuovi confini e barriere commerciali.
Una “deglobalizzazione selettiva” in cui l’Italia tornerebbe a essere competitiva nella divisione internazionale del lavoro, mantenendo ovviamente la sua caratteristica di bassi salari: «Dal 1991 al 2022 i salari italiani sono diminuiti di quasi l’1% in termini reali, mentre nello stesso periodo negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono aumentati di oltre il 40%, in Francia e Germania di oltre il 30%, in Grecia e Portogallo di oltre il 15%».
Le tendenze in atto sarebbero queste: deglobalizzazione selettiva, crescita strutturale dell’inflazione, mantenimento del basso costo del lavoro, ritorno ai blocchi (e quindi mercati protetti), ruolo dell’Italia come export a basso costo in cambio di maggiore protezionismo nei confronti della Cina.
In chiave populista, l’uscita dalla globalizzazione verso economie nazionali viene visto come il ritorno a un’età prospera e sicura. Ma non sarà così semplice. Per esempio, «il protezionismo post-crisi globale e i processi di deglobalizzazione selettiva favoriscono un aumento dei costi di produzione». Come conviverà l’Italia con inflazione e bassi salari?
L’inflazione è anche una strategia anti-debito: favorisce i debitori, ma ovviamente penalizza i creditori.
Tutto inizia negli anni ’90
Va sicuramente riscritta la storia economica degli anni ’90, a partire dalle privatizzazioni. «I capitani d’industria italiani predilessero l’acquisizione dei comparti ove era garantita principalmente la rendita, alcuni marchi finirono per diventare obiettivi a corto raggio di attori stranieri, impoverendo l’impresa italiana nel suo complesso».
Il privato divenne una sorta di religione, con un dogma principale: che fosse di per sé più efficiente del pubblico. Anche nonostante le evidenze: «Proprio durante il periodo più intenso delle privatizzazioni, cioè tra il 1995 e il 2009, le sole Eni ed Enel fornirono allo Stato dividendi per 37 miliardi di euro, con una percentuale di distribuzione degli utili che si avvicinava al 75%. Per non parlare di un certo furore ideologico che portò alla privatizzazione di società monopoliste e redditizie come autostrade o strategiche come Telecom».
Successivamente, con la de-industralizzazione, l’Italia divenne «una società dei servizi con una larga quota di occupati sempre più precari e con un reddito minore».
Dagli anni 2000 in poi, nell’epoca della grandi crisi, l’ortodossia liberista su cui si è costruita l’Europa ha limitato i rimedi: «La BCE per statuto non poteva acquistare titoli di debito pubblico direttamente dagli Stati come dal 2010 iniziò a fare la Fed. Un divieto statutario che rispondeva a una logica per cui è il mercato a premiare e punire, e quindi a indirizzare, le politiche economiche».
Ma con le gravi crisi cicliche (2008, Covid, Ucraina), lo scenario è cambiato: «Negli ultimi quindici anni l’immissione di moneta attraverso l’acquisto di titoli privati, ma in particolare pubblici, nei circuiti economici sia stata la principale, se non l’unica, arma per contrastare le crisi».
Dopo aver ripetuto per decenni “non ci sono soldi”, l’apparato pubblico si è trovato completamente impreparato quando i soldi sono arrivati. Il Pnnr, per esempio, è privo di visione. Progetti a pioggia, di corto respiro.
Così come di corto respiro è stata il dibattito sul tema. Come osserva in Piketty, inflazione e austerità, non sono le uniche soluzioni: c’è anche tassazione sul capitale.