I circuiti con cui i migranti arrivano in Italia e finiscono per lavorare nei campi sono almeno quattro. E sono generalmente separati:
- braccianti stagionali comunitari dell’Est Europa;
- lavoratori non comunitari che arrivano con i flussi stagionali;
- migranti subsahariani che sono passati dalla richiesta d’asilo;
- lavoratori – in genere asiatici – arrivati con un contratto di lavoro.
1. Est Europa
Il primo caso è dunque quello dell’Est Europa. In grandissima parte si tratta di braccianti bulgari e romeni, con una componente femminile molto forte. Partono con auto, furgoncini o con i pullman di linea. A volte intere famiglie. Restano il tempo necessario per la raccolta e tornano ai paesi d’origine. Sono attratti soprattutto dalla differenza di valore delle monete: per esempio, un leu romeno equivale a 0,21 centesimi di euro.
Tra i romeni che arrivano in Italia ci sono enormi differenze. Ma tra i casi estremi, abbiamo persone in condizioni di estrema fragilità: analfabeti delle zone al confine con la Moldavia; persone di origine Rom emarginate già in patria; donne con situazioni familiari difficili; famiglie in condizioni di estrema povertà che viaggiano dalla provincia di Botosani. Apparentemente sono liberi di andare e venire. Ma proprio l’estrema fragilità della loro condizione li rende ricattabili.
2. Flussi
Il secondo caso è quello dei flussi stagionali. Riguardano i lavoratori non comunitari e sostanzialmente sono stati ridotti, se non bloccati, negli ultimi anni. I flussi sono un canale importante di reclutamento nel Nord Italia, nel resto del Paese non hanno mai funzionato. In teoria, comunque, ogni anno il governo emana un decreto sia per i flussi permanenti che per quelli stagionali. Ormai chiusi i primi, fortemente limitati i secondi, per accedere a un permesso di lavoro temporaneo occorre cliccare per primi sul portale del Ministero dell’Interno e sperare nella sorte.
“A fronte di una richiesta di circa diecimila stagionali, il sistema dei flussi fornisce quest’anno solo 1200 lavoratori”, dichiarava il sindaco di Saluzzo Mauro Calderoni già nel 2019. In contemporanea, Coldiretti chiedeva al governo con urgenza un nuovo decreto. Ma sia il presidente Conte che il ministro Salvini erano impegnati a bloccare i porti e a sostenere la blindatura delle frontiere italiane.
I produttori lamentano mancanza di manodopera agricola
Si assisteva così al paradosso di una manodopera insufficiente in vaste aree come l’Emilia e il Veneto. A Saluzzo, nel distretto agricolo di Cuneo, c’era invece una concentrazione di migranti con documenti precari, solitamente richiedenti asilo in attesa di un permesso, che si accampava nel grande spazio del Foro Boario.
Mentre il lavoro era gestito da reti di caporali nati per l’occasione, nei pressi i manifesti di un’agenzia interinale annunciavano: «Ti piacerebbe lavorare nel settore agricolo?». Con un linguaggio che nel contesto sembrava beffardo, l’annuncio spiegava che «le risorse si occuperanno di raccolta frutta, posizionamento nelle cassette, controllo qualità dei prodotti. Il candidato ideale si presenta con i seguenti requisiti: buona manualità; predisposizione al lavoro fisico e all’aperto».
In pratica, una rappresentazione plastica del fallimento del collocamento privato, nella sua duplice forma legale (somministrazione di manodopera) che illegale (caporalato). La richiesta di collocamento pubblico nelle campagne è una delle prime presentate da sindacati e attivisti.
3. Richiedenti asilo
Il terzo canale, quello maggiormente visibile, riguarda lavoratori generalmente subsahariani, sbarcati nel Sud Italia, ai quali è riservata la lunga trafila burocratica della richiesta asilo, di un diniego molto probabile, di una serie di ricorsi e attese. Un limbo che dura fino a quattro anni e che inevitabilmente trascina in un ghetto. I ghetti sono pieni, da tempo, di migranti respinti dal rifiuto alla richiesta d’asilo.
Solo nel 2017, 55mila dinieghi hanno letteralmente creato un serbatoio di manodopera fortemente ricattabile da reperire nei Centri d’accoglienza o negli insediamenti informali.
4. Vittime della Bossi-Fini
Una categoria a parte è costituita dai lavoratori che arrivano seguendo le “regole” della Bossi-Fini. A volte sono maghrebini, in genere si tratta di asiatici: indiani punjabi e bangladesi. Arrivano in genere con un contratto di lavoro in tasca, spesso fittizio. Per ripagare il “favore” di essere arrivati in aereo, sono spesso costretti a restituire il denaro pagato con anni di lavoro schiavile.
Questo canale, incredibilmente, si inserisce da molti anni nel meccanismo della Bossi-Fini. Una vera trappola che prevede un contratto firmato a distanza intercontinentale, ma che alla fine sfocia nello sfruttamento più duro.
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