Le parrocchie di Regalpetra

Le parrocchie di Regalpetra

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Libro scritto da:   Leonardo Sciascia
Un classico da rileggere. Le parrocchie di Regalpetra è il libro in cui Sciascia racconta il suo paese in provincia di Caltanissetta. Cronache surreali e realismo delle aule scolastiche ci ricordano quanto può essere spaventosa la povertà. E che per nessun motivo dobbiamo tornare indietro

Regalpetra è un paese immaginario, che però somiglia molto a Racalmuto, in provincia di Caltanissetta. Qui Leonardo Sciascia insegnava alle scuole elementari. In questo borgo nel cuore dell’isola ascoltava i personaggi pirandelliani del circolo, osservava le dinamiche elettorali e i meccanismi del potere nel secondo dopoguerra.

Soprattutto le cronache scolastiche hanno la potenza delle pagine di Barbiana. I figli dei contadini ascoltano a fatica la lezione, ma soprattutto aspettano la refezione, destinata solo ad alcuni di loro, ogni giorno a sorteggio.

D’estate i signori si preparano per la villeggiatura. Ovvero si trasferiscono dai caldissimi palazzi di città alle ville dei loro possedimenti in campagna. La vacanza è “prendere il fresco”, nessuno penserebbe di prendere il sole, la pelle scottata dal sole è roba da cafoni.

In campagna, però, manca tutto. A cominciare dall’acqua. Occorre prenderla dalle fontane in paese e trasportare le quartare, grandi vasi di terracotta coi manici, fino alle ville. È un compito riservato ai carusi, i bambini che vanno a servizio.

Se ne lamentano i signori. È difficile trovarne. Hanno pretese crescenti, addirittura una madre pretendeva per il figlio un uovo al giorno. È così delicato, ironizza il signore. Le uova sembrano un’ossessione. I signori le vogliono fresche, mandano ogni giorno i bambini a comprarne. I bambini cercano di rubarne quanto più possono. Uno era bravissimo, neanche il tempo di appoggiarle sul bancone e – con gesto da prestigiatore – in un istante ne prendeva uno, lo succhiava e faceva sparire il guscio.

Il maestro Sciascia li vedeva alla vigilia della stagione estiva diventare sempre più cattivi. Trattati come animali (“Meglio prendere i maschi a servizio, ché le femmine ti fanno nascere la figliolata”), rispondevano come potevano. Chi rubava, chi sputava nell’acqua destinata al padrone. Uno aveva minacciato il padre col fucile, un altro d’inverno lo coprivano con quello che trovavano, magliette estive, fazzoletti da donna, decine di strati per fermare il vento gelido.

Bambini di dieci anni. Poi, dall’altra parte, i signori. Padroni delle terre, delle saline e delle zolfare. In buona parte, l’unico sforzo che avevano fatto era stato accettare un’eredità. Nel loro passaggio sulla terra, “avrebbero lasciato solo un’impronta sulla poltrona del circolo”. Parlavano prevedibilmente di donne, tutti grandi amatori, tutti galli alla Brancati. Avevano vissuto il passaggio dalle gerarchie fasciste a quelle democristiane avendo cura di conservare il potere che vivevano come immutabile, naturale.

E si lamentavano, sempre. Soprattutto di quei bambini indispensabili per la villeggiatura. È diventato più difficile trovarne. Bene, dice Sciascia. Segno che si sta meglio. No, risponde il signore. Le madri non li mandano a servizio per orgoglio. Preferiscono morire di fame, per orgoglio. Bene, dice ancora Sciascia.

Ora che l’orologio della storia sembra tornare indietro, ascoltiamo ancora il lamento del padrone che non trova braccia a basso costo. Per spostare ombrelloni, per consegnare pizze, per raccogliere l’uva. Bene, diciamo. Che sia per benessere o per orgoglio. Bene. Qualunque sia il freno per il padrone che si immagina detentore di un potere assoluto e immutabile.

 

 



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