“Le conseguenze” racconta ciò che subiscono madri, padri, sorelle, fratelli, figlie e figli delle vittime di femminicidio. A loro restano “i giorni del dopo, i ricordi immobili trattenuti dalle cornici, le spese legali, le umiliazioni nei tribunali, le accuse mediatiche”, scrive l’autrice.
Questo denso libro di Stefania Prandi, edito da Settenove, raccoglie una serie di storie che focalizzano i tratti comuni del femminicidio: la colpevolizzazione delle vittime; il contesto culturale che assolve gli assassini; il profilo psicologico di uomini che “non sono impazziti” all’improvviso ma sanzionano una mancanza, un affronto, in base a un codice culturale molto profondo.
Un diffuso luogo comune vede nel femminicidio un crescendo di violenza. Dopo molte tragedie, c’è sempre chi dice: “Non c’erano stati segnali”. Come se si dovesse intervenire solo in presenza di botte e lividi. Le ferite possono essere invisibili. Può esserci violenza psicologica o manipolazione mentale, perpetrate per anni.
“Signora, ci pensi bene. È il padre dei suoi figli”
Il femminicidio, nella metà dei casi, secondo una stima, non è un crescendo che si conclude con l’uccisione. Né un momento di inspiegabile follia. «Un femminicidio non può essere attribuito al caso, ma è un fenomeno con radici culturali e sociali profonde, attecchite su un senso di proprietà e di dominio degli uomini sulle donne ancora molto diffuso».
La prova? Molte donne sono uccise a coltellate. Perché quest’arma? È un oggetto a portata di mano, si trova in cucina, dicono alcuni. Non è così semplice. In un caso, un uomo ha ucciso con quarantotto coltellate. Continuava a colpire anche quando la moglie era già morta. In un altro, un fendente alla guancia era così profondo da far vedere i denti. In un altro ancora, il corpo è abbandonato in riva a un fiume in balìa degli animali selvatici. È la volontà di sfigurare, di far soffrire e punire anche oltre la morte.

Eppure, nonostante tutto, i termini della questione sono spesso invertiti. È la mentalità del ”se l’è cercata”, che indaga sulla vittima, che parla di “eccessi d’amore” in presenza di un assassinio, che è pronta a giustificare il colpevole. È stato un raptus, le voleva troppo bene. Non sapete quanto soffriva.
Una scena è significativa: l’avvocato dell’omicida definisce la vittima una poco di buono e insinua dubbi sulla sua fedeltà. Il padre protesta: “A dover essere giudicato è l’assassino”. Il giudice alza la voce: “Lei faccia silenzio, altrimenti la butto fuori”.
“Come eri vestita?” è una iniziativa nata negli Stati Uniti sulle vittime di violenza sessuale. Serve a evidenziare tutti i casi in cui la vittima, in particolare attraverso l’abbigliamento, è colpevolizzata. È quello che è successo a Ilaria, un’altra vittima: hanno pubblicato alcuni scatti in reggiseno rosa. Come dire: era una poco di buono.
In un altro caso, prima di una denuncia, arrivano i consigli: “Signora, ci pensi bene. È il padre dei suoi figli. Gli assistenti sociali le portano via i figli. Le separazioni costano”. E poi c’è il “principio astratto di bi-genitorialità”. Come possono crescere senza il padre? Sì, è un uomo violento, ma i bambini ne hanno bisogno.
Il libro è stato scritto prima della procedura nota come “codice rosso”. La situazione dovrebbe essere migliorata. Ma resta comunque allarmante la frase riportata da una madre. Dopo l’ennesima segnalazione, si sentì rispondere dalle forze dell’ordine: “Se per tutti i litigi tra moglie e marito si dovesse fare una denuncia, saremmo a posto”. Per molti la famiglia è extraterritoriale, non bisogna impicciarsi. Eppure in quel caso c’erano minacce pesanti, botte, cambiamenti repentini e nuove violenze. Il repertorio classico che porta a un femminicidio. Come in effetti sarà: un colpo alla nuca.
“È solo un litigio tra moglie e marito”
Una madre consiglia: “Alle donne dico: non denunciate. La denuncia incattivisce l’uomo”. Prima di codice rosso, appunto, la prospettiva era quella di andare in caserma e poi tornare a casa. O, in alternativa, andare via con i bambini subendo la denuncia per sottrazione di minori.
Scorrendo le storie raccontate, diventa chiaro che l’espressione “violenza domestica” non è adeguata. C’è chi propone “terrore”, per la paura del male che potrebbe arrivare.
La paura sopravvive anche tra i superstiti, li incattivisce. Lui potrebbe uscire. Il timore diventa desiderio di vendetta: “Vivo solo per uscire da questo incubo. E per aspettarlo, quando uscirà”, dice la madre di una vittima.