Storia di Momo, il primo condannato per caporalato a Saluzzo

L’ennesimo africano che dorme alla stazione

  Lo scorso aprile il Tribunale di Cuneo ha emesso le prime condanne per caporalato a Saluzzo. Coinvolte due aziende e un burkinabé. Un criminale che sfruttava una rete di braccianti o un africano alla ricerca di una vita migliore?
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“Non volevo essere l’ennesimo africano che dorme alla stazione”, dice Moumouni Tassembedo, trentenne originario del Burkina Faso. Di fronte a lui ci sono i giudici del Tribunale di Cuneo. Dietro, una folla di giornalisti. Uno di loro annota: l’imputato si esprime «con una sorprendente padronanza di linguaggio».

È l’aprile del 2022. Si sta celebrando il primo processo per caporalato a Saluzzo. Un fenomeno negato per anni da politici locali, imprenditori agricoli e gente comune, offesi dalla definizione “Rosarno del Nord” affibbiata al loro aristocratico paese.

Una manna dal cielo

«È una colpa avere studiato, imparato l’italiano, preso la patente?» continua Tassembedo, detto “Momo”. Intende dire che era uno dei pochissimi  in grado di rispondere elle esigenze delle aziende. In pratica, per loro, era una manna dal cielo. Conosce cinque lingue, è capace di mettere in connessione  padroni piemontesi e lavoratori africani, sa in tempo reale chi si trova a Rosarno, chi in Spagna, chi sta per tornare a Saluzzo. “Un piccolo patronato vivente che risolve i problemi”, lo definiscono. Per l’accusa è invece il centro di un ramificato sistema di sfruttamento che si basa anche sull’intimidazione e il ricatto.

In ogni caso, in attesa del processo, fa sette mesi di custodia cautelare nel carcere di Cuneo. Nel frattempo, non lavora più. E, come prefigurato dai suoi incubi, dorme davvero in stazione, a Ventimiglia. Infine, in primo grado, lo condannano a cinque anni.

Tutto si gioca su una linea sottile. In molti, come il cronista che si meraviglia della sua “proprietà di linguaggio”, immaginano il caporale come un buzzurro con frusta e ghigno da cattivo. A volte è così, ma spesso è semplicemente un bracciante che prova a fuggire dalla miseria.

Il confine tra ascesa sociale e sfruttamento del lavoro non è facile da definire. Occorre prima rispondere a una serie di domande. In base alle risposte, i giudici decideranno se Momo è un caporale o un bracciante che ha fatto un po’ di strada.

Prima domanda: l’imputato trattiene per sé una parte delle paghe oppure fa semplicemente da tramite? E ancora: guadagnava più o meno dei braccianti che procacciava? Infine, usava un linguaggio minaccioso e intimidatorio?

La difesa sostiene che da lui transitavano i soldi, cioè le trattenute sulle paghe richieste dai padroni per l’alloggio: 50 euro al mese per la casa e 30 per acqua, luce e gas. Guido Savio, avvocato di Momo, ricorda che Momo era sfruttato quanto gli altri: vittima e imputato insieme. Avrebbe lavorato una media di 10,35 ore giornaliere. La più alta.

Non sarà mai quella vera

A un certo punto Momo spiega ai braccianti africani che la paga segnata sul contratto non sarà mai quella vera: «Anche per me è stato così, io sono stato il primo a cui hanno fatto così».

Pure i padroni sono d’accordo: il sistema è questo. Uno degli imputati sostiene: «Nel nostro settore la prassi è quella, una parte dello stipendio viene data in nero, su questa si risparmiano i contributi. In questo settore non c’è nessuno che segna tutto».

Finite le ammissioni, come si difendono i padroni? Per prima cosa col classico “non sapevamo”. Non eravamo a conoscenza che Momo chiedesse soldi ai braccianti, dicono. E poi: abbiamo fatto degli errori, sapevamo di dover inserire in busta paga le ore giuste, ma non abbiamo commesso nessun illecito penale. E poi, cosa altro potevamo fare? I canali ufficiali sono lenti, poco elastici e non aggiornati. Meglio ricorrere a un mediatore abile che in poco tempo procura la forza lavoro necessaria.

Infine arriva la più insidiosa delle annotazioni difensive: noi pagavamo fino a sei euro l’ora, il contratto legale ne prevede 5,60.

