Non ho molti anni. Quelli che ho, li ho buttati ad uno ad uno. Adesso, adesso che è finita, non rimpiango niente. Come è cominciata? Come tante altre volte: giro per la Stazione, come al solito, come tante altre volte. Niente. Alla Stazione c’era la svizzera, quella che fa la vita a sessant’anni, poveretta. C’era quello dei cessi. I cessi della Stazione.
Ci sono quelli che giocano a carte sul cassonetto. Usano il cassonetto come il piu’ misero dei tavoli da gioco. Niente: vado a casa, mi doveva telefonare l’amico mio: era ieri sera, domenica sera, erano le 9 di sera, ero a casa: “casa”, diciamo il buco, una stanza più il cesso. L’amico mio si chiama Salvatore, va sempre a ballare, lui, ha i soldi perché spaccia, anche roba pesante, sì, pure io ogni tanto un po’ d’erba, però nel giro piccolo.
Io ho paura dei grossi, troppe pistole, coltellate. Una coltellata a sbagliare di un grammo. Troppo rischio. Non mi piace la roba. I soldi si trovano: certo, ti devi accontentare. Con la roba non hai bisogno di accontentarti. Puoi andare a ballare nelle discoteche, a Taormina, coi signori, balli con i signori e con le figlie dei signori, le tocchi, ci stai vicino.
Con la roba, tu, che sei nato nelle baracche, parcheggi accanto alle Mercedes, li guardi negli occhi mentre chiudono lo sportello col telecomando, senti frusciare le gonne leggere delle loro donne, aspiri l’odore delle pelli abbronzate delle ragazze.
***
Ecco, nella vita, due sono le categorie: i ragazzi con i soldi e i ragazzi senza soldi; quelli con i soldi si alzano a mezzogiorno e vanno a letto alle due, alle tre di notte, quando vogliono; quelli senza soldi si rompono il culo e buttano sangue, sputano l’anima ogni giorno. L’anima, ogni giorno. Per quattro soldi, tutti i giorni.
Si erano fatte le 10. E Salvatore non telefonava. Me l’aveva detto, cornuto lui, che telefonava. E ora che fa ? Non chiama. Ci spaccassi le ossa,[1] quando fa così.
Me l’aveva detto, ti passo a prendere, con gli amici miei, andiamo a divertirci. Si erano fatte le 10 e mezza. Si erano fatte le 11. Io ero già pronto, gli stivali, quelli nuovi, quelli gialli. Il pantalone era vecchio, di un anno, però pareva nuovo. Il maglione era quello un po’ consumato ai gomiti; poco, però, stando attenti nemmeno si vedeva. Ne avevo un altro di maglione, verde, però non mi piaceva tanto, anche se era nuovo. Il giubbotto era quello solito, un po’ consumato, tanto appena entravo dentro me lo toglievo, e nessuno lo vedeva, perciò andava bene.
Erano le 11, ormai pensavo: non chiama più, meglio che me ne vado a curcarmi,[2] poi domani mattina vado a farmi una partita a carte con gli amici miei alla Stazione e quando vedo a Salvatore ci rompo le corna.
Alle 11 e 10, il telefono fa uno squillo. Corro a rispondere, mi butto sul telefono. “E che, adesso ti ricordi?”, gli dico.
Mi fa: “Eh, adesso! E non lo sai, i signori prima di mezzanotte non si presentano! E manco le fimmine!”.[3]
Sento ridere, dall’altra parte del filo. Quando fa così ci piantassi [4] il coltello nel cuore. Va bene, va bene, a mezzanotte.
“E che fai, passate a prendermi?” “Venti minuti, aspetta davanti al portone”.
Salvatore sta al villaggio G., deve fare tutta la discesa e poi un pezzo della strada statale, poi deve salire verso casa mia, nella zona tra le baracche e le case popolari. Deve stare attento perché a quest’ora è tutto buio. Arriva puntuale, con la Fiat Uno tutta ammaccata, ci manca pure un fanale. Ha lo stereo acceso, si sente per tre isolati. Se si sveglia qualcuno, scende e ci prende a fucilate.
Si ferma sgommando. Ci sono altre tre persone in macchina. Fanno ‘bbuci come se sarìano dieci. [5]
Uno è Mario, lui lo conosco, l’altro mi sembra il cugino di Nino, ma non sono sicuro.
