
Questa non è una terra immobile
Nell’immaginario comune il Sud – e la Calabria in particolare – sono terre dominate dalla mafia, dal fatalismo e dal “familismo amorale”. Invece, basta approfondire per scoprire una storia sconosciuta, nobile, a tratti eroica. Dall’occupazione delle terre all’organizzazione in cooperative, dall’omicidio Valarioti fino alle lotte di massa contro la mafia, dallo scontro sulla centrale a carbone fino alla prima giunta di sinistra accolta con un capodanno di fuoco. Una storia che inizia negli anni ‘50 e prosegue fino al 2003.
Giuseppe Lavorato è forse l’unico che può raccontare quelle vicende, perché ne è stato testimone e protagonista. Con lucidità ricollega le lotte dei braccianti e i valori universali che rappresentavano ai migranti presenti a Rosarno.
Con lucidità rappresenta un’antimafia sociale, capace di parlare al popolo: “Non date i voti alla mafia, perché mentre essa si arricchisce mette in pericolo i vostri figli, che attratti dalle sue lusinghe vengono utilizzati e talvolta uccisi”.
E soprattutto invita a non generalizzare, a distinguere la minoranza che opprime – con la violenza e la minaccia – dalla maggioranza oppressa, che reagisce quando si presenta la giusta opportunità.
Dall’introduzione di Andrea Segre
Chi pensa di trovare in queste pagine un’autobiografia si sbaglia. Non c’è una sola pagina che ceda alla tentazione di rinchiudere il respiro della storia dentro alla prospettiva troppo stretta di una singola vita. Ogni pagina, quasi ogni paragrafo sono dedicati a persone con cui Peppino ha camminato insieme, senza lesinare scontri e conflitti. Persone di ogni epoca, di ogni terra, di culture e di generazioni apparentemente diverse e lontane. Persone con cui Peppino sembra essere capace di camminare insieme a distanza di decenni.
Come quando nel 2011 si ferma insieme ai braccianti africani davanti alla casa di Giuseppe Valarioti a salutare la vecchia madre commossa. Peppino ci porta in mezzo a loro, non si mette davanti a noi, ma ci lascia stare lì, nel cuore delle loro e nostre vite. Questi sono i protagonisti del libro di Giuseppe Lavorato. Sono uomini e donne di uno dei luoghi meno conosciuti e più maltrattati d’Italia e d’Europa, la Piana di Gioia Tauro e le zone limitrofe. Uno dei luoghi che se ascoltato attraverso la memoria densa di Peppino assume invece il carattere fondamentale, quasi epico, di metafora della storia umana e sociale dell’Italia dal dopoguerra ad oggi.
Le dinamiche economiche e politiche che accompagnano i ricordi di Peppino sono essenziali per capire cosa è successo e dove siamo arrivati. Sono tanti i percorsi che permettono di attraversare questa storia per poterne trarre insegnamenti da cui avere il coraggio di ripartire. Ce n’è uno però che mi sembra fondamentale sottolineare: è quello che traccia una linea di connessione chiara tra partecipazione sociale, potere economico e organizzazione mafiosa.
Dalla prefazione di Aldo Tortorella
“Questo libro che Giuseppe Lavorato ha scritto sulla sua Rosarno – sulle donne, sui giovani, sugli uomini che la abitarono e che la abitano – non riguarda unicamente un luogo della Calabria, non appartiene soltanto a quelle memorie che vengono classificate nella categoria delle storie locali. Questo libro riguarda la storia dell’Italia.
È un libro di memoria e di storia, e di questo c’è sempre un bisogno vitale ma particolarmente oggi nel passaggio politico e sociale che stiamo vivendo.
Perciò il libro di Lavorato è prezioso. È un documento, ed è anche un racconto fitto di nomi, di ritratti, di episodi che il tempo e l’incuria o la irriconoscenza umana tendono a cancellare. Ma una persona, un partito, una nazione che perdono la memoria della propria storia – o si affidano solo alla deformata narrazione dei vincitori – perdono se stessi e la propria funzione nel mondo. Dobbiamo essere grati a Lavorato, anche per questa sua fatica di scrittore.”