Come risponde l’accusa? Le vittime facevano il doppio turno, di mattina a raccogliere la frutta e di notte a smistare polli. Si parla di un picco di 13 ore giornaliere. Cinque euro l’ora la paga media. Sono tutte caratteristiche del grave sfruttamento.

La colonia in montagna

Un altro punto dell’accusa sono le condizioni alloggiative. Se sono degradanti, si configura lo sfruttamento. Anche in questo caso le opinioni divergono.

«La casa usata dal mio assistito per l’ospitalità dei braccianti si presenta come la colonia in montagna dove andavo da ragazzo», afferma l’avvocato dei padroni.

«Ho visto albanesi vivere in case che sono peggio del carcere dove mi trovo adesso», dice Momo riferendosi a un’altra situazione.

Negli ultimi anni era diventata prassi dormire in azienda. Un’altra decurtazione dallo stipendio, ma almeno hai un tetto sulla testa. Secondo l’accusa, occorre pagare 50 euro al mese per stare in sei in quindici metri quadrati, senza riscaldamento. 

L’orario di lavoro è un ulteriore indice dello sfruttamento. Secondo Adama, un africano che ha fatto denuncia facendo iniziare tutto il procedimento, «potevamo fermarci quando lui ci diceva che avevamo finito».  Racconta che è arrivato a lavorare anche fino a undici ore e mezzo di fila per cinque euro lordi all’ora. «Lavoravamo [fino a] 26 giorni in un mese, mentre sulla busta paga erano segnati soltanto 3 o 4 giorni di lavoro», spiega Adama. E «ti potevano mandare via quando scadeva il contratto dicendo che non c’era più lavoro».

È il famoso “lavoro grigio”, molto più subdolo rispetto al nero. L’azienda si tutela dai controlli, ma risparmia ugualmente sul costo del lavoro. Cosa accadeva infatti in caso di ispezioni? Le aziende consegnavano un riepilogo delle ore. «Istruzioni in caso di controlli» secondo l’accusa. «Avevamo paura che si confondessero» dicono invece gli imprenditori.

Basta che paghi tu

Per un lavoratore straniero, il contratto è doppiamente importante. Da quel pezzo di carta dipende la permanenza in Italia. Così diventa un ulteriore strumento di ricatto. E un costo.

«Voglio un contratto annuale e non stagionale, così posso avere la carta di soggiorno», diceva qualche bracciante. «Va bene», rispondeva il padrone. «Ma le tasse le paghi tu: 304 euro». Stessa cosa per chi aveva bisogno di una certificazione unica oppure ancora un numero di giornate sufficienti per il permesso di soggiorno. Si poteva avere tutto, basta pagare. 

Cosa rispondono le aziende? Sono anche loro “costrette a sfruttare” come quelle del Sud? In provincia di Cuneo la situazione appare del tutto diversa. Ci sono imprese agricole che fatturano fino a 124 milioni l’anno. Ogni anno sono circa 450 mila le tonnellate di frutta raccolte da 40 mila braccianti. Pesche, mele, kiwi che in massima parte vengono esportate nei mercati del Nord Europa, Germania in testa.

Le organizzazioni datoriali parlano di una terra di imprenditori onesti. «Qui non siamo a Rosarno, il caporalato non esiste: i datori di lavoro sono persone corrette che pagano i dipendenti», dice Mario Dotto al sito “La Via Libera”. È il segretario della Coldiretti di Saluzzo, che rappresenta il 70 per cento delle aziende agricole del territorio.

Il “vero caporalato”, per loro, è un altro. «Quella che colpisce direttamente i frutticoltori, vale a dire lo sfruttamento vergognoso da parte di chi riconosce loro dei prezzi insufficienti persino a coprire i costi di produzione, con liquidazioni ritardate a 200 o 300 giorni dalla raccolta».

Una delle ditte condannate per caporalato è la classica azienda a km 0, che produce “come una volta” e non mette nella frutta robaccia che fa male.

«Che cosa ci rende così buoni?» si leggeva sul loro sito. «Frutta a km0 maturata sulla pianta. Produzione artigianale e ricette della tradizione». Infine, «nessun tipo di additivo, addensante o colorante».  

Sul fronte del lavoro, però, nessuna dichiarazione. È un aspetto che non fa parte del marketing.

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