Le lacrime di coccodrillo dell’agricoltura italiana

  I prodotti nordafricani senza dazi creano allarme tra i produttori agricoli, gli stessi che non hanno mai affrontato seriamente lo sfruttamento dei migranti o puntato sulle produzioni di qualità. Oggi si vedono i risultati di una filiera orientata al basso costo. Prima o poi arriva qualcosa che costa meno. E ti fa chiudere.
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Le campagne di Foggia

Da qualche settimana i produttori italiani, specie al Sud, sono in allarme. L’arrivo sul mercato di prodotti del Nordafrica senza dazi rischia di sconvolgere economie fragili.

In realtà si tratta del classico “nodo al pettine”. I produttori di arance e pomodoro, in gran parte, hanno usato il dumping sociale e ora piangono per il dumping tout court. Si lamentano dei controlli anticaporalato “che fanno chiudere”, ma pretendono controlli sulle importazioni.

Il caporalato è un pezzo del sistema, non un nemico esterno

Non poteva durare a lungo un sistema che mantiene prezzi bassi sfruttando migliaia di persone dall’Africa e dall’Est Europa. Che crea orrori come i ghetti o la violenza diffusa. Eppure ci si è consolati dando la colpa alle “agromafie” e riducendo la questione al caporalato. Che è uno dei pezzi del sistema, non un nemico esterno. L’ideologia che isola il caporalato dal contesto nasconde una precisa scelta delle aziende, cioè il “modo di produzione” basato su forme estreme di sfruttamento, per comprimere i prezzi ed essere competitivi.

I governi degli anni ultimi sono stati di fatto complici, mantenendo lo spirito della Bossi- Fini. La legge, paradossalmente, è uno degli elementi più importanti della filiera. Le lentezze burocratiche e la precarietà di documenti sempre in scadenza creano masse di braccia pronte da sfruttare.

Per ironia del destino, oggi il sottosegretario all’agricoltura è Giuseppe Castiglione, che può essere definito il politico più legato al centro di accoglienza di Mineo. Un sistema che – concentrando migliaia di persone nel limbo dell’attesa dei documenti – ha creato caporalato in una zona dove non esisteva. Il sottosegretario non è direttamente responsabile, ma il prodotto del “limbo dell’accoglienza” è esattamente questo.

Troppi produttori non vogliono controlli anticaporalato ma pretendono controlli sulle importazioni

Adesso gli agricoltori chiedono un’etichettatura della provenienza. I ministri sostengono il prodotto italiano, in particolare pomodori e arance. Quelli a maggiore rischio sfruttamento.

Cambiando continente, si invertono le parti. A lamentarsi sono gli australiani. Lì il pomodoro locale non è sostenuto da soldi pubblici e il costo del lavoro è più alto. In Australia la Cina si chiama Italia: il terzo produttore al mondo invade il mercato locale.

È paradossale ma significativo il caso Garofalo: una tonnellata di spaghetti sequestrati al porto di Genova. La pasta italiana era fatta col grano tenero della Turchia. La giustificazione dell’azienda forse è un’aggravante: si tratta di un sottomarchio destinato al mercato africano, gli spaghetti “Santa Lucia”. Altro che “Made in Italy”. Un pastificio napoletano usa grano turco per esportare in Africa. Nella catena del pomodoro accadono cose simili.

Con questa filiera non si va da nessuna parte. Solo diritti globali – a partire da quelli dei lavoratori – permettono di giocare la partita con le stesse regole per tutti. Magari sostituendo il basso costo con la qualità. Altrimenti, prima o poi arriva qualcosa che costa meno. E ti fa chiudere

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