Il ricatto e la mancanza di alternative all'origine dell'orrore

Le serre del ragusano, frutto di un mondo senza diritti

  Dobbiamo contestualizzare il dramma delle donne rumene di Vittoria. Andare oltre lo scandalo. Abbiamo di fronte una forma estrema di sfruttamento che ci riguarda tutti. Come un virus, lo schiavismo si è esteso in modi imprevedibili. Ma senza diritti, c'è solo il ricatto e l'orrore
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Particolare delle campagne di Vittoria

Dal minuto 30, l’intervento alla trasmissione di Radio Uno “Restate scomodi”

Festini agricoli, violenza sulle donne, stati di segregazione. Donne rumene costrette a subire ogni tipo violenza. Un dramma dell’immigrazione o un effetto del  “modo di produzione” agricolo italiano?

Negli anni le forme dello sfruttamento si sono progressivamente estese. Oggi nel sud della Sicila osserviamo quella estrema, ma non è escluso che in altre parti d’Italia e d’Europa accadano fenomeni simili.

Come un virus

Lo schiavismo diventa un metodo di organizzazione del lavoro. Si estende da un settore all’altro, dal Sud al Nord, dagli stranieri agli italiani. È pericoloso pensare che la vicenda delle donne rumene non ci riguardi. Che sia solo un problema di diritti umani o intervento umanitario. È invece uno spaventoso campanello d’allarme che dobbiamo comprendere.

L’origine del problema è la fragilità del lavoratore. Se non hai diritti, lentamente e progressivamente devi cedere a qualunque tipo di ricatto. Se sei donna e straniera sei assolutamente vulnerabile.

Il lavoro migrante è stato negli anni il laboratorio della cancellazione dei diritti. Prima il ricatto del permesso di soggiorno. Poi la contrapposizione tra comunità. Infine la mancanza di alternative.

Oggi anche gli italiani, dalla logistica ai centri commerciali, persino negli enti pubblici, sono ricattabili e piano piano devono cedere. È importante non limitarsi al dibattito su italiani e stranieri. Focalizzare solo sul tema immigrazione ci porta fuori strada.

Senza diritti arriva l’orrore

La vicenda del ragusano va avanti da molti anni. Sul territorio operano numerosi soggetti che lavorano nella ricerca e nell’intervento sociale. Molti hanno denunciato il fenomeno. Dalla Cgil alla Chiesa. E poi Ong come Emergency e Medici Senza Frontiere, la locale Associazione per i Diritti Umani, i servizi del Comune e dell’Asp, la cooperativa Proxima, ricercatrici universitarie come Alessandra Sciurba. E tantissimi altri. Una società civile ricca e articolata che nessuno ha voluto ascoltare.

È realmente curioso che la vicenda emerga solo adesso. Il fatto, a livello locale, era ampiamente risaputo. La comunità si è divisa tra chi ha agito, creando anche vie d’uscita per queste donne, e chi ha scelto il silenzio e l’assuefazione.

Il dolore sotto il tappeto

La violenza non è sistematica e ci sono produttori seri e onesti. Non bisogna né generalizzare né boicottare. È vero anche che molti non hanno capito la gravità di quanto stava accadendo. Hanno pensato: finché il fenomeno rimane nei confini locali, lo gestiamo all’interno della comunità.

Ogni soggetto coinvolto ha gestito a suo modo quello che il sindaco di Vittoria ha chiamato «un peso sulla coscienza di tutta la comunità». Ognuno ha “elaborato” questo peso a modo suo. Dando la colpa a qualcun altro. Donne contro altre donne. Uomini calcolatori. Ammiccamenti e silenzi.

È un caso che riguarda la “mentalità” di un pezzo di Sud isolato e arretrato? Assolutamente no. Accanto alle serre dell’orrore troviamo i laboratori che sperimentano nuove combinazioni genetiche dei semi. Gli operatori della zona hanno rapporti commerciali con israeliani, statunitensi, francesi, olandesi, tedeschi. Il ragusano è perfettamente inserito nell’economia “normale”, globalizzata.

Anche noi potremmo elaborare la vicenda pensando che si tratta di un territorio “primitivo” e che la questione ci riguarda marginalmente. Ma da qui si esporta nella grande distribuzione e nelle reti di commercializzazione di tutta Europa. Gente che non sa, non vede, non riporta sulle etichette informazioni che sarebbero essenziali. E che ancora una volta rischia di rimanere “invisibile” rispetto agli orrori dei livelli bassi della filiera agricola.

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