Sta seduto dietro, mi vede e fa: “Mamma mia, mi pari ‘nu signurinu”. “Stasera fai faville”, fa Mario.“‘Nu figurino, mi pari, stasera ti sposi e fai pure ‘du picciriddi”.[6]
Gridano, ridono tutti insieme, io tengo paura che svegliano a qualcheduno e finisce a schifìo.[7]
Perciò salgo, mi metto dietro. Partiamo subito. Salvatore accelera, fa una gran frenata e riparte sgommando. Alza il volume dello stereo, gli piace la musica tecno e aus.
Dove andiamo? “Dove si paga poco, non ti preoccupare” “Dieci euro” “Picca” mi viene da dire. “Picca, per un pezzente come ‘a tìa”, [8] dice quello che non conosco, e tutti a ridere.
Andiamo all’Excelsior Pub, che si trova dall’altra parte della città, dobbiamo attraversare il centro e andare sulla zona del mare, dal lato del Tirreno: passando si vedono le luci della Calabria, guardando dall’altro lato del mare, si vede la Calabria e le luci, perché c’è Villa San Giovanni tutta illuminata. Quando passa il traghetto è tutto pieno di luci che pare un transattlantico.
***
Io abito dall’altra parte, dove non si vede mai il traghetto che va in continente. Solo qualche mercantile che passa. È brutta quella zona: la parte sul Tirreno, dopo la punta del Pilone, invece mi piace. Peccato che ci vado solo la domenica sera; se mi vengono a prendere.
Arriviamo verso l’una, il posto è bello. C’è l’insegna grande e ci sono i neon gialli e viola. Entriamo, io gli do subito il giubbotto alla signorina all’entrata e lei mi dà il biglietto (ora lo so come si fa, la prima volta me lo sono tenuto tutta la notte per paura che me lo fottevano [9]).
Sopra c’è la paninoteca dove si mangia, sotto c’è una specie di scantinato dove ci hanno fatto la discoteca. Sopra e sotto c’è la musica tecno, quella che mi piace assai. Per parlare si deve gridare, se no non ti sente nessuno. Io voglio andare di sotto, a ballare. Salvatore mi guarda come si guarda un bambino che non capisce, mi fa: “E aspetta! Prima ci prendiamo un panino!”. Gli altri hanno un sorrisetto, poi cominciano a guardare due, una bionda e una bruna, con la minigonna tutt’e due: le guardano e ridono.
Finalmente scendiamo giù. Ora comincia la caccia. La musica è forte, le luci fanno vedere a stento. Mario e Salvatore sono a un tavolo, con le due stronze, vanno subito a ballare. L’altro (quello che non conosco) sta sulle spine, si guarda intorno. Vediamo due che stanno in disparte, l’altro mi fa: “Andiamo, vieni. Non avere paura e fai quello che faccio io”.
Ci avviciniamo, sorridendo. “Appena sono entrato mi è sembrato di vedere il sole” fa lui, come il bambino che recita la poesia. Le due sembra che non capiscono, una si avvicina all’orecchio dell’altra, dice qualcosa e scoppiano a ridere insieme. C’è fumo, luci a intermittenza e la musica mi fa scoppiare il cuore. Mi sento nervoso.
“Volete ballare?” Altra risata, proprio in faccia. Così. Vedo che lui diventa rosso. Io non ho detto una parola. Le due si guardano negli occhi, poi si girano dall’altra parte, dalla parte dei cessi. Due bestioni stanno uscendo, si stanno ancora aggiustando la cerniera, appena ci vedono accanto alle due stronze fanno la faccia cattiva.
L’altro (quello che non conosco) vuole andare fino in fondo, ha la faccia tutta rossa, io lo so come va a finire, appena quelli iniziano a parlare sento che hanno l’accento di Catania, qua finisce a schifìo, se si avvicina Salvatore qua finisce male, a bastonate, a colpi di coltello.
“Che vogliono questi due coglioni?”
“Niente, niente”, faccio io, “l’ora, volevamo sapere l’ora”.
“E ve l’hanno detta, l’ora?
“Sì, sì, ce l’hanno detta
“E allora che cazzo fate ancora qui?
“Niente, niente, ce ne andiamo subito…
Trascino l’altro per il braccio, lui ancora li guarda storto, si gira e li guarda storto… Ce ne andiamo dall’altro lato dello stanzone.
“Se racconti a qualcuno questa storia t’ammazzo”, fa lui.
***
A nessuno la racconto, non ti preoccupare. Serata di merda! L’altro si trova una troietta che stava in un angolo, di quelle da venti. Poi li intravedo con Salvatore e Mario e le altre, vanno a farsi.
