Le donne sono naturalmente portate per l'informatica, scriveva "Cosmopolitan" negli anni '60. Sono biologicamente negate, dice oggi un esponente di Google. Al di là della "natura", resta il fatto che negli anni '40 era fortissima la presenza femminile. Cosa è successo nei decenni successivi?
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“Lavorare con il computer è come cucinare. Devi pianificare e avere quello che ti serve. Devi avere pazienza e abilità nella gestione dei dettagli. Proprio per questo le donne sono naturalmente portate all’informatica”.
Grace Hopper iniziò la sua carriere nel 1949 e, tra le altre cose, impostò le basi del Cobol, il primo linguaggio di programmazione indipendente dalla macchina, usato ancora oggi in alcuni sistemi bancari.
Certo, il paragone risente dei tempi, ma l’affermazione di Hopper è l’esatto contrario del luogo comune prevalente oggi, anche ad alti livelli. “A causa di innate dispositional differences, le donne non sono portate per il computer”, scrisse nel 2017 un ingegnere di Google, successivamente licenziato.
Molte risposte si fermarono alla citazione di Ada Lovelace, una matematica che nel 1840 scrisse una serie di appunti anticipatori della logica degli attuali computer. Ma c’è chi ha fatto qualcosa di più. Bloomberg ha cercato negli archivi dei decenni precedenti al 1980 e ha scoperto che la presenza femminile nella storia dell’informatica è sempre stata rilevante.
Ragazze
“Le ragazze del computer” è il titolo di un articolo pubblicato sulla rivista Cosmopolitan nell’aprile del 1967. Nel 1946, racconta, la discriminazione sessuale nelle assunzioni esisteva, ma non nell’informatica. Era un settore in cui una donna poteva guadagnare l’equivalente di 150mila dollari l’anno. La divisione del lavoro era semplice: agli uomini l’hardware, alle donne il software.
L’articolo di Cosmopolitan
ENIAC, il primo computer degli Stati Uniti destinato a un uso diffuso e costruito da uomini, fu programmato dai sei donne: una squadra tutta femminile.
Certamente la figura professionale era diversa dall’attuale, a volte fare la programmatrice era un’alternativa al ruolo di segreteria e i livelli salariali non erano equiparati. Una delle mansioni di livello inferiore consisteva nel perforare le schede che trasferivano le istruzioni alle macchine. L’attività appariva più affine alla tessitura che alla scrittura di codice e probabilmente per questo si assumevano molte donne.
Ma le stime nei decenni precedenti ai ’70 parlano comunque di una presenza femminile compresa tra il 30 e il 60%.
Dopo
Cosa è accaduto dopo? È difficile individuare una sola causa. Secondo alcuni (Bloomberg), dagli anni ’60 negli Stati Uniti aumentarono le barriere in ingresso che favorivano gli uomini. Il New York Times racconta che negli anni ’40 e ’50 non c’erano corsi di informatica nelle università. Le selezioni del personale si facevano attraverso test di logica.
Secondo altri (NPR), l’arrivo del personal computer negli anni ’80 trasformò lo studio dell’informatica. L’apprendimento casalingo favoriva i ragazzi. Il Commodore 64 era il tipico regalo per il figlio maschio, che iniziava a giocare e poi si appassionava ai rudimenti del linguaggio BASIC.
Due immagini diverse: donne glamour e adolescenti scontrosi
Da qui una serie di effetti a catena.
L’informatica non fu più un affare per donne. Nacque uno stereotipo che dura fino a oggi: il programmatore è un giovane maschio bianco e brufoloso, che indossa felpa e magliette colorate, mangia junk food e ha interessi esclusivamente tecnici. Film come “War games – Giochi di guerra” confermarono questa immagine: nel 1983, un ragazzino abile con il computer rischia di scatenare la guerra nucleare comodamente seduto nella sua stanzetta di adolescente USA.
Così effetti e cause, rappresentazione e realtà si agganciarono fino a creare un circolo vizioso. L’immagine del nerd sociopatico, allergico alle regole, scontroso, malvestito e geniale si sovrappone, fino a coincidere perfettamente, con quella del programmatore.
Così le aziende e i reclutatori, gli uffici del personale e gli addetti alle “risorse umane”, al 99% maschi, finiscono col pensare: se non corrisponde a quello stereotipo, non sarà un buon informatico. La classica profezia che si autoavvera.
Sorrisi
L’immagine dell’articolo di Cosmopolitan era completamente diversa: donne glamour sorridenti e capelli cotonati, non adolescenti pieni di problemi e rancori.
Le conseguenze le abbiamo sotto gli occhi. La cultura disruptive della California è direttamente figlia del “suprematismo nerd”, l’idea che con la tecnologia puoi risolvere qualsiasi problema, anche non tecnico. Un’idea che accomuna sia i magnati proprietari dei giganti del web che gli hacker alternativi fanatici di Linux.
Se le impiegate dell’IBM intervistate da Cosmopolitan andavano al lavoro e poi rientravano a casa, i nerd anni ’80 anticipano i nomadi digitali di San Francisco degli anni 2000. Il lavoro non ha interruzioni, l’ufficio è il portatile, la tecnologia è l’unico interesse degno di nota.