Estasi. A me non mi piace. Serata di merda: quattro ore seduto al tavolo con la birra davanti, mentre tutti si dimenano. Si fa giorno. Le ragazze se ne vanno tutte, Mario cerca di bloccarne una tirandola per la giacca, ma lei si divincola e se ne va ridendo. Ridono tutti. Arrivano, i tre amici miei. Sono strafatti: “Tutta la notte ha scopato”, fa Mario. “Guardatelo, tutta la notte !”. E ridono. “Una se l’è presa, lei non voleva ma lui l’ha presa a forza!” E ridono.
Usciamo (vorrei morire). Andiamo verso la macchina, il sole è già spuntato da dietro le montagne. Siamo a due metri dalla macchina, siamo nel parcheggio, fuori dal locale, ci avviciniamo alla macchina, vediamo un’altra vettura che fa marcia indietro, velocemente, gira (fa per uscire dal parcheggio), gira a marcia indietro e centra in pieno il fanale posteriore nostro, che va in frantumi. Gli occhi mi cadono sulla targa: “CT”. Siamo fottuti, penso.
Grida “che cazzo fate” “ma dove cazzo guardate” erano cinque persone fatte e strafatte ancora ‘bbuci, grida, vedo Mario che afferra uno dei catanesi per il collo, allora il bestione prende a Salvatore e lo tira per i capelli e l’altro (quello che non so il nome) non ci vede più dagli occhi va ad aprire il cofano e prende il cric, quello per sollevare la macchina, lo prende come se era una mazza e cerca di colpire un catanese, che si scansa; poi un catanese mi dà una manata sulla faccia, mi fa cadere a terra. Sento il sangue in bocca. Mario e uno dei catanesi sono a terra e si rotolano, si danno pugni.
Sento il sangue in bocca vedo il cric a terra vedo un catanese che si avvicina e mi dà un calcio sullo stomaco Salvatore lo afferra da dietro vedo il cric accanto a me lo prendo non ci vedo più sento il sangue che comincia a scendere dal naso non ci vedo più vedo il catanese davanti e Salvatore che lo tiene da dietro non ci vedo più non sento neanche le braccia vedo solo una striscia di sangue ma non so che è successo.
***
Me l’hanno spiegato qui, in Questura, che ho colpito a Salvatore. Ora sta al Policlinico. Ho sentito che c’ha la prognosi riservata. Non so cosa è ma deve essere una cosa grave.
Lo sbirro mi ha detto che non esco più.
“Non c’e’ nenti ‘pa iatta”. Non c’è niente per la gatta, ripete. Metaforicamente: non c’e’ niente da fare.
Niente è una parola che mi ossessiona da sempre. Io ho sempre vissuto nel niente. Sono nato per non vivere.
“Non c’e’ nenti ‘pa iatta“, ripete.
Ma io piuttosto di stare chiuso mi taglio le vene col rasoio con i vetri con tutto ma in galera non ci vado.
Lo scriva, lo scriva sopra il giornale, che mi ammazzo ma in galera non ci vado. Non è che voglio piangere ma in galera ci dovrebbero andare altri, quelli che hanno i soldi, perché se i soldi ce li avevo pure io a me non mi succedeva tutto questo e c’avevo tutte cose e il matrimonio e la famiglia e gli amici buoni che mi volevano bene. Non così. Lo scrivesse dentro il giornale, ora che ci ho raccontato tutto, ce lo mettesse che devono attaccare [10] tutti gli altri, tutti meno che a me: è venuto uno del Comune a casa mia, un giorno è venuto, mi ha detto che fa l’assistenza ai sociali, non ho capito bene, mi ha detto che sono a rischio, che sono deviante, ma che vuoi – gli ho detto – devo andare a ballare devo mettermi i vestiti devo fare tutto ma come devo fare? Me li dai tu i soldi? Me li dai tu gli amici buoni e la casa dove non ci piove dentro?
Dammeli tu e non sono più deviante. Non me li ha dati. Domani mi taglio le vene con i vetri.
[1] Gli spaccherei le ossa. Le costruzioni grammaticali sono spesso un misto tra italiano e dialetto.
[2] A coricarmi, a dormire
[3] E neanche le donne
[4] Gli pianterei
[5] Gridano (lett., fanno voci) come se fossero…
[6] Mi sembri un figurino, (…ti sposi) e fai anche due bambini
[7] Svegliano qualcuno (…e poi) finisce male
[8] Poco, per un pezzente come te
[9] Che me lo rubavano
[10] Arrestare