Un quadro parziale ma comunque significativo di quanto è diventata povera un’informatica esclusivamente maschile e monodimensionale, ossessionata dalla performance e priva di orizzonte.
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Le ragazze del computer. Quando l’informatica era un lavoro da donne
“Lavorare con il computer è come cucinare. Devi pianificare e avere quello che ti serve. Devi avere pazienza e abilità nella gestione dei dettagli. Proprio per questo le donne sono naturalmente portate all’informatica”.
Grace Hopper iniziò la sua carriere nel 1949 e, tra le altre cose, impostò le basi del Cobol, il primo linguaggio di programmazione indipendente dalla macchina, usato ancora oggi in alcuni sistemi bancari.
Certo, il paragone risente dei tempi, ma l’affermazione di Hopper è l’esatto contrario del luogo comune prevalente oggi, anche ad alti livelli. “A causa di innate dispositional differences, le donne non sono portate per il computer”, scrisse nel 2017 un ingegnere di Google, successivamente licenziato.
Molte risposte si fermarono alla citazione di Ada Lovelace, una matematica che nel 1840 scrisse una serie di appunti anticipatori della logica degli attuali computer. Ma c’è chi ha fatto qualcosa di più. Bloomberg ha cercato negli archivi dei decenni precedenti al 1980 e ha scoperto che la presenza femminile nella storia dell’informatica è sempre stata rilevante.
Ragazze
“Le ragazze del computer” è il titolo di un articolo pubblicato sulla rivista Cosmopolitan nell’aprile del 1967. Nel 1946, racconta, la discriminazione sessuale nelle assunzioni esisteva, ma non nell’informatica. Era un settore in cui una donna poteva guadagnare l’equivalente di 150mila dollari l’anno. La divisione del lavoro era semplice: agli uomini l’hardware, alle donne il software.
ENIAC, il primo computer degli Stati Uniti destinato a un uso diffuso e costruito da uomini, fu programmato dai sei donne: una squadra tutta femminile.
Certamente la figura professionale era diversa dall’attuale, a volte fare la programmatrice era un’alternativa al ruolo di segreteria e i livelli salariali non erano equiparati. Una delle mansioni di livello inferiore consisteva nel perforare le schede che trasferivano le istruzioni alle macchine. L’attività appariva più affine alla tessitura che alla scrittura di codice e probabilmente per questo si assumevano molte donne.
Ma le stime nei decenni precedenti ai ’70 parlano comunque di una presenza femminile compresa tra il 30 e il 60%.
Dopo
Cosa è accaduto dopo? È difficile individuare una sola causa. Secondo alcuni (Bloomberg), dagli anni ’60 negli Stati Uniti aumentarono le barriere in ingresso che favorivano gli uomini. Il New York Times racconta che negli anni ’40 e ’50 non c’erano corsi di informatica nelle università. Le selezioni del personale si facevano attraverso test di logica.
Secondo altri (NPR), l’arrivo del personal computer negli anni ’80 trasformò lo studio dell’informatica. L’apprendimento casalingo favoriva i ragazzi. Il Commodore 64 era il tipico regalo per il figlio maschio, che iniziava a giocare e poi si appassionava ai rudimenti del linguaggio BASIC.
Da qui una serie di effetti a catena.
L’informatica non fu più un affare per donne. Nacque uno stereotipo che dura fino a oggi: il programmatore è un giovane maschio bianco e brufoloso, che indossa felpa e magliette colorate, mangia junk food e ha interessi esclusivamente tecnici. Film come “War games – Giochi di guerra” confermarono questa immagine: nel 1983, un ragazzino abile con il computer rischia di scatenare la guerra nucleare comodamente seduto nella sua stanzetta di adolescente USA.
Così effetti e cause, rappresentazione e realtà si agganciarono fino a creare un circolo vizioso. L’immagine del nerd sociopatico, allergico alle regole, scontroso, malvestito e geniale si sovrappone, fino a coincidere perfettamente, con quella del programmatore.
Così le aziende e i reclutatori, gli uffici del personale e gli addetti alle “risorse umane”, al 99% maschi, finiscono col pensare: se non corrisponde a quello stereotipo, non sarà un buon informatico. La classica profezia che si autoavvera.
Sorrisi
L’immagine dell’articolo di Cosmopolitan era completamente diversa: donne glamour sorridenti e capelli cotonati, non adolescenti pieni di problemi e rancori.
Le conseguenze le abbiamo sotto gli occhi. La cultura disruptive della California è direttamente figlia del “suprematismo nerd”, l’idea che con la tecnologia puoi risolvere qualsiasi problema, anche non tecnico. Un’idea che accomuna sia i magnati proprietari dei giganti del web che gli hacker alternativi fanatici di Linux.
Se le impiegate dell’IBM intervistate da Cosmopolitan andavano al lavoro e poi rientravano a casa, i nerd anni ’80 anticipano i nomadi digitali di San Francisco degli anni 2000. Il lavoro non ha interruzioni, l’ufficio è il portatile, la tecnologia è l’unico interesse degno di nota.
Un quadro parziale ma comunque significativo di quanto è diventata povera un’informatica esclusivamente maschile e monodimensionale, ossessionata dalla performance e priva di orizzonte